MONFORTE, Antonio
– Nacque il 28 maggio 1644 a Laurito, nel Cilento, da un ramo della famiglia dei duchi feudatari di quella baronia fin dal XIV secolo.
Compiuti i primi studi a Potenza sotto la guida di B. Claverio, vescovo di quella città, si trasferì a Napoli per frequentare l’università. Allievo di G. Pulcarelli, si laureò in utroque iure nel 1665. Più volentieri che al diritto, a Napoli egli si dedicò agli studi di filosofia, che apprese da L. Di Capua, e di matematica, che imparò da T. Cornelio. Malgrado la giovane età, è assai probabile che il M. partecipasse ai primi anni di attività dell’Accademia degli Investiganti. Certamente, degli investiganti condivise l’esilio da Napoli dopo la soppressione dell’Accademia, nel 1670.
Il viaggio di istruzione che intraprese da quella data lo condusse dapprima a Roma, dove conobbe M.A. Ricci e ottenne, grazie alla raccomandazione di A. Magliabechi, di visitare la galleria e la ricca biblioteca di Cristina di Svezia. Fu quindi a Firenze, dove incontrò G.A. Borelli, V. Viviani, A. Magliabechi e G. Cinelli, con i quali intessé relazioni intellettuali destinate a durare nel tempo e a estendersi agli amici napoletani, come L. Tozzi e A. Cicinelli. Passato a Bologna, dove fece conoscenza con M. Malpighi e G. Montanari, giunse infine a Venezia, dove frequentò il cartesiano F. Travaglini.
Rientrato a Napoli nell’estate 1675, riprese gli studi matematici. A un anno dalla loro diffusione (1674), venne invitato a cimentarsi con i 12 problemata proposti da un «incognito geometra» olandese, in realtà il tedesco Cristoforo Sadler, ai matematici italiani tramite Magliabechi, su cui il bibliotecario aveva già interpellato in prima istanza V. Viviani, A. Marchetti, P. Mengoli e P. Casati. Ne risultò un’operetta – l’Epistola ad clarissimum et eruditissimum virum Antonium Magliabechi, continens solutiones problematum, quae Leidiensis Geometra post tabulam latine proposuit – che vide la luce a Napoli nel 1676 dopo lunga reticenza da parte del gesuita revisore ecclesiastico. La sfida lanciata da Sadler offrì ai matematici italiani la prima occasione di confronto tra i sostenitori del metodo sintetico della tradizione geometrica classica e quello analitico cartesiano, impiegato dal Monforte.
In sintesi ciascuno dei 12 problemi trattava della costruzione di un triangolo essendo sempre noti la differenza dei segmenti di base e uno degli angoli alla base, ed essendo dato, volta per volta, il rapporto fra uno dei lati adiacenti al vertice alla differenza degli stessi, ora il rapporto della somma dei lati adiacenti al vertice a un segmento dato, ora il rapporto tra la somma dei lati adiacenti al vertice meno un dato segmento, a un altro segmento ugualmente assegnato, e così di seguito (Gatto, 1988, p. 222). Il M. aveva ricondotto la risoluzione di ciascun problema a quello di un sistema di tre equazioni a tre incognite, in cui le prime due, che esprimevano la differenza dei segmenti di base e uno degli angoli alla base, rimanevano le stesse per tutti i problemi, talché la risoluzione di tutti i quesiti consisteva nello scrivere la terza equazione che, caso per caso, esprimeva la terza condizione del problema. Il metodo analitico rivelava, dunque, come tutti i problemi si riducessero a un unico schema risolutivo, ciò che il M. sintetizzava dicendo che «a dire il vero non sono altrimenti dodici, ma uno solo» (il M. a Magliabechi, 19 genn. 1677, Lettere del Regno ad A. Magliabechi = Lettere, n. 620). La sola novità posta dai 12 problemi rispetto all’antica tradizione dei problemi sui triangoli da Regiomontano (J. Müller) in avanti, era l’assegnazione di uno degli angoli alla base, difficoltà che il M., come P.P. Caravaggi prima di lui, aggirò esprimendo tale angolo attraverso un algoritmo algebrico dopo averne considerato la tangente. Mentre Caravaggi si muoveva nell’ambito dell’analisi, già obsolescente, del Viète, la soluzione del M. si inscriveva invece in un progetto nuovo, quello di ridurre la trigonometria a pura espressione analitica, senza l’uso delle tavole. La sua trigonometria senza tavole, cui già a quel tempo lavorava e che era sicuramente pronta nel 1699, non vide però mai la luce. L’Epistola riscosse l’apprezzamento pressoché unanime di tutti i maggiori matematici italiani, che riconobbero per la prima volta in essa le qualità del metodo cartesiano propagandato dal Monforte. Viviani giudicò «stupenda e concisa» la maniera in cui il M. aveva risolto «per numeri» quei problemi la cui soluzione per via geometrica era risultata, a tutti i solutori tradizionali, lunga e prolissa, con un pesante apparato di lemmi e teoremi (Viviani al M., 8 giugno 1677, Firenze, Biblioteca Nazionale, Gal., 252, c. 262r). Leibniz utilizzò invece l’opera del M. per criticare l’uso indiscriminato della nuova analisi algebrica – con la quale la risoluzione di ogni problema, anche se geometrico, era ridotto al solo calcolo, quasi fosse questione puramente aritmetica – e per proporre, in alternativa, il modello dell’«analisi lineare» risalente ai Dati di Euclide, che risolveva e contemporaneamente costruiva tutti i problemi piani con una discussione puramente geometrica.
