MORANDI, Antonio
MORANDI, Antonio (detto il Terribilia o Trebilia). – Nacque a Bologna in un edificio posto nell’antica via Larga di S. Domenico (attuale via Marsili), nella parrocchia della distrutta chiesa di S. Giacomo dei Carbonesi, non oltre il 1508, da Bernardino, «costruttore» che possedeva fornace e ricca attrezzatura tecnica per l’edilizia. Il nome della madre è ignoto.
La genealogia di Morandi è stata spesso tramandata con alcune imprecisioni ma, in anni recenti, le carte dell’Eredità Terribilia ne hanno permesso una ricostruzione più esatta (Bologna, Archivio storico comunale; cfr. Rubbi, 2010, p. 124). Dall’analisi di tali documenti, oltre alla figura di Morandi e del fratello Giovanni, emerge anche la presenza di una sorella (il cui nome non è precisato), andata sposa a Palamede Marani e da cui nacquero Francesco e Paolo, anch’essi architetti e anch’essi noti come Terribilia o Trebilia. Cade così l’ipotesi sostenuta da parte della critica (Manzini, 1983; Roversi, 2000) secondo la quale Francesco sarebbe stato figlio di Antonio, mentre ne era nipote ex sorore come già si evinceva dalle fonti antiche; giusta dunque la presenza dei distinti cognomi, Morandi e Marani, spesso confusi fra loro.
La carriera di Morandi emerge dall’analisi dei contratti: da semplice «murador» è designato presto «maestro» o «capomaestro », e poi «messer» o «architetto» (Manzini, 1983). Le prime testimonianze della sua attività risalgono al 1532, anno in cui, con il fratello, eseguì in città modesti lavori per i domenicani (costruzione o rifacimento del muro di cinta dell’orto del convento annesso alla basilica) mentre risale al 1535 l’inizio di un più corposo intervento «alla moderna» all’interno della chiesa benedettina di S. Procolo. I lavori di demolizione e ricostruzione di gran parte dell’edificio, attuati a partire da questa data con la collaborazione di Andrea da Formigine e Domenico Tibaldi, si protrassero fino al 1557, anno in cuiMorandi fece erigere il campanile a pianta quadrata. All’interno di questo stesso edificio, non è chiaro se il progetto della cappella dei Ss. Procoli sia stato commissionato a Morandi nel 1535 (Rubbi, 2010, p. 133) o solo nel 1556.
Nel 1542, dopo un periodo nel quale è documentato al lavoro nel cantiere del duomo di Milano (ibid. p. 126) fu ancora ingaggiato dai domenicani con il compito di ricostruire la nuova ala del convento, poi completata da fratello Giovanni e dal nipote Francesco. In tale lavoro, influenzato dalla pressante interferenza dei committenti, Morandi fu costretto a sacrificare il suo linguaggio sperimentale, teso alla ricerca del possibile equilibrio fra tradizione e novità, a favore di una fiacca riproposizione di un precedente progetto (1515), nel quale si limitò a rifare il dormitorio in base alla pianta del medesimo ambiente presente nel convento domenicano di Reggio Emilia risalente al primo decennio del secolo. Contemporaneo ai lavori in S. Domenico è il progetto per il convento di S. Giovanni in Monte. Malaguzzi Valeri (1894, p. 197) riporta tre contratti stipulati con i canonici lateranensi riguardanti, in particolare: il refettorio «con soffitto a volte e con lavabo e un primo chiostro» (1543); «un dormitorio, un secondo chiostro, due scaloni in macigno, un andito a lunette, un lavabo nella sagrestia e una loggetta» eseguiti con Francesco (1544) e, infine, «alcune parti accessorie in muratura, una loggia verso la chiesa, certi pilastri di sostegno, la porta del coro» (1544). Paramenti murari, decorazioni dei portali e scelta del doppio loggiato del refettorio sono mutuati dai dettami di Sebastiano Serlio; nuova per l’ambito conventuale è invece la soluzione stilistica del bugnato liscio presente nel secondo chiostro. Tale novità suggerisce il possibile rapporto con Giulio Romano (documentato a Bologna negli anni Quaranta). Proprio dalla loro collaborazione sarebbe nato il progetto di palazzo Bocchi (1543-1550; Adorni, 2004) in passato attribuito al solo Morandi (Sighinolfi, 1915).
