SCIALOJA, Antonio Maria
– Nacque a Procida il 6 luglio 1744 (non nel 1748, come si legge in alcuni elenchi delle vittime della repressione realista del 1799) da Donato e da Rosa Schiano, e fu battezzato nella chiesa badiale di S. Michele Arcangelo.
Il padre era medico e dal 1742 al 1746 ricoprì la carica di sindaco dell’isola.
Dopo i primi anni trascorsi a Procida, Scialoja si trasferì a Napoli con il fratello minore Nicola per completare gli studi: secondo alcuni biografi (De Cesare, 1879; D’Ayala, 1883; Parascandolo, 1893) studiò diritto ed esercitò per breve tempo l’avvocatura. Sebbene il suo nome non risulti negli elenchi del Collegio dei dottori, è probabile che la notizia sia fondata, poiché i suoi scritti più tardi rivelano una buona formazione giuridica. Presto, tuttavia, abbandonò la carriera forense per quella ecclesiastica: nel 1763 intraprese gli studi teologici e servì nella parrocchia di S. Giacomo degli Italiani come maestro di catechismo per i fanciulli; nel 1766 ricevette la prima tonsura e nel 1769 fu ordinato sacerdote. Il patrimonio sacro costituito per lui dal padre consisteva in alcuni terreni siti nell’isola, per una rendita complessiva di 38 ducati annui.
Nel 1775 pubblicò una Dissertazione corografico-istorica delle due antiche distrutte città Miseno, e Cuma (Napoli, s.e.), scritta insieme con il cugino Marcello Eusebio Scotti, che fu suo padrino di cresima e al quale fu legato in un duraturo sodalizio intellettuale e politico. Lo scritto – attribuito da Lorenzo Giustiniani (1788, p. 162) al solo Scotti, benché rechi in calce le firme di entrambi gli autori – aveva l’impostazione di un’allegazione forense e interveniva nell’annosa vertenza tra Procida e Pozzuoli per la giurisdizione su Monte di Procida, dove gli isolani possedevano cospicui beni, e per l’esazione dei relativi diritti.
Attraverso un’analisi storico-antiquaria dei testi classici e delle epigrafi rinvenute nell’area, molto apprezzata dagli eruditi contemporanei, nonché degli statuti e dei privilegi medievali, i due autori dimostrarono che i territori appartenenti alle antiche Miseno e Cuma non erano mai stati aggregati a Pozzuoli, confutando in tal modo le pretese della città flegrea. In chiusura i due autori tenevano a esprimere la propria «venerazione» per l’antichità e la nobiltà di Pozzuoli, e dichiaravano di aver scritto la dissertazione «sol per amore della verità, per zelo de’ dritti del Principe, e per difesa della causa della propria Patria, che tenghiamo più di ogni altra cosa cara, e diletta».
Dopo il periodo napoletano, durante il quale abitò a lungo in un appartamento di via Cortellari, nel territorio di S. Maria in Cosmedin, intorno al 1780 fece ritorno a Procida e si stabilì nella casa paterna insieme con il fratello Nicola. Per l’istruzione dei figli di quest’ultimo scrisse una grammatica latina e una Epitome dell’uso dei verbi latini, rimasta inedita ma forse destinata alla pubblicazione (il manoscritto era conservato dal nipote omonimo, il noto economista e uomo politico del XIX secolo, cfr. D’Ayala, 1883, p. 575).
Nella seconda metà del secolo nell’isola era in corso una battaglia politico-legale per l’abolizione delle «decime transatte», cioè dei diritti funerari esatti dal clero dell’abbazia di S. Michele. Scialoja, di orientamento anticurialista, prese parte alla battaglia che il Comune dell’isola condusse a più riprese per l’abolizione di tali diritti, particolarmente nella seconda metà degli anni Ottanta, quando suo fratello Nicola ricoprì la carica di sindaco. Nel 1790 redasse per la Camera di S. Chiara, il supremo tribunale presso cui si dibatteva la causa, la scrittura A pro dei cittadini di Procida, in cui contestava «la scandalosa e simoniaca esazione, che fa dei Preti altrettanti avvoltoi per pascersi di cadaveri» (p. 25). L’attacco ai diritti del clero era mosso tanto ricorrendo ad argomenti canonici e storico-legali – con frequenti rinvii al pensiero del canonista fiammingo Zeger Bernard van Espen, punto di riferimento del giansenismo napoletano del XVIII secolo –, quanto facendo leva su ragioni utilitaristiche, cioè dimostrando che le rendite degli ecclesiastici assorbivano una quota esorbitante delle ricchezze prodotte dagli isolani, che avrebbero potuto essere impiegate per il sostegno dei molti marinai inabili al lavoro e ridotti in povertà. L’anno successivo ribadì analoghi argomenti nella Difesa della scrittura “A pro dei cittadini di Procida”, in cui rispose alle obiezioni che gli erano state mosse da Francesco Schiano e Giuseppe De Martino, difensori delle prerogative del clero.