Il restaurato monopolio conservatore sulle istituzioni culturali napoletane negli anni Settanta del Seicento, la mancata riforma dell’Università «dove la maggior parte de’ lettori è così sciocca, che non ha mai studiato quel trattato che insegna […] il lettore d’Anatomia è così innocente […] che non sa ancora, che vi siano al mondo le opere di Bartolino» (il M. a Magliabechi, 9 ag. 1678, Lettere, n. 640), investirono in pieno il M. al quale, in quanto matematico, erano preclusi sbocchi professionali alternativi. Nel 1679 lasciava di nuovo Napoli per Roma; nel 1681 si trovava a Venezia in attesa di imbarcarsi per Costantinopoli (e di lì, sperava, in Egitto) al seguito di G.B. Donà, balio della Serenissima presso la Sublime Porta. Durante l’attesa, non rinunciò a compiere osservazioni sulla cometa di quell’anno, per cui chiedeva e otteneva ripetutamente da Montanari e da Magliabechi i dati registrati in altre parti d’Italia e d’Europa. Risale a questo periodo anche l’inizio della riflessione sulla perduta opera di Leonte relativa al «modo per conoscere quando quel che si cerca in geometria è possibile o no» (il M. a Magliabechi, Lettere, n. 650), questione a suo avviso sfuggita a pur valenti contemporanei come C. Gloriosi o J. Wallis, su cui stese allora anche il proemio latino ad un’operetta che sarebbe divenuta poi il De Problematum determinatione. Anche a Costantinopoli, dove era approdato senza strumenti, ma solo con «un libretto delle carte geografiche et un piccolo dizionario della lingua turchesca» (il M. a Magliabechi, 24 aprile 1681, Lettere, n. 655), grazie all’«ottimo istrumento» posseduto da Donà aveva compiuto osservazioni sulla latitudine della città, proponendone un’opportuna correzione per difetto di due gradi circa.
Il primo viaggio in Oriente durò solo un anno. Nuovamente a Napoli nel 1682, riceveva nel 1685 da Magliabechi un pressante invito a pronunciarsi in merito alla polemica scientifica sui presupposti della meccanica galileiana sollevata dai gesuiti «novatori» attraverso la pubblicazione dello Specimen libri de momentis gravium del confratello G. F. Vanni (1684, con dedica a Magliabechi). Richiamandosi a Galileo ma, significativamente, anche a Cartesio, nella sua risposta il M. svelava la mancanza di rigore argomentativo nel ragionamento di Vanni ma, ben comprendendo l’attacco ai moderni che l’operetta nascondeva, chiedeva a Magliabechi di non divulgare il suo parere per evitare brighe con i Gesuiti «i quali, benché siano amici infruttuosi, sono però nemici efficaci» (il M. a Magliabechi, 10 sett. 1685, Lettere, n. 660), al punto di declinare, nello stesso anno, il favore proposto dal Magliabechi dell’invio delle Exegeses physico-mathematicae de momentis gravium, in cui Vanni riformava la sua meccanica. La volontà del M. non fu rispettata; della sua risposta, infatti, si trova almeno un estratto tra le carte di Viviani (Firenze, Biblioteca Nazionale, Gal., 242, c. 77), pubblicata da R. Caverni nella sua Storia del metodo sperimentale in Italia (IV, Firenze 1895, pp. 252 s.).
