MICHEROUX, Antonio
– Figlio di Giuseppe e di Maria Luisa Désjean, nacque a Napoli nel 1755. Il padre era colonnello del reggimento «Hainaut», la madre era figlia di un brigadiere generale; ambedue le famiglie erano di origine vallona ed erano giunte a Napoli con l’esercito di Carlo di Borbone. Avviato, come i fratelli, alla carriera delle armi, a nove anni il M. entrò come cadetto nel reggimento paterno. Nel 1771 fu nominato sottobrigadiere nel battaglione «Real Ferdinando», un’unità scuola per cadetti, antesignana della Real Accademia militare, e fu addetto alla compagnia colonnella, di cui era nominalmente comandante lo stesso re.
Mentre continuava a servire nel battaglione, il M. grazie alla sua posizione fu introdotto negli ambienti di corte, divenendo uno dei favoriti della giovane regina Maria Carolina d’Asburgo Lorena cui dedicò alcune poesie. A questi anni risale anche la sua iscrizione alla massoneria, diffusa e favorita anche a corte: dal 1778 al 1784 fece parte della loggia della Vittoria e, come risulta dai piedilista degli iscritti, ne fu anche segretario.
Promosso nel 1774 sottotenente portabandiera nello stato maggiore del battaglione, rimase in servizio fino al 1782 quando, sottotenente nella compagnia «Arriola», chiese al re di poter lasciare la vita militare, risultata troppo pesante per la sua salute, e di seguire invece la vocazione per le scienze politiche. Lo prese allora al suo seguito M. Mastrilli marchese di Gallo, nominato nel 1783 rappresentante napoletano a Torino: fu l’occasione che il M. attendeva per dare nei due anni successivi una buona prova del suo talento. Soddisfatto, il re lo nominò cavaliere dell’Ordine Costantiniano, capitano aggiunto dell’esercito e, soprattutto, lo destinò stabilmente al servizio diplomatico. Nel maggio 1785 il M. fu nominato ministro residente a Venezia. Presto, però, tornò a Napoli, sperando di poter ottenere, con il favore della regina, un incarico di maggiore rilevanza, come aggiunto all’ambasciata di Madrid o come rappresentante napoletano in Portogallo. L’opposizione di D. Caracciolo lo convinse, nell’agosto 1787, a far ritorno a Venezia. Intanto a Napoli aveva conosciuto il poeta G. Fantoni, che rimase poi in contatto epistolare con lui per tutta la vita.
Anche il secondo soggiorno veneziano fu breve: nel marzo 1788, in seguito alla rottura delle relazioni diplomatiche tra la Repubblica e il Regno delle due Sicilie provocata dell’espulsione di un ufficiale napoletano che reclutava per il reggimento «Real Macedone» sudditi schiavoni a Napoli, il M. fu costretto a rimpatriare.
A questo periodo dovrebbe risalire il suo matrimonio segreto con Maria Teresa Daneluzzi, già moglie del nobile G. Foscarini, dalla quale ebbe due figli, matrimonio reso pubblico solo nel 1791 quando, in occasione del soggiorno a Venezia dei reali di Napoli di ritorno da Vienna, il M. presentò loro la sua famiglia, ottenendo approvazione e protezione.
Durante l’interruzione dei rapporti diplomatici il M. fu a Torino, Modena e Parma. Rientrò a Venezia nel maggio 1790 dopo che il governo veneziano ebbe presentato le scuse per l’incidente occorso. Allo scoppio della Rivoluzione francese il M. tentò in due occasioni di far aderire la Serenissima alla lega degli Stati italiani proposta da J.F.E. Acton in funzione antifrancese, ma in entrambi i casi, nell’ottobre 1792 e nel febbraio-marzo 1794, senza esito. Stesso risultato ebbero le trattative segrete intavolate tra il M. e il rappresentante francese a Venezia, protrattesi tra fine 1794 e metà 1795 senza che fosse possibile arrivare a una pace fra Napoli e Parigi, per le eccessive pretese di quest’ultima. Queste trattative servirono comunque a fornire le basi per l’armistizio firmato a Brescia il 17 maggio 1796 da A. Pignatelli, principe di Belmonte che, dopo le vittorie di Napoleone Bonaparte in Lombardia, permise il ritiro del contingente di cavalleria napoletana dall’Alta Italia.