Le battaglie politico-legali del tardo XVIII secolo erano specchio di profondi attriti tra settori contrapposti della popolazione dell’isola, che emersero in maniera drammatica nel 1799. Dopo la proclamazione della Repubblica a Napoli e la fuga da Procida del governatore Michele De Curtis, il 27 gennaio si costituì una municipalità repubblicana: Scialoja rinunciò ad assumervi incarichi ufficiali, come gli chiedeva Scotti da Napoli, ma sostenne con convinzione e dedizione il nuovo ordine, cercando di guadagnare alla causa rivoluzionaria la maggioranza degli abitanti, ostili o indifferenti. Quando le forze inglesi comandate dal capitano Thomas Troubridge conquistarono l’isola, il 3 aprile, ed ebbe inizio la caccia ai «giacobini» e il saccheggio delle loro case a opera dei realisti, Scialoja rifiutò d’imbarcarsi per la Sardegna, ma riuscì a nascondersi per qualche tempo in un pagliaio, finché non fu catturato a seguito della delazione di un altro sacerdote. Fu quindi condotto su una nave inglese, dove fu interrogato e torturato dai collaboratori del giudice Vincenzo Speciale, inviato dai sovrani borbonici per giudicare e punire i repubblicani procidani.
Il 1° giugno, giorno in cui fu eseguita la sentenza capitale per la maggior parte di essi, Scialoja e altri due sacerdoti che avevano sostenuto la Repubblica furono inviati a Palermo per essere sconsacrati dal vescovo di Cefalù; quindi furono riportati a Procida e qui giustiziati il 15 giugno; i loro corpi furono sepolti nella chiesa di S. Maria delle Grazie, nei pressi della quale, nel 1863, il Comune di Procida eresse un monumento alle «vittime di libertà nel 1799». I fratelli di Scialoja che avevano in vario modo sostenuto la municipalità repubblicana, Donato, Casimiro, Giovanni, Giuseppe Antonio e Nicola, furono condannati all’esilio; i beni della famiglia furono sequestrati ma poi restituiti.
Fonti e Bibl.: Napoli, Archivio storico diocesano, Sacra Patrimonia, vol. 1538; L. Giustiniani, Memorie istoriche degli scrittori legali del Regno di Napoli, III, Napoli 1788, p. 162; The dispatches and letters of vice admiral Lord Viscount Nelson, a cura di N.H. Nicolas, I-VII, London 1845-1846, III, pp. 308, 316-333, 352-376; C. Perrone, Storia della Repubblica Partenopea del 1799, III, Napoli 1860, p. 565; F. Lomonaco, Rapporto al cittadino Carnot sulla catastrofe napoletana del 1799, con note e aggiunte di M. D’Ayala, Napoli 1861, p. 22; C. De Cesare, La vita, i tempi e le opere di A. S., Roma 1879, pp. 8-10; M. D’Ayala, Vite degl’Italiani benemeriti della libertà e della patria, Torino-Roma-Firenze 1883, pp. 573-578; L. Conforti, Napoli nel 1799, Napoli 1889, pp. 121-123, 134; M. Parascandolo, Cenni storici intorno alla città e isola di Procida, Napoli 1892, pp. 14, 99, 206, 236 s., 264; Id., Procida dalle origini ai tempi nostri, Benevento 1893, pp. 246-288, 293 s.; A. Sansone, Gli avvenimenti del 1799 nelle Due Sicilie: nuovi documenti, Palermo 1901, pp. 60, 144; B. Maresca, La marina napoletana nel secolo XVIII, Napoli 1902, p. 193; S. Fevola, Un abate anticurialista del XVIII secolo: Marcello Eusebio Scotti, Napoli 1915, pp. 9, 12-16, 19, 44, 119; P. Scalfari, Marcello Eusebio Scotti, Roma 1963, p. 5; O. Scognamiglio, L’abbazia di S. Michele a Procida, Napoli 1998, pp. 16-20, 23 s., 26-28, 36, 112; S. Zazzera - L. Minieri, Procida 1799, s.l. 1999, passim; R. Di Castiglione, La massoneria nelle Due Sicilie e i «fratelli» meridionali del ’700, I-V, Roma 2006-2014, III, p. 129; A. Orefice, Procida 1799. La rinascita degli eroi, Napoli 2011, passim.