MONTALDO, Antonio.
– Figlio primogenito di Leonardo e della sua seconda moglie Bartolomea Ardimenti, nacque nel 1368 probabilmente ad Asti, dove il padre era in esilio da Genova, città nella quale rientrò con la famiglia tre anni dopo.
Nel 1384, alla morte del padre (doge da poco più di un anno), il M. si trovò di colpo a soli sedici anni ad assumere responsabilità politiche. Il nuovo doge, Antoniotto Adorno, succeduto a Leonardo pacificamente e senza incidenti, accordò alla vedova e ai figli una pensione annua di 200 fiorini d’oro e la concessione di una ulteriore rendita sulle entrate fiscali del borgo di Gavi, luogo d’origine dei Montaldo. Per alcuni anni i rapporti con l’Adorno furono buoni, tanto che nel 1391 il M. rinunciò volontariamente ai privilegi concessigli; tuttavia, il crescere nei confronti del doge di un diffuso sentimento di ostilità a causa del suo governo dispotico fece ben presto di lui un punto di riferimento per gli oppositori dell’Adorno, memori del buon governo di Leonardo.
A parte una certa debolezza di carattere, al M. non facevano difetto né l’ambizione né una buona dose di opportunismo (di cui si servì largamente durante tutta la vita), per cui coltivò con grande cura la propria immagine pubblica, cercando in ogni occasione di atteggiarsi a cittadino modello, modesto, prudente e rispettoso delle leggi, così da non cadere in sospetto dell’Adorno.
La crisi apertasi agli inizi del 1392 con il fallito tentativo dei nobili di dare la signoria di Genova al re di Francia Carlo VI o ad Amedeo VI conte di Savoia, fornì al M. l’occasione per tentare di impadronirsi del potere. La dura repressione del doge contro gli Spinola e i Fieschi, le due grandi consorterie a capo della nobiltà genovese, gli mise infatti a disposizione le loro consistenti forze militari, grazie alle quali, sul finire della primavera, poté muovere contro Genova. La sua azione colse del tutto di sorpresa l’Adorno, così che il 16 giugno, impadronitosi con un ardito colpo di mano del Palazzo ducale, il M. si fece proclamare doge da una sessantina di partigiani.
Come in altre occasioni della convulsa storia istituzionale genovese, non si trattò di un’elezione secondo le norme statutarie, ma solo di un’acclamazione funzionale a dare una patina di legalità a un autentico colpo di Stato, e l’irregolarità di questa elezione fu fin dall’inizio utilizzata dai rivali del M. per contestarne l’autorità. Antoniotto Adorno, sfuggito per un soffio alla cattura, continuò a considerarsi l’unico doge legittimo e si mosse subito per preparare il proprio ritorno a Genova, trovando appoggi all’interno della stessa famiglia Montaldo, dove l’ascesa dell’appena ventitreenne Antonio aveva suscitato l’invidia dei suoi più maturi cugini. Né era solo questo sentimento a minacciare la stabilità del suo dogato perché la moderazione cui improntò l’azione di governo deluse ben presto la frangia più estremista del partito popolare, che avrebbe voluto da lui misure rigorose contro i nobili e gli Adorno. Questo sentimento si rafforzò quando egli decise di restituire agli Spinola e ai Fieschi i castelli che il suo predecessore aveva loro confiscato, benché fosse il prezzo dell’aiuto fornitogli per la conquista del potere.
Tale atto lo screditò definitivamente agli occhi del popolino, sicché quando nel maggio 1393 Adorno ricomparve a Voltri con un esercito in buona parte messogli a disposizione da Gian Galeazzo Visconti, fu ovunque accolto con grandi manifestazioni di giubilo. Il M. non si lasciò tuttavia impressionare e, affrontatolo in campo aperto, lo vinse. Non seppe però sfruttare al meglio la vittoria, mostrando anzi un’incertezza che finì col rafforzare nei suoi numerosi nemici interni il proposito di sbarazzarsi di lui. Il 13 luglio scoppiarono in Genova tumulti di strada che si indirizzarono ben presto contro la sua persona. Il Palazzo ducale fu assediato dai dimostranti e benché egli opponesse per un paio di giorni una tenace resistenza, alla fine si lasciò convincere a ritirarsi a vita privata, sicuro che nessuno avrebbe osato perseguitarlo, ben sapendo quanto la città fosse ingovernabile.