Le critiche di Vanni si appuntavano contro la proposizione galileo-torricelliana secondo cui la proporzione dei momenti di un medesimo grave sul piano inclinato e sul perpendicolo è uguale a quella tra la lunghezza del piano inclinato e quello a perpendicolo. Scambiando il momento totale (dato dalla somma dei momenti parziali) con il momento assoluto (data dal prodotto della velocità per il peso), egli conduceva la sua argomentazione considerando il momento totale di un grave sul piano orizzontale uguale alla somma dei momenti parziali dello stesso globo su piani inclinati di uguale lunghezza, diversamente inclinati ma incidenti ad angolo retto in un punto posto, solo quello, complanare all’orizzonte. Nella sua risposta, il M. rilevava non solo l’inesattezza dell’assunto (la somma dei momenti parziali è infatti sempre maggiore del momento totale), non solo l’insufficiente fondatezza della dimostrazione (i momenti su piani inclinati incidenti, infatti, sono universalmente noti per elidersi), ma come l’assunto fosse anche disfunzionale alla dimostrazione del Vanni, al quale, secondo il M., sarebbe convenuto piuttosto dimostrare il contrario, ossia che la somma dei momenti parziali non deve mai essere maggiore del momento totale.
Nel 1686 il M. partì di nuovo per Costantinopoli. Tornato a Napoli nel 1692, in seguito a una malattia o, forse, per non essere coinvolto nelle beghe di corte, poté godere di quella «seconda fioritura dell’Accademia degli Investiganti» (Torrini, 1973, p. 109) che aveva consentito agli antichi sodali di ottenere quelle posizioni che dieci anni prima apparivano compromesse. Nel 1695, quando fu affidato a G. Gimma il compito di riformare e guidare l’Accademia degli Spensierati di Rossano Calabro, il M fu tra i primi ad esserne annoverato. Il sodalizio con Gimma continuò anche negli anni successivi e fu proprio il M. che, nel 1701, fornì le notizie biografiche su Magliabechi che Gimma desiderava inserire nella sua raccolta di uomini illustri. Quando, il 20 marzo 1698, il viceré L. Lacerda duca di Medinacoeli diede avvio all’Accademia Palatina, il M. vi fu tra i primi iscritti. Entro l’Accademia Palatina, come vecchio investigante, il M. ricoprì un ruolo eminente. Esonerato dall’obbligo di pronunciare discorsi, ma solo di presentarne al viceré qualora lo desiderasse, nondimeno egli pronunciò una significativa Lezione matematica, compresa tra quelle raccolte da N. Sersale.
Contro l’indirizzo prevalente nella cultura italiana contemporanea tendente alla frantumazione dell’eredità galileiana, seguendo la tradizione investigante, astronomia e fisica sono qui trattate come aspetti di una medesima ricerca. L’elogio dell’astronomia, che apre il discorso, celebrata come prova della divinità della mente umana, nelle pagine seguenti assume toni polemici nei confronti dell’indirizzo storico-archeologico oramai prevalente nell’Accademia che appare al M. un tradimento dell’originale tradizione investigante, in quanto disciplina di cui non è possibile fare scienza. Tra le altre cose, il M. prende in esame la determinazione della grandezza della Terra proponendo, in polemica con i metodi impiegati da Eratostene e da F. Maurolico, un sistema fondato «sulla purissima geometria […] mediante la dottrina analitica» (Rak, 2000, p. 124). Utilizzando un telescopio con micrometro filare per determinare l’altezza del raggio visivo sulla superficie del mare, egli arriva a calcolare il semidiametro della terra. Poi per via di «esperienze ed osservazioni» il M. indaga la natura dell’atmosfera e, ispirandosi alla Methereologia aetnea di G.A. Borelli, ne calcola l’altezza (ridotta a meno di tre miglia italiane) in base alle leggi della rifrazione ottica. Tratta quindi grandezza e distanza della luna dalla terra, definendo un suo sistema di misurazione della parallasse lunare conforme a quello di Ipparco, ed esamina la questione della misurazione della distanza della terra dal sole, a suo avviso ancora dubbia, che risolve a partire dalla misura della parallasse di marte. Dopo aver esaminato le distanze e le grandezze degli altri pianeti, dedicava la sua attenzione alle stelle fisse, discutendo i metodi avanzati da Galileo e da R. Hooke per calcolarne la parallasse.
