NICCOLINI, Antonio Maria
NICCOLINI, Antonio Maria. – Nacque a Firenze il 9 febbraio 1701, sestogenito maschio del marchese Filippo e di Lucrezia degli Albizzi.
Dotata di titolo feudale di Ponsacco dal 1637, la famiglia conserva un ricco archivio dal XII al XIX secolo, ove si trovano le circa 24.000 lettere a Niccolini di 1400 corrispondenti.
Educato presso i gesuiti di S. Giovannino in Firenze, ebbe per maestro di greco il domenicano Alberto Luigi Nardi di S. Maria Novella e sostenne pubbliche tesi di filosofia nel 1717 presso la chiesa della Compagnia, dedicate a Cosimo III. Si laureò in utroqueiure a Pisa il 2 maggio 1723 sotto la guida di Giuseppe Averani. Dei docenti pisani va almeno ricordato Guido Grandi, col quale Niccolini mantenne una corrispondenza; tra i compagni di studi, vanno menzionati Giuseppe Buondelmonti, Pier Francesco Foggini, Giulio Rucellai, Pompeo Neri e Bernardo Tanucci, con i quali ebbe rapporti attestati, in particolare, dalle missive di quest’ultimo.
Assunti gli ordini minori il 1° aprile 1711, sebbene non fosse mai stato ordinato sacerdote, dopo la laurea si trasferì a Roma svolgendovi pratica legale e, soprattutto, legandosi ai circoli rigoristi della capitale, in primis al gruppo dell’Archetto a palazzo Corsini, di cui figure egemoni erano Neri Corsini, nipote di Benedetto XIII e dal 1730 cardinale, e Giovanni Gaetano Bottari.
Se è improprio parlare di ‘giansenismo’ di Niccolini, poco attratto dalla dimensione specificamente teologica (Dammig, 1945) e occupato piuttosto dei problemi etico-religiosi in vista dell’unità della Chiesa e del primato di Pietro entro la convivenza di esperienze di fede diverse, indubbia resta la sua ortodossia, fondata sulla sincera fede cattolica ed evangelica, sulla pratica di una tolleranza di ascendenze umanistiche. Di qui le radici dell’antigesuitismo, che mai lo abbandonò, e l’appello per una riforma dei costumi che rinnovasse dalle fondamenta la Chiesa e la Curia. Non sorprende, quindi, che nel lungo soggiorno romano si trovasse al fianco di altre figure eminenti, quali l’archiatra pontificio Antonio Leprotti e i cardinali Giovanni Antonio Davia, Annibale Albani, Melchior de Polignac e gli stessi Domenico Passionei, Silvio Valenti Gonzaga e Angelo Maria Querini.
La scomparsa del fratello Giuseppe (1698-1735), dal 1729 marito di Virginia Corsini (una nipote del papa, figlia di Bartolomeo, duca di Casigliano e poi viceré di Sicilia), lo spinse a tornare a Firenze per occuparsi della famiglia. Con la morte dell’altro fratello prelato, Giovan Luca (1689-1752), assunse le vesti di effettivo capo di casa, affiancandovi prolungati soggiorni pisani. Cade in quel periodo la presidenza della Società botanica fiorentina (1735-45), rilanciata da Antonio Cocchi su nuove basi, per la quale Niccolini sovrintese alla riorganizzazione dell’Orto dei Semplici (1740).
Aveva frattanto incontrato il presidente Charles de Brosses, nonché Montesquieu a Firenze (1728). Lo incontrò nuovamente l’anno dopo, a Roma. Se il legame tra le due personalità, pur così diverse per statura intellettuale, suggerisce un interesse di Niccolini verso il sociologismo dei Lumi (Rosa, 1980, p. 772), di lui Montesqieu conservò un intenso ricordo, anche se i contatti diretti furono rari. Cauta e piena di riserve fu, da parte di Niccolini, anche la ricezione delle Lettres persanes, che non credeva di Montesquieu. La lettura appassionata dell’Esprit des Loix, ricevuto forse a Padova o a Venezia dal medievalista Lacurne de Sainte-Palaye, costituì per contro un evento capace di trasformare l’orientamento politico di Niccolini e di confermarne le prospettive antidispotiche. I suoi giudizi entusiasti sull’opera sono noti, come pure l’azione svolta per prevenirne la condanna all’Indice nel 1751, e si collocano agli inizi della fortuna italiana del testo. Tale reazione rispecchia atteggiamenti e aspettative diffusi nei gruppi di giuristi, letterati e naturalisti formatisi nella prima metà del secolo a Pisa, frutto dell’insegnamento culto del diritto, di una più larga contestualizzazione storica di norme, istituti e costumi, prodotto di una prospettiva unitaria dei rapporti tra i saperi. Vi contribuirono le aspirazioni ‘repubblicane’, suscitate tra gli allievi di Averani dalla rilettura di Machiavelli; le contingenze politiche della successione ai Medici; l’intento di preservare l’autonomia del Granducato dalle ‘strette’ imperiali imposte dai Lorena, e il mito lontano e riattualizzato dell’assetto federativo delle città etrusche, ancor vivo alla metà del secolo nell’opera di Giovanni Maria Lampredi. Sul piano politico l’ostilità alla Reggenza e al suo capo, Emanuel Déodat de Richecourt, era destinata a rientrare, pur non senza contrasti, qualche anno dopo l’elezione al trono imperiale di Francesco Stefano di Lorena (1745) e nel quadro di una più duttile strategia governativa.