Nella sola giornata del 14 luglio Genova vide in rapida successione alternarsi al governo ben tre dogi: prima il M., quindi Pietro Fregoso, da lui lasciato a guardia del Palazzo, e dopo poche ore Clemente di Promontorio, acclamato dai partigiani degli Adorno al solo scopo di preparare il ritorno di Antoniotto, di cui però tutti temevano le vendette. Per sventare tale minaccia, i capi popolari si impegnarono a trovare una soluzione di ripiego che consentisse di sbarrargli la strada, senza però inimicarselo del tutto.
Fu pertanto deciso di eleggere un doge di transizione e il 15 luglio fu scelto Francesco Giustiniani de Garibaldo, con un mandato di solo un anno, nella speranza di giungere in quel lasso di tempo a una pacificazione tra le fazioni. L’esperimento durò poco più di un mese perché, rivelatosi impossibile trovare un accordo tra i partiti, il Giustiniani si vide costretto a rinunciare. Il M. rientrò a questo punto prepotentemente in gioco. Dopo essere stato costretto a lasciare il Palazzo, egli non aveva abbandonato la città ma se ne era rimasto tranquillo nella propria casa ad attendere l’evolversi della situazione, atteggiandosi a privato cittadino e mostrando di volersi uniformare in tutto alla volontà popolare. In realtà, con l’assenza di scrupoli caratteristica dei capi genovesi del tempo, egli aveva nel frattempo stretto segreti accordi con Adorno, offrendogli il suo sostegno per restituirgli il dogato. Fu una mossa fatta al solo scopo di attirarlo in città perché, appena questi mise piede entro le mura, il M. lo assalì a tradimento con i suoi uomini e, benché Adorno disponesse di maggiori forze, lo costrinse a battere in ritirata. Era il 30 ag. 1393.
L’indomani, sempre ostentando un assoluto disinteresse per il potere, ricevette da un consesso di un centinaio tra magistrati e ufficiali del Comune l’elezione a doge a vita. Recuperato il dogato dopo solo un mese e mezzo, egli non seppe però trarre lezione da quanto accaduto, perché come aveva fatto in passato ancora una volta cercò di appoggiarsi ai nobili e, per di più, si mise a fare ampie regalie e concessioni ai suoi amici e parenti, che causarono invidie e gelosie. Di questo malcontento approfittò Adorno per incitare i suoi partigiani a riprendere le armi e a ribellarsi.
Nell’inverno 1394 le valli intorno a Genova furono teatro di sommosse e violenze che i Montaldo riuscirono però a controllare. Anche questa volta il M. non seppe infliggere un colpo definitivo ai suoi nemici, sicché i suoi atti di clemenza furono giudicati altrettanti segni di debolezza, irritando i suoi partigiani e persino il podestà Francesco da Urbino che clamorosamente rinunciò all’ufficio non condividendo la sua politica conciliante. In politica estera, il M. accettò il sostegno della Signoria di Firenze, desiderosa di impedire che Genova ricadesse in mano dell’Adorno, alleato del suo mortale nemico Visconti, ma l’aiuto fiorentino, per la cronica instabilità della situazione genovese, non si concretizzò mai in un trattato d’alleanza, così che egli si trovò praticamente solo a dovere affrontare i numerosi nemici.
