MALFANTE, Antonio
Nacque presumibilmente a Genova nel primo decennio del XV secolo, figlio naturale di Tommaso. Il suo nome è rimasto a lungo sconosciuto; solo agli inizi del secolo scorso lo storico francese Charles de La Roncière rinvenne sul mercato antiquario parigino un volume manoscritto contenente, fra le altre cose, la trascrizione di una relazione in latino che nel 1447 il M. aveva indirizzato dal Touat, nel deserto sahariano, a un certo Giano o Giovanni Marione (in realtà Marchione) di Genova. Il manoscritto (Bibliothèque nationale di Parigi, Nouv. acq. lat., 1112) fu pubblicato nel 1919 dallo stesso studioso, il quale decifrò anche il nome dell'autore, scritto in forma criptata, attribuendogli un'origine genovese, senza tuttavia riuscire a dare ulteriori informazioni su di lui. Furono le ricerche d'archivio di R. Di Tucci che, negli anni Trenta del secolo scorso, permisero di mettere pienamente in luce le origini e le vicende di questo esploratore.
I Malfante erano un'antica e nobile famiglia genovese. Forse originari di Lerici, nella Riviera di Levante, essi si trasferirono in città fin dalla metà del XII secolo, riuscendo nel giro di pochi decenni a inserirsi nel ceto dirigente del Comune, più volte chiamati a far parte di Consigli e magistrature. Loro zona di residenza fu S. Pietro di Banchi, nel cuore mercantile di Genova, in quell'intricato dedalo di vicoli e piazzette dove avevano la loro abitazione le maggiori famiglie della nobiltà guelfa, in massima parte impegnate in attività finanziarie e commerciali. Sul loro esempio e spesso in loro compagnia i Malfante si impegnarono fin dalla metà del Duecento nei commerci con la Francia e l'Inghilterra, legandosi - anche grazie a vari matrimoni - con alcune tra le più prestigiose casate cittadine, quali i Lercari, i da Camilla, i Cicala, i De Mari. Questi rapporti contribuirono non poco all'ascesa sociale della famiglia che, ottenuto a tutti gli effetti lo status nobiliare, si costituì in consorteria a sé ("albergo"), incentrata nella contrada dei da Camilla, non distante da Banchi. La sua consistenza numerica restò tuttavia sempre estremamente esigua, sicché rovesci di fortuna e avversità varie (in buona parte legate alla militanza guelfa) ne ridussero considerevolmente il peso politico ed economico, tanto che l'albergo, dopo aver subito la distruzione della casa nel corso di un'ennesima guerra civile, nel 1414 era ridotto a sole tre persone. Una di queste era Tommaso del fu Bartolomeo, mercante e uomo d'arme (mestieri non incompatibili nella Genova medioevale), noto per avere partecipato nel 1408 a una spedizione condotta a Chio da Megollo Lercari, omonimo del più celebre capitano.
Figlio di Tommaso, il M., a quanto sembra, fu successivamente legittimato dal padre che dal suo matrimonio aveva avuto solo due figlie femmine. La condizione di figlio naturale, unitamente alle difficoltà economiche in cui si dibatteva la famiglia, lo spinsero giovanissimo a cercare fortuna lontano da Genova. Intorno al 1420, poco prima della morte del padre, egli si trasferì pertanto all'estero, presumibilmente in Spagna dove, grazie alle sue capacità e alla protezione dei potenti banchieri genovesi Centurione, riuscì a mettere insieme una discreta fortuna. Nel 1443, desiderando rientrare in patria, ma temendo di essere chiamato dal Fisco per rispondere dei consistenti debiti maturati negli anni a seguito del mancato pagamento della tassa ordinaria (la cosiddetta "avaria"), ricorse alla mediazione di Percivalle Marchione, un nobile genovese suo amico che, come altri della sua famiglia, commerciava nel Regno d'Aragona e in particolare nell'isola di Maiorca. Grazie agli sforzi di questo e di altri amici, nel dicembre di quell'anno il M. ottenne dalle autorità del Comune il permesso di rientrare a Genova, impegnandosi a pagare per dieci anni la somma di 10 lire a saldo di quanto dovuto al Fisco. Nel 1445 egli fece pertanto ritorno nella sua città natale ma la permanenza fu assai breve perché l'anno successivo, regolate alcune pendenze e aperto un conto ("colonna") presso il Banco di S. Giorgio, lasciò nuovamente Genova, questa volta per sempre.