L’orazione Delle lodi di Giuseppe Averani, pronunziata alla Crusca nel 1745 ed edita quell’anno a Roma, è stata letta come un manifesto dell’antiassolutismo dei gruppi dirigenti colti del paese. Vi risuonano le lodi di Gian Gastone, novello Traiano, e di tempi felici «nei quali né causa del fisco fu mai più equa, né unqua la Monarchia degenerò in arbitrario potere» (p. XVI). È però arduo vedere qui, come nel resto dell’opera edita di Niccolini, una tensione ‘preliberale’ (Passerin d’Entrèves, 1959), poiché egli rimase in sostanza al di qua dell’illuminismo. A un ventennio di distanza, l’orazione funebre per Francesco Stefano (Firenze 1766) ripercorre vie simili. Benefattore del paese, promotore del commercio, mantenne la pace e la sicurezza della proprietà, beneficò i poveri, avviò bonifiche in Maremma; e seppe soprattutto, come già Carlo VI, cangiare l’obbedienza «necessaria e non libera in spontanea e volontaria» elezione dei popoli (p. XIII). Tra i due testi, gli unici che Niccolini abbia dato alle stampe, stavano anche la meditazione su Montesquieu e più mature prospettive di possibile condivisione del potere, diffuse nel pensiero italiano degli anni Sessanta. Il tema della libertà umana risulta essenziale, sino a condizionare la stessa prospettiva religiosa: nella tirannide, infatti, non vi è spazio per la religione, in particolare per il Cristianesimo (cfr. Berselli Ambri, 1960, p. 217).
Date queste premesse, è francamente azzardato attribuire a Niccolini «simpatie deistiche e libertine» (Ferrone, 1982, pp. 318). Egli condivise la condanna romana dell’Encyclopédie (1759), pur giudicandola troppo dura e in qualche misura controproducente; ma indubbie restano l’apertura e la mobilità del suo pensiero, ancorato al valore della comprensione intrareligiosa. Anche l’odio per Roma, attribuitogli da Salvatore Rotta (1971), va ridimensionato, come suggeriscono talune missive ad Antonio Martini (10 aprile, 15 maggio e 19 settembre 1768, in Giovannoni, 2002, p. 50) e a Corsini (Berselli Ambri, 1960).
A Roma ritornò nel 1740-41, quando incontrò Benedetto XIV, e nel 1753, in un soggiorno che lo condusse poi a Napoli, dove conobbe Antonio Genovesi e ritrovò Ferdinando Galiani, già incontrato a Firenze. Nel 1764 avrebbe compiuto un viaggio nell’Italia settentrionale, di cui poco siamo informati, ma tra i suoi corrispondenti lombardi figurano il principe Antonio Tolomeo Gallio Trivulzio, Gian Rinaldo Carli e Paolo Frisi.
Ad arricchire, definitivamente, l’esperienza di Niccolini fu, però, il lungo soggiorno all’estero avviato sul finire del 1745 e concluso agli inizi del 1750.
Presente a Vienna nel febbraio-marzo 1746, vi avrebbe sostenuto le posizioni di Carlo Ginori e Pompeo Neri, favorevoli a un’equiparazione costituzionale del Granducato ai domini ereditari di casa d’Asburgo e allo Stato di Milano, che consentisse forme di rappresentanza degli interessi locali su base cetuale. I legami con Ginori, principale avversario di Richecourt, furono assai assidui. Proseguì il viaggio attraverso Sassonia, Hannover e Brandeburgo, ove fu ospite a corte. A Helmstedt conobbe Johann Lorenz Mosheim, oppositore di John Toland e notissimo autore delle Institutiones historiae ecclesiasticae (1726), uomo non ostile all’organizzazione gerarchica cattolica. L’8 settembre giunse ad Amburgo, donde scriveva ad Antonio Francesco Gori d’essere «contentissimo» dell’ospitalità ricevuta e della «dottissima» Germania («il paese non è così orrido, né così barbaro, come ce lo figurano gli Antichi», Firenze, Bibl. Marucelliana, Carte Bandini, B.VII.20, c. 83r).