L’ostilità nei confronti del M. crebbe anzi talmente che il 24 maggio 1394 dovette per la seconda volta rinunciare al dogato. Imbarcatosi su una galea si diresse dapprima a Monaco e quindi a Savona, da dove raggiunse Gavi, che gli fu consegnata da un castellano a lui fedele. Qui (e nel vicino castello di Montaldo) egli si stabilì con i suoi numerosi familiari e amici, nella speranza di rientrare quanto prima a Genova. Non dovette aspettare a lungo perché, dopo il breve dogato di Nicolò de Zoagli, eletto subito dopo la sua partenza, il 17 agosto il potere era passato ad Antonio Guarco, che si era guadagnato il dogato addirittura vincendolo a dadi con Pietro Fregoso. Il M., che del nuovo doge era cognato, si portò a Genova con l’apparente intenzione di sostenerne il governo, già messo in discussione dopo poche ore dai Fregoso e dai popolari «mezzani» che avevano parteggiato per Zoagli. Ad accrescere la confusione, il 22 agosto giunse su una galea anche Antoniotto Adorno, ma il suo sbarco, disturbato da un improvviso fortunale, fu assai difficoltoso, tanto che egli cadde nelle mani del M., che lo prese sotto la sua custodia, apparentemente come prigioniero. In realtà i due si accordarono per un’azione comune per far fuori Guarco e infatti, dopo pochi giorni, il M. ridiede ad Adorno la libertà e gli permise di raggiungere le sue truppe in attesa a Voltri. Neppure una settimana dopo, il 30 agosto, Adorno fece un nuovo tentativo di entrare con la forza in Genova; i Montaldo sostennero dall’interno aprendogli le porte cittadine e unendosi a lui. Il 3 settembre Antonio Guarco fu costretto a fuggire e il M. e Antoniotto Adorno assunsero il pieno controllo della situazione.
Per restaurare una parvenza d’ordine, i due indissero un’assemblea di cittadini nella chiesa di S. Francesco per eleggere un nuovo doge, con il tacito accordo che la scelta non dovesse cadere su uno di loro, ma su un terzo, comune amico. Le cose invece andarono diversamente, perché gli elettori, in massima parte appartenenti al popolo minuto, si pronunciarono a favore di Adorno, il quale accettò per la quarta volta la carica, rinnegando gli impegni presi.
Questo fatto indispettì i capi popolari, i quali diffidavano dei due, ma soprattutto indignò il M., che sentendosi beffato si ritirò a Gavi. Gian Galeazzo Visconti, che da tempo mirava a rendersi padrone di Genova, lo prese al proprio servizio insieme con i fratelli, concedendogli una pensione annua, e fu proprio in quanto stipendiato del signore di Milano che a lui si rivolse per aiuto Enguerrand de Coucy, luogotenente del duca d’Orléans nel contado d’Asti.
Il duca, che nel 1387 aveva sposato la figlia di Gian Galeazzo, Valentina, ricevendo in dote l’Astigiano, mirava in quel tempo, con il sostegno del suocero, ad ampliare il più possibile i suoi domini italiani. In particolare, il suo interesse si era appuntato su Genova, le cui turbolente vicende lasciavano presagire una facile conquista, tanto più che buona parte della nobiltà appariva favorevole a consegnare la città a un principe francese, fosse il duca o lo stesso re Carlo VI. I progetti francesi sulla Liguria cominciarono a prendere corpo quando, nel novembre 1394, Savona si ribellò al dominio di Antoniotto Adorno. I Savonesi offrirono infatti la signoria al duca d’Orléans e in suo nome il signore di Coucy prese possesso della città.
Nella guerra che ne seguì con i Genovesi, il luogotenente ducale cercò di coinvolgere i numerosi rivali dell’Adorno, a cominciare dagli ex dogi: il M. e Antonio Guarco. Le trattative con loro durarono alcuni mesi e ai primi di febbraio 1395 fu concluso un accordo con cui essi promisero di unire le loro forze per cacciare Antoniotto e dare Genova al duca d’Orléans. Il M. tuttavia cambiò idea quasi subito, perché già il 4 marzo scese a patti con il doge e, in cambio di 7000 fiorini, da depositarsi prudentemente su un banco fiorentino, accettò con i fratelli di restituire Gavi e Montaldo al Comune di Genova e di trasferirsi a Lucca per un anno, in una sorta di esilio temporaneo. Per Adorno l’avere neutralizzato la minaccia dei Montaldo rappresentò un notevole successo, ma privo com’era di denaro non poté pagare nei tempi stabiliti la somma pattuita, così che il M. tornò nuovamente sui suoi passi e nell’ottobre marciò con Guarco contro di lui, venendo però respinto sotto le mura di Genova.