Il M. rimase a Venezia anche dopo l’arrivo dei Francesi, nel maggio 1797, prolungando la sua permanenza fino a settembre e segnalando puntualmente, oltre agli eventi politici che segnarono la fine della Repubblica, anche l’operato e gli «esecrandi discorsi» degli esuli napoletani, come C. Lauberg, F. Massa e F. Salfi, entrati a Venezia al seguito delle truppe francesi.
Da Napoli, dov’era rientrato, il M. venne inviato nel gennaio 1798 a Milano, quale rappresentante di Ferdinando IV presso la Repubblica Cisalpina. In quel momento, l’incarico aveva particolare rilevanza: a Milano, date la sua posizione geografica e la presenza del comando dell’Armée d’Italie, era possibile cogliere i segni premonitori di un’eventuale, ulteriore espansione dell’influenza francese in Italia, tale da minacciare il Regno di Napoli. Il M. si mosse a tutto campo, sia cercando di staccare la Cisalpina dalla Francia, un compito chiaramente impossibile, sia sondando la possibilità di addivenire a un accordo con la Francia per una spartizione dello Stato pontificio. Nel tardo autunno 1798 il M. lasciò Milano per la Toscana; da qui, una volta arrivati a Napoli i Francesi, si portò per mare a Palermo, raggiungendovi, nel febbraio 1799, la famiglia reale che vi si era rifugiata.
Fu subito inviato nelle isole Jonie, passate alla Francia dopo il trattato di Campoformio e con Corfù assediata da un corpo di spedizione russo-turco. Aveva l’incarico di chiedere aiuti militari per la corte borbonica, ma dovette attendere fino alla caduta della piazza (4 marzo 1799), mentre gli giungevano dalle Puglie notizie della lotta in corso fra repubblicani e realisti e richieste di soccorso.
Fatto ritorno a Palermo, ne ripartì il 3 aprile, non appena ebbe notizia del trattato di alleanza con Russia e Austria, per organizzare a Corfù una spedizione di sostegno ai realisti delle Puglie. Una flottiglia composta dalla corvetta borbonica «Fortuna», da due fregate russe e da un brick e una corvetta turchi, con qualche centinaio di soldati a bordo, lo sbarcò il 17 a Brindisi, in mano ai realisti. Subito dopo, però, il comandante russo lo obbligò a rientrare a Corfù cosicché un nuovo sbarco poté essere effettuato solo il 3 maggio, in concomitanza con l’inizio del ritiro dei Franco-repubblicani. Il giorno successivo, mentre Monopoli passava all’obbedienza regia, il M. emise un proclama alla popolazione nella sua qualità di plenipotenziario del re. Entrò, però, subito in contrasto con gli emissari del cardinale F. Ruffo giunto in Basilicata con la sua armata della Santa Fede. Il 14, capitolata Bari, emanò un indulto generale, con pochissime eccezioni, nei confronti dei repubblicani, ciò che provocò le proteste di Ruffo, rivolte sia al primo ministro Acton sia direttamente a lui. I contrasti rimasero, tanto più che il M. sostituì con una persona di propria fiducia il preside di Lecce nominato dal cardinale che, da parte sua, ribadiva come il M. fosse dotato dei soli poteri per trattare con Russi e Turchi. Sottomesse Barletta e Foggia, il M. continuò ad avanzare parallelamente alle masse di Ruffo al quale inviò il 30 maggio un piano che prevedeva la possibilità per i repubblicani di arrendersi, consegnare Napoli e imbarcarsi per la Francia, progetto che il cardinale bocciò. Il 2 giugno era ad Ariano con circa duecento regolari russi e borbonici. Il 5 si unì all’armata sanfedista che tra il 13 e il 14 entrò in Napoli vincendo la resistenza dei repubblicani costretti a chiudersi nei castelli. Alternando bombardamenti e trattative l’assedio di Castel Nuovo e di Castel dell’Ovo si protrasse fino al 20, quando i repubblicani capitolarono con il patto di potersi imbarcare per Tolone. Il M. aveva già procurato le navi necessarie per il trasporto quando il 24 l’ammiraglio H. Nelson rigettò la capitolazione già firmata. Vane furono le proteste scritte di Ruffo, dei comandanti russo e turco e dello stesso M.: da Palermo i regnanti fecero sapere che i ribelli repubblicani dovevano essere tenuti sotto sorveglianza degli Inglesi, in attesa di giudizio, e che Ruffo poteva essere arrestato e spedito a Palermo se si fosse opposto.