Ma il cuore di quell’esperienza va ricercato nei 21 mesi trascorsi in Inghilterra tra il 1746 e la fine giugno 1748. Sono noti i suoi contatti con l’opposizione al governo di Giorgio II, facente capo alla corte alternativa di Leicester House e al principe di Galles, Federico Luigi di Hannover.
Robert Walpole era scomparso da due anni (1745), William Pitt iniziava a reggere il paese; Lord John Carteret, escluso dal governo, incontrò Niccolini, che ebbe contatti anche con Philip Dormer Stanhope, Lord Chesterfield, e Henry St. John, visconte di Bolingbroke, discusso autore dell’Idea of a patriot king (1749); nonché col parlamentare George Bubb-Dodington, cui fu particolarmente legato. Le lettere a Gori ampliano le frequentazioni di Niccolini ai nomi di Lord Carlisle, Henry Herbert Lord Pembroke, Charles Frederick, sir Hans Sloane. Antiquaria e politica dovettero essere argomenti di conversazione anche alla Royal Society, dove fu ascritto grazie al presidente, Martin Folkes, «uno che si ricorda degli amici vecchi» (ibid., c. 77r). L’accenno è forse riconducibile al soggiorno italiano di Folkes (1733-36) e alle pregresse esperienze massoniche di Niccolini, che aveva aderito alla loggia Hannoveriana di Firenze, dove condusse una vigorosa battaglia in difesa di Buondelmonti, di Pietro Giuseppe Buonamici, imprigionato a Pisa, e di Tommaso Crudeli, processato e incarcerato dall’Inquisizione nel 1739, morto nel 1745 nella dimora del residente britannico Horace Mann. In quell’aspra contesa politico-giurisdizionale difese altri membri vicini alla loggia, quale il frate irlandese Fulgenzio Denehy, che il S. Uffizio intendeva convocare a Roma, e acquistò, impegnandosi a farne uso personale, i volumi sequestrati dal Tribunale al libraio Giuseppe Rigacci, per altro già diffusi nelle biblioteche toscane (Pufendorf, Vitrarius). Atteggiamento anti-inquisitoriale, ma certo, a questa data, non antilorenese.
I discorsi londinesi dovettero comprendere critiche severe al governo dei Lorena, pronunziate alla presenza di figure importanti della politica imperiale – da Franz-Xaver-Wolfgang von Orsini Rosenberg, futuro ministro di Pietro Leopoldo, al principe Lobkowitz, al plenipotenziario barone von Wasner, al conte Starhemberg, nonché al Margravio Carlo Federico di Baden-Durlach: discorsi, e imprudenze, che ne motivarono il divieto di rientro in patria (9 novembre 1748) e lo trattennero nelle proprie terre di Foligno per circa un anno, prima del ritorno a Firenze agli inizi del 1750.
Frattanto, giunto all’Aia il 29 giugno 1748, fu impegnato in una delicata missione ecclesiale nel tentativo di individuare spazi di accordo tra la Chiesa appellante di Utrecht e la S. Sede. La relazione redatta in quell’occasione (edita in G. Brom, De H. Stoel en de Klerezey in 1748, inArchief voor de Geschiedenis van het Aartsbisdom Utrecht, XXX [1912], pp. 224 s.), che pervenne al segretario di Stato Silvio Valenti Gonzaga tramite il nunzio Girolamo Spinola, palesa ammirazione per la severa pietà evangelica del cattolicesimo utrechtino, e, come altre manifestazioni dell’avversione di Niccolini al ‘dispotismo’ romano, restò lettera morta. Ma l’irenismo costruttivo da lui espresso contribuì ad aprire vie nuove di umana ragionevolezza e comprensione nella dinamica religiosa italiana.
Il percorso intellettuale e ideologico resta da verificare sulla base delle poco accessibili carte familiari. Tra i suoi molti protetti, vi furono il futuro senatore Francesco Maria Gianni e Antonio Martini, traduttore della Bibbia in italiano, arcivescovo di Firenze dal 1781.