L’anno dopo, il testo delle Lezioni matematiche, tradotto in latino per un pubblico colto e rafforzate da un apparato critico in cui si indicavano esplicitamente i più diretti ispiratori della sua opera e più in generale della sua attività scientifica (a cominciare da Galileo), vedeva la luce per i tipi di Nicola Abri, con il titolo di De syderum intervallis seu magnitudine, insieme con un’altra opera matematica, il De problematum determinatione (Napoli 1699). Concepito, almeno in parte, già prima dell’Epistola, è questa un’operetta breve ma densa, in cui era preso in considerazione un aspetto dell’analisi algebrica, quello della determinazione dei problemi, da nessuno affrontato prima nella sua generalità. Di chiara formazione cartesiana, ma attento lettore di P. Fermat e della letteratura matematica contemporanea, il M. proponeva qui e risolveva per via analitica problemi (tra i quali quelli proposti da Diofanto) già esaminati senza successo da altri matematici e ritenuti, in alcuni casi, impossibili.
L’equazione, a suo parere, non è solo, cartesianamente, lo strumento per risolvere un problema dato; l’esame accurato di tutti i termini dell’algoritmo algebrico, condotto secondo un metodo da lui messo a punto ispirandosi al secondo metodo dei massimi e minimi di Fermat, consente secondo il M. anche di scoprire a priori i limiti entro cui il problema – piano o solido – è possibile, capacità che i critici allora per lo più disconoscevano all’ars analytica. La costruzione geometrica delle equazioni ha qui una funzione elusivamente surrettizia, necessaria solo in quei casi in cui l’algebra non è in grado di fornire le risposte dovute. Trattando analiticamente dei problemi solidi, il M. espone un metodo generale per la risoluzione delle equazioni di quarto grado complete di tutti i termini, di cui la storiografia ha sottolineato l’assoluta originalità. Mentre, infatti, il metodo allora in uso, quello inventato nel Cinquecento da L. Ferrari, si applicava alle equazioni prive del termine di terzo grado, il M. mostra un metodo (simile, a sua detta, a quello impiegato da J. Hudde) che non fa ricorso alla preliminare eliminazione di questo termine, consistendo nel completamento di ambo i membri dell’equazione, in modo da renderli quadrati di opportuni binomi di 1° e 2° grado. Tale metodo, ripreso anche da G. De Cristofaro, si rifa espressamente alla tradizione degli algebristi italiani del '500, i cui metodi, però, tanto De Cristofaro che il M. avevano attualizzato nei termini dell’algebra «speciosa» e generalizzato in modo che i venti casi trattati da Ferrari venissero ricondotti a uno solo, applicabile anche al caso di equazioni di quarto grado complete.
Ai primi del Settecento, il M. era reputato tra i più distinti matematici italiani. Nel 1700, ancora grazie ai buoni servigi di Magliabechi, M. Fardella si adoperava affinché fosse lui a sostituirlo sulla cattedra di Astronomia e Meteore allo Studio di Padova. La trattativa, protrattasi a lungo, sfumò infine, per lo scarso peso accademico di Fardella o forse perché il M. giudicò non adeguato lo stipendio offerto dai Riformatori. Dagli eruditi napoletani a lui contemporanei egli era riconosciuto come un intellettuale di levatura europea, non inferiore, secondo P.M. Doria, nemmeno a Newton; la sua abitazione era assiduamente frequentata da F. Marciano, F. Caracciolo, G. Salerno, G. Argento, F. Nicodemo, G. Messer, A. Acciano e altri.
Il M. morì a Napoli il 5 apr. 1717.
Lasciava un’opera annunciata fin dal 1711 nel Giornale de’ letterati d’Italia (Venezia, t. VII, p. 471) ma che, rimasta invece manoscritta a causa della «temerità di alcuni uomini perversi» e «dell’ingiustizia di alcuni scellerati», vide la luce solo nel 1720 a Firenze a cura dell’amico e allievo G. Salerno (A.M. Carrara, Ad lectorem, in G. Salerno, Antonii de Monforte De Stellarum Motibus. Opus posthumus). L’iniziale riconoscimento dei meriti di Copernico e Tycho rende ragione del ritardo incontrato dalla pubblicazione del De stellarum, in cui è riproposta la teoria cosmogonica della «circompulsione» attribuita da Galileo nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (1632) a Platone. Contrario all’impiego in astronomia di ipotesi geometriche atte a «salvare i fenomeni», il M. intende indagare invece le cause reali dei moti planetari. Descritta l’origine del sistema solare in accordo con la cosmologia cartesiana, il M. tenta di accreditare la teoria della «circompulsione platonica» – che a Galileo era servita a ricondurre anche i moti celesti a quello che egli riteneva l’unico movimento naturale, quello di caduta – secondo cui il moto dei pianeti sarebbe stato creato retto e accelerato, per poi essere trasformato in moto circolare uniforme. Come M. Barbieri sintetizzava: «vide il M. essere la gravità la causa dei moti nel Cielo e, per ripeterla da principio, prosiegue l’ipotesi di Platone, che da Galileo viene lodata» (Barbieri, p. 177). Nel resto dell’opera il M. confermava geometricamente il carattere ellittico delle orbite planetarie; insegnava a trovare i luoghi del sole e della luna adibendo la dottrina dei triangoli; aggiungeva un modo semplice per calcolare la parallasse lunare; riesaminava la cronologia degli antichi Egizi e dettava tavole astronomiche facilitate per il computo universale della cronologia.