A Napoli resisteva ancora, difeso dai Francesi, il castello di S. Elmo: l’assedio proseguì, mentre si alternavano bombardamenti e trattative al centro delle quali fu pure il M., anche perché nel castello era prigioniero suo cugino Alberto, maresciallo borbonico. All’atto della capitolazione (11 luglio 1799) il comandante francese denunciò e consegnò i repubblicani che avevano trovato rifugio tra le file della sua guarnigione.
Anche se la regina aveva manifestato una decisa ostilità nei confronti del M. sia perché lo sospettava di aver diviso con il comandante francese la somma convenuta per la resa sia, soprattutto, perché aveva giudicato troppo blando il suo comportamento verso i ribelli, il re, che invece era rimasto soddisfatto, il 1° ag. 1799 gli accordò il grado di colonnello di fanteria, una pensione annua di 3000 ducati e la promozione a ministro plenipotenziario. Poi, designatolo «commissario generale e ministro plenipotenziario del re in Italia presso il comandante in capo delle truppe russo-austriache», lo spedì a Ferrara sia per chiedere l’invio nel Regno di truppe russe in attesa della ricostituzione dell’esercito sia per cercare di estendere il dominio napoletano su una parte dei domini pontifici. Il primo incarico venne portato a termine con il ritorno del M. a Napoli con tre battaglioni russi, mentre l’evolversi della situazione politica, legata al rientro in Francia di Napoleone, rese inattuabile il secondo.
Le indecisioni della corte napoletana e l’improvvida avanzata in Toscana delle truppe borboniche condotte dal maresciallo R. Damas portarono il 14 genn. 1801 alla sconfitta di Siena e all’avanzata delle truppe francesi su Napoli attraverso lo Stato pontificio. Dotato di pieni poteri, il M. andò loro incontro per limitare i rischi, ma il 18 febbraio dovette firmare un armistizio a condizioni svantaggiosissime quali il ritiro delle truppe napoletane dallo Stato pontificio, l’attestamento di quelle francesi sulla linea del Nera, la chiusura dei porti del Regno alle navi inglesi e turche e l’apertura a quelle francesi, la restituzione dei prigionieri e l’abolizione, nel Regno, dei tribunali che giudicavano i repubblicani. L’armistizio, della durata di trenta giorni, venne poi prorogato mentre il M. cercava di concordare a Firenze, dapprima con G. Murat e poi con C. Alquier, un trattato di pace; intanto analoga missione svolgeva a Parigi M. Mastrilli marchese di Gallo. L’intervento di A. Italinsky, ministro russo presso la corte di Napoli, giunto a Firenze per aiutarlo a strappare condizioni migliori, si limitò al consiglio di accettare subito tutte le richieste francesi. Così il 26 marzo venne firmato il trattato di pace che aggiungeva alle clausole armistiziali la cessione dello Stato dei Presidi, di Longone e della sovranità su Piombino, la restituzione dei beni, l’amnistia per i perseguitati politici e un risarcimento di 500.000 franchi per i danni subiti a Napoli dai cittadini francesi. Un altro mezzo milione venne destinato a Murat e ad Alquier per non aver calcato troppo la mano. Clausole aggiuntive segrete sancirono poi la temporanea occupazione delle coste abruzzesi e pugliesi da parte di un corpo di spedizione francese, a totale carico dell’Erario napoletano, e la temporanea cessione di tre fregate.
Lo scontento per il trattato fu grande e il M. venne messo in disparte. Soltanto nel maggio 1804, quando, cedendo alle pressioni francesi, Acton venne esonerato dalla segreteria degli Esteri e inviato a Palermo, il M. fu richiamato come direttore interino del dicastero, avendo al suo fianco, come referendario, un elemento di fiducia di Acton, che da Palermo rimase de facto artefice della politica estera napoletana. In questa delicata situazione il M. dovette gestire i difficili problemi del riconoscimento di Napoleone come imperatore dei Francesi, dell’allontanamento del maresciallo Damas, che era stato richiamato in servizio suscitando le ire di Parigi, e l’ancor più arduo e contrastato riconoscimento di Napoleone come re d’Italia. E fu, questa, la sua ultima fatica: già malato, infatti, il M. morì a Napoli il 2 luglio 1805.
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P. Crociani