Intanto, la minaccia che la città cadesse in mano del duca d’Orléans e di suo suocero aveva spinto Firenze a fare pressioni su Carlo VI affinché rilevasse a proprio beneficio l’impresa di Genova, indennizzando adeguatamente il duca, e Adorno finì col sostenere questo progetto. Nel marzo 1396 il re acquistò dal fratello la signoria di Savona e si assunse il pagamento dell’esercito che Coucy aveva fino allora guidato contro i Genovesi; nei mesi seguenti furono quindi aperte trattative con il doge che portarono, il 4 novembre, alla cessione della signoria di Genova a Carlo VI. Il Visconti dovette incassare l’affronto fattogli, ma senza esporsi in prima persona reagì preparandosi a rendere difficili le cose ai Francesi mediante i nemici dell’Adorno: primi fra tutti i Montaldo e i Guarco, i quali si videro entrambi aumentare le loro pensioni.
Nel febbraio 1397 il M. e Guarco cercarono nuovamente di entrare a Genova, dove Antoniotto era rimasto in quanto vicario regio, in attesa dell’arrivo dalla Francia del nuovo governatore. Sconfitti dai partigiani dell’Adorno e dalle forze dagli Spinola e dei Fieschi, entrati al servizio del re, furono catturati e rinchiusi nel castello di Busalla, ma dopo poco furono lasciati liberi. Giunto finalmente il nuovo governatore regio, conte di Saint-Pol, questi mostrò di voler trovare un accordo col M. e con Guarco. In base ai capitoli conclusi il 5 maggio, il M. accettò di restituire Gavi, in cambio di 12.000 franchi oro e di una pensione annua di 400 fiorini.
I suoi turbolenti trascorsi continuarono però a renderlo sospetto, tanto che più volte si pensò di arrestarlo e condurlo in Francia. Egli peraltro non mostrò mai alcuna intenzione di accettare supinamente un ridimensionamento di ruolo, così che il suo nome si trovò sempre coinvolto nei complotti organizzati dai ghibellini in varie località della Riviera di Levante. Arrestato con l’accusa di aver aiutato il ribelle Antonio da Cogorno, nel marzo 1398 fu rilasciato e, per liberarsene, il governo francese gli offrì di inviarlo governatore in Corsica. La cosa sul momento non si concretizzò, ma il vescovo di Meaux, luogotenente del conte di Saint-Pol, volle fidarsi comunque di lui e gli affidò il compito di pacificare le valli intorno a Genova, dove i ghibellini erano nuovamente insorti.
Il M., in realtà, approfittò dell’incarico per riprendere le fila delle sue cospirazioni e, radunati i suoi partigiani, nel luglio di quell’anno penetrò con la forza a Genova, cercando di impadronirsi del Palazzo ducale. Ricevette inizialmente il sostegno dei Doria e degli Spinola, desiderosi di cacciare i guelfi dal governo del Comune, dove erano stati riammessi da Saint-Pol, ma quando si accorsero che intendeva proclamarsi doge, ritirarono il loro appoggio, non volendo inimicarsi il re. Il M. cercò a quel punto di fare da solo, ma si ammalò di peste e morì il 28 luglio 1398.
Fonti e Bibl.: Genova, Bibl. civica Berio, M.r., IX.2.23: F. Federici, Scrutinio della nobiltà ligustica, s.v. Montaldo; M.r., IX.2.24: O. Ganduccio, Origine delle case antiche nobili di Genova, II, c. 309; M.r., VIII.2.30: Alberi genealogici di diverse famiglie nobili di Genova, II, p. 11; G. Stella - G. Stella, Annales Genuenses, a cura di G. Petti Balbi, in Rer. Ital. Script., 2a ed., XVII, 2, pp. 200-202; G. Romano, Regesto degli atti notarili di C. Cristiani, in Arch. storico lombardo, s. 2, XX (1894), 3, pp. 28, 66; A. Giustiniani, Annali della Repubblica di Genova, Alessandria 1854, II, pp. 174-183, 185-188, 190-195, 197, 199-202; E. Jarry, Les origines de la domination française a Gênes, Paris 1896, pp. 37-41, 49-51, 58, 63 s., 69 s., 101, 124-126, 135, 151, 156 s., 167, 193, 231-234, 242-244, 248-254, 260 s., 264-269; L. Levati, Dogi perpetui di Genova, Genova 1928, pp. 120-134; E. Wardi, Le strategie familiari di un doge di Genova, Torino 1996, pp. 10, 31 s., 51 s., 54-56, 108, 112, 135, 154, 162, 164, 172 s.