Fonti e Bibl.: G. Gimma, Elogij accademici della società degli Spensierati di Rossano, pubblicati da G. Tremigliozzi, I, Napoli 1703, pp. 243-252; G. Origlia, Istoria dello studio di Napoli, II, Napoli 1754, pp. 145 s.; M. Barbieri, Notizie istoriche dei matematici e filosofi del Regno di Napoli, Napoli 1778, p. 172; P. Napoli Signorelli, Vicende della cultura nelle due Sicilie dalla venuta delle colonie straniere sino à nostri giorni, V, Napoli 1811, pp. 296, 301-303, 429; VI, p. 37; Biografia degli uomini illustri del Regno di Napoli, IV, Napoli 1822, p. 127; F. Colangelo, Storia dei filosofi e dei matematici napolitani e delle loro dottrine, II, Napoli-Trani 1833, pp. 269-281; C. Minieri Riccio, Memorie storiche degli scrittori nati nel Regno di Napoli, Napoli 1884, p. 227; F. Amodeo, Vita matematica napoletana, Napoli 1905, pp. 21-30; F. Nicolini, Uomini di spada, di chiesa, di toga, di studio ai tempi di G.B. Vico, Milano 1942, passim; J. Mazzoleni, Notizie per la storia di Laurito e della famiglia Monforte (1344-1770), in Rassegna storica salernitana, X11 (1951), pp. 126-131; M.H. Fisch, L’Accademia degli Investiganti, in «De homine», 27-28 (1968), passim; F. Nicolini, Saggio di un repertorio bio-bibliografico di scrittori nati e vissuti nell’antico Regno di Napoli, Napoli 1966, p. 487; B. De Giovanni, La vita intellettuale a Napoli fra la metà del Seicento e la restaurazione del Regno, in Storia di Napoli, VI, Napoli 1970, pp. 403, 420, 444; S. Suppa, L’Accademia di Medinacoeli fra tradizione investigante e nuova scienza civile, Napoli 1971, pp. 42, 57; G. Ricuperati, A proposito dell’Accademia di Medinacoeli, in Rivista storica italiana, LXXXIV (1972), pp. 75 s.; M. Torrini, A. M. Uno scienziato tra l’Accademia degli Investiganti e quella palatina di Medinaceli, in Ricerche sulla cultura dell’Italia moderna, a cura di P. Zambelli, Bari 1973, pp. 97-146; M. Rak, Le rime dell’Accademia di Medinacoeli, in Bollettino vichiano, IV (1974), pp. 148-159; L. Osbat, L’Inquisizione a Napoli. Il processo agli ateisti (1688-1697), Roma 1974, passim; Lettere del Regno ad Antonio Magliabechi, a cura di A. Quondam - M. Rak, II, Napoli 1978, pp. 750-801; M. Torrini, Dopo Galileo. Una polemica scientifica (1684-1711), Firenze 1979, passim; R. Gatto - G. Gerla, Lettere di Giacinto de Cristofaro a Bernard Fontanelle e a Celestino Galiani, in Annali dell’Istituto e Museo di storia della scienza di Firenze, IX, 1 (1984), p. 67-93; R. Gatto - G. Gerla, Le equazioni di 4° grado in A. de M. e G. de Cristofaro, in Periodico di matematiche, s. 4, LXIII (1987), pp. 43-54; R. Gatto, Contributo di A. M. allo sviluppo dell’ars analytica a Napoli, in Giornate di storia della matematica, Cetraro 1988, pp. 219-232; R. Gatto - F. Palladino, The «Dutch’s Problems» and Leibnitz’s Point of View on the «Analytic Art», in Studia Leibnitiana, XXIV (1992), pp. 73-92; Lezioni dell’Accademia di palazzo del duca di Medinaceli: Napoli 1698-1701, a cura di M. Rak, 5 voll., Napoli 2000-05, passim.