La socialità accademica fu intensa: autorevole membro della Crusca dal 1721, più volte censore, arciconsolo (1752-56), fu socio della Colombaria, luogotenente degli Apatisti nel 1758, lucumone dell’Accademia Etrusca di Cortona (1759), membro dell’Accademia del disegno e dei Georgofili, dell’Accademia fiorentina e di quella delle Buone Arti di Perugia (1760), della Fulginia di Foligno, dei Costanti di Volterra e dell’Accademia di Bordeaux (1767). Ascritto anche alla nobiltà ferrarese, ebbe parte nell’edizione del Museum florentinum di Gori (Firenze 1737-62, 12 voll.), unitamente ad alti esponenti dell’aristocrazia; e contribuì, presumibilmente, alla IV edizione del Vocabolario della Crusca (Firenze 1729-38, 6 voll.). Da Roma favorì la diffusione dell’Opera omnia di Pierre Gassendi (Firenze 1727); poco probabile, data anche la giovane età, il ruolo svolto nella traduzione italiana della Physico-Theology di William Derham (Dimostrazione dell’essenza ed attributi di Dio dall’opere della sua creazione, Firenze 1719), attribuitogli da Ferrone (1982, p. 207).
Quanto alla politica, visse appartato. Critico di Richecourt e dei suoi metodi, ricoprì, però, incarichi significativi. Nel 1738 fu con Rucellai e Neri nella deputazione preposta all’attuazione della legge sulle armi, appoggiandone la decisione di impedire la circolazione di armati al servizio dell’Inquisizione e la concessione di privilegi in materia da parte dell’istituzione. Sostituì, durante le sue assenze, il segretario alle Tratte, Carlo Ginori. Nel 1757 partecipò al progetto di un prestito pubblico di 1.000.000 di fiorini per alleviare l’erario, respinto dalla Reggenza. Due anni dopo fu tra gli operai dell’Opera di S. Croce. Ormai in età leopoldina, nel 1766 fece parte della deputazione per il regolamento e la definizione della nobiltà in Toscana (a seguito della legge sui fedecommessi del 1747 e di quella sulla nobiltà del 1750).
Morì a Roma il 4 ottobre 1769.
Sepolto nella cappella della famiglia Del Bufalo a Trinità dei Monti, il cadavere fu sottoposto all’autopsia, secondo un rituale caro ad Antonio Cocchi e ai suoi discepoli.
Fonti e Bibl.: Il vastissimo epistolario, insieme con i documenti per la storia della famiglia, si trova a Firenze, Arch. Niccolini di Camugliano. Lettere si conservano in: Napoli, Bibl. della Società napoletana di storia patria, XXXI, cc. 248r-261r; XXXI. A. 2 e A.5, voll. II, V; Roma, Bibl. Corsiniana, Ms. 1891 (219 lett. a G. Bottari, 1722-67, 43 delle quali edite in G. Amati, Alcune lettere a Mons. Giovanni Bottari intorno alla Corte di Roma (1724-1761), Bologna 1867, pp. 1-47); Ms. 1888; Ms. 2459; ibid., Cors. A, cc. 221, 223; Bibl. apostolica Vaticana, Ottob. Lat., 3189, c. 208; Firenze, Biblioteca nazionale centrale, G. Targioni Tozzetti, Selve, I, 30; V, 2371; XIV, 449; XVI, 37; III, 280, 286, 322; IV, 1306; V, 2263; XIII, 295 (Orazione funebre di G. Averani); Ibid., Biblioteca Marucelliana, BVII. 6, BVII. 20; Ibid., Biblioteca Riccardiana, Ricc. 3473; Pisa, Biblioteca universitaria, Lett. al P. Grandi (15 lett., 1723-1726); Livorno, Biblioteca labronica; Milano, Biblioteca Ambrosiana, Y. 149 sup.; Capodistria, Antico Archivio comunale; Parma, Biblioteca Palatina, Carte Paciaudi, cass. 84; Arch. di Stato di Torino, Materie ecclesiastiche, cat. 24, m. 2, 18: con un Ouvrage de l’abbé Niccolini sur la Constitution Unigenitus avec les remarques et un sentiment du sieur Lama (attribuito a Niccolini da Rosa, probabilmente in base a un precedente studio di G. Ricuperati); Arch. di Stato di Firenze, Reggenza, filza 845, f. 51 (documenti sull’esilio nel 1748-49); V. Scopetani, Delle lodi dell’abate A. N. patrizio fiorentino..., Firenze 1770; A. Prosperi, In lode dell’abate A. N...., Foligno Campitelli, 1771; L. Passerini, Genealogia e storia della famiglia N., Firenze 1870; L. von Pastor, Storia dei papi, XVI, 1, Roma 1962, p. 215; R. Palozzi, Mons. Giovanni Bottari e il circolo dei giansenisti romani, in Annali della R. 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