Partito nel settembre 1446 sulla nave di Girolamo de Savignone in compagnia di Percivalle Marchione, il M. raggiunse il porto di Honein, sulla costa algerina. Di qui, separatosi dall'amico, egli si inoltrò verso i monti dell'Atlante per il suo viaggio sahariano. Le motivazioni della spedizione sono piuttosto oscure. Dalla relazione sembra che il M. portasse con sé un quantitativo di merci nella speranza di concludere qualche buon affare (in realtà poi fallito, per sua stessa ammissione); ma l'ipotesi più probabile è che egli avesse ricevuto dai Marchione e da altre compagnie commerciali genovesi l'incarico di indagare sulle possibili risorse dell'entroterra e soprattutto appurare l'esistenza di giacimenti d'oro per soddisfare la crescente richiesta del prezioso metallo, accentuatasi in quegli anni a seguito di una grave generale crisi monetaria. La scelta del M. non dovette essere casuale. Il mondo nordafricano non doveva infatti essergli sconosciuto ed è presumibile che negli anni della sua lunga permanenza nel Mediterraneo occidentale egli avesse stretto amicizie e relazioni di commercio con mercanti e signorotti della costa del Maghreb, apprendendone anche la lingua. Dalla lettera risulta chiaro infatti, che egli dovette muoversi in quelle terre, da secoli mai più battute da un europeo, con una certa sicurezza e fidando di buone protezioni e amicizie.
Honein, punto di partenza del suo viaggio verso l'interno, era il porto della città di Tlemcen, che dalla prima metà del XIII secolo era divenuta la capitale del Regno dell'Algeria occidentale, retto dalla dinastia degli Abd al-Waditi. Questo Regno, spesso esposto agli attacchi dei vicini Merinidi del Marocco, attraversava una grave crisi, tra complotti interni e disordini vari che avevano più volte costretto i sultani a cercare riparo presso le fedeli tribù berbere del Sud. Da questo stato di anarchia era derivata una progressiva frantumazione della struttura del Regno, con ampie zone del territorio (in particolare nell'immenso retroterra meridionale) praticamente autonome e con i porti della costa trasformati in Repubbliche semindipendenti, dove cominciava a svilupparsi un'attiva pirateria, destinata a grandi fortune nel secolo successivo. Nonostante le difficoltà il Regno degli Abd al-Waditi continuava a essere ancora abbastanza prospero, con un artigianato specializzato nella lavorazione della lana e nell'edilizia monumentale, aperto agli scambi con l'interno e con l'Occidente, grazie anche alla presenza di una ricca e attiva colonia ebraica continuamente rafforzata dall'apporto di profughi dalla Spagna. In particolare il porto di Honein (cittadina rasa al suolo nel 1534 per ordine di Carlo V) era visitato annualmente da galee mercantili di Genova e Venezia e ospitava probabilmente anche una piccola comunità "franca", in massima parte costituita da italiani.
Da qui, il M. si unì a una carovana di mercanti arabi diretta verso Sud e dopo avere raggiunto la località di Sigilmessa nella vallata del Tafilet (Marocco), abituale tappa lungo la via verso l'interno, si inoltrò in un viaggio di dodici giorni nel pieno del deserto del Sahara, fino a raggiungere la regione del Touat, al confine tra la zona delle grandi dune occidentali e le terre dei Tuareg. Questo territorio, costituito da villaggi dispersi tra varie oasi, era retto da una ventina di principi, residenti in altrettanti castelli e tutti più o meno imparentati tra loro. Il M. si stabilì nella città fortificata di Tamentit, ai margini orientali della regione, ottenendo la protezione dello sceicco locale Sidi Yahia ben-Idir, grazie al quale poté girare ovunque indisturbato, tra l'iniziale stupore degli abitanti che mai avevano visto prima di allora un cristiano.
La città, come un po' tutto il Touat, era un importante centro di scambi per l'Africa occidentale, dove viveva una ricca e influente colonia ebraica e con un mercato frequentato da mercanti egiziani, sudanesi ed etiopi. Le lunghe carovane di cammelli provenienti dalla costa cariche di grano e orzo (prodotti di cui il territorio era totalmente privo) incrociavano quelle che da Timbuctù e dal centro dell'Africa portavano schiavi, oro in polvere, barre di salgemma e burro vegetale; ma soprattutto Tamentit e il Touat erano un importante emporio per il commercio del rame che, in buona parte importato in Egitto e in Tunisia da Veneziani e Genovesi, era usato dalle popolazioni di colore quale moneta di scambio. Gran parte dei mercanti del Touat, tra cui il protettore del M., avevano stretti rapporti commerciali con Timbuctù, Gao, Takedda, Koukia, le città ai margini del Sahel, che costituivano una sorta di catena di "porti" in territorio nero allo sbocco degli itinerari sahariani.
Grazie ai racconti dei mercanti del Touat, e soprattutto di Sidi Yahia ben-Idir, che aveva trascorso dodici anni a Timbuctù, il M. poté raccogliere informazioni di prima mano sui popoli e le terre del bacino del Niger, dalla costa atlantica al lago Ciad, che egli elenca con sorprendente precisione, sebbene confonda in un unico fiume il Niger, il Senegal e il Nilo. Nella sua relazione, il M. parla dei Tuareg (i "Filistei") dal volto coperto e dalla pelle bianca, descrivendone i costumi alimentari e l'indomito spirito guerriero, ma a incuriosirlo maggiormente è l'immenso mondo dell'Africa nera, popolata da una moltitudine di popoli in massima parte sconosciuti agli stessi Arabi del Touat.
"Essi - scriveva il M. - sono idolatri e fanno tra loro grandissime guerre per difendere la propria legge e la propria idolatria. Alcuni adorano il sole, altri la luna, altri i sette pianeti, altri il fuoco, altri lo specchio che riflette la loro immagine, altri adorano alberi frondosi o statue di legno cui fanno sacrifici" (Di Tucci, 1935, p. 74).
A colpire l'immaginazione del M. sono in primo luogo i costumi dei neri: la nudità abituale, le pratiche sessuali (il concubinato, l'incesto), il cannibalismo, la magia, sebbene l'interesse maggiore fosse ovviamente rivolto alle prospettive economiche del mondo sahariano, anche se non gli riuscì di sapere dove fossero le mitiche terre dell'oro. Il giudizio complessivo del M. sulle opportunità offerte dal commercio sahariano fu positivo: il Touat era ben frequentato da mercanti e nella regione ampia era la richiesta di prodotti merceologici, ma l'esosità dei commercianti locali rendeva alla fine difficile ogni affare con loro, come ebbe a sperimentare lo stesso M., che dovette lamentare una perdita di ben 2000 "doppie". Non è noto quanto il M. si sia trattenuto nel Sahara. La lettera a Giovanni Marchione fu scritta nel 1447 e in essa è, tra le righe, preannunciato il suo prossimo ritorno.
Di certo egli raggiunse Malaga, dove morì nell'estate 1450, senza eredi.
Lasciò una modesta fortuna che, presa in consegna dai fratelli Nicolò e Giovanni Centurione, residenti nelle Baleari, fu poi oggetto di una lunga controversia tra le sorellastre.
Difficile dire se e quale diffusione ebbe all'epoca la relazione del viaggio del M.; di certo essa non influenzò i cartografi genovesi che infatti negli anni immediatamente successivi a quel viaggio non riportarono nella loro produzione alcuna delle indicazioni contenute nella sua lettera. Sembra tuttavia probabile che essa fosse nota al navigatore veneziano Alvise Da Mosto, forse tramite il genovese Antoniotto Usodimare che, come lui al soldo portoghese, lo accompagnò nella prima spedizione (1455-56) lungo la costa occidentale dell'Africa, fino alla foce del Senegal. La relazione del Da Mosto, che si limitò a costeggiare il litorale senza penetrare profondamente nell'entroterra, riporta infatti notizie riguardanti il Touat, i Tuareg e i costumi delle popolazioni indigene che sembrano chiaramente derivate dal racconto del M.; inoltre, tanto Da Mosto che Usodimare narrano di essersi imbattuti nel corso della stessa spedizione in alcuni genovesi che essi ritennero discendere dai marinai dei fratelli Vivaldi, che alla fine del XIII secolo si erano avventurati in quelle terre, ma che non è escluso fossero compagni del M. o avessero partecipato ad altre simili spedizioni sahariane (rimaste ignote) organizzate dai Marchione o da altri mercanti genovesi.
Fonti e Bibl.: Ch. de La Roncière, Découverte d'une relation de voyage datée du Touat et décrivant en 1447 le bassin du Niger, Paris 1919; P. Schiarini, A. M. mercante genovese della prima metà del secolo XV e viaggiatore all'interno del continente africano, in Boll. della R. Soc. geografica italiana, s. 5, X (1921), pp. 441-456; Ch. de La Roncière, La découverte de l'Afrique au Moyen-Âge. Cartographes et explorateurs, I, Le Caire 1925, pp. 143-160; R. Di Tucci, Nuovi documenti e notizie sul genovese A. M., il primo viaggiatore all'interno del continente africano, in Boll. della R. Soc. geografica italiana, s. 6, XI (1934), pp. 179-210; Id., Il genovese A. M., la famiglia, la vita, l'esplorazione del Sahara, Bologna 1935; R. Lefèvre, A. M. e il suo viaggio sahariano, in Riv. delle colonie, X (1936), pp. 47-51; G. Pistarino, I Portoghesi verso l'Asia del prete Gianni, in Studi medievali, s. 3, II (1971), p. 115; J.L. Nardone, Deux lettres sur l'exploration de l'Afrique noire par les génois A. M. (1447) et Antonio Usodimare (1455), in Le voyage: de l'aventure à l'écriture, a cura di J. Guerin dalle Mese, Poitiers 1995, pp. 35-54; R.S. Lopez, Storia delle colonie genovesi nel Mediterraneo, Genova 1996, pp. 354 s.