Nel 1549 iniziò a occuparsi di edilizia civile. La critica, pur in assenza di documenti, concorda nell’attribuirgli i progetti di palazzo Orsi, in via S. Vitale (1549 circa-1560-64) e quello di palazzo Bonasoni (1550-56) in strada Maggiore.
Motivo comune ai due edifici è la bizzarra decorazione delle cimase delle finestre, a motivi araldici e zoomorfi, ispirati alle grottesche, chiamate da Vasari «capriccio» e «terribilità », definizione che sembra suggerire il curioso soprannome dell’architetto bolognese (Manzini, 1983, p. 254). Se la signorile facciata di palazzo Orsi, dalla forte orizzontalità con possente portico a tredici arcate e portale serliano-vignolesco a bugne in macigno, è contraddistinta dall’austera sigla dorica, quella di palazzo Bonasoni, mostra capitelli compositi di reimpiego: una sorta di restauro conservativo, in cui diverse ‘maniere’ si armonizzano secondo le regole della mescolanza teorizzate da Giovanni Andrea Gilio (Due dialoghi… nel secondo si ragiona degli errori de’ pittori circa l’historie…, Camerino, A. Gioioso, 1564).
Nel 1549 fu nominato «ingigniero» della Fabbrica di S. Petronio. L’incarico, mantenuto fino alla morte, testimonia l’importanza raggiunta da Morandi tra gli architetti locali. I primi cinque anni del mandato non evidenziano tuttavia interventi rilevanti; solo nel 1556, risulta ricevere l’incarico di realizzare il rivestimento marmoreo esterno, rimasto incompiuto, secondo l’antico progetto di Domenico Aimo da Varignana (1518 circa) e, nel 1558, è documentato a Verona per scegliere di persona i marmi (Manzini, 1983, p. 246). L’impresa proseguì a rilento e finì per arrestarsi (1568) al secondo ordine di lastre, posto sopra il basamento, all’altezza dei tabernacoli.
Nel 1551 fu incaricato dai domenicani di progettare, all’interno della basilica, la cappella Pepoli o del Preziosissimo nella quale, a differenza dei precedenti lavori eseguiti per questo Ordine, poté esprimere la sua eccentrica libertà inventiva.
Commissionata dal conte Guido, la cappella, posta nella navata sinistra della basilica, sorge su una porzione di edificio prima occupata da quattro cappelline trecentesche. A pianta cruciforme, fonde nel suo insieme strutture rinascimentali, gotiche e romaniche. Ornamento principale, al suo interno, è l’emblema araldico, in questo caso la scacchiera bianca e nera, stemma dei Pepoli, che si dispiega, lungo il perimetro interno, in un fregio continuo posto sopra la fila di paraste che decorano le pareti fino a concludersi sul soffitto. Il rispetto e la rielaborazione della tradizione, tratti peculiari dello stile di Morandi che si potrebbe definire «anticamente moderno e modernamente antico», appaiono evidenti in quest’opera nella quale pose forse mano anche al restauro della trecentesca tomba di Taddeo Pepoli (Rubbi, 2010, p. 129).
Oltre a essersi occupato, insieme con il fratello, in data imprecisata, della ricostruzione di una porzione della casa de’ Poeti in strada Castiglione (ibid., p. 141), nel 1556 Morandi fu nominato perito di parte (con un certo Ercole Brusco) per individuare e valutare gli immobili che avrebbero dovuto far parte del ghetto degli ebrei di Bologna al fine di stabilirne i canoni d’affitto.
Tra gli ultimi incarichi figurano nel 1562 il progetto per la ricostruzione della cupola posta sopra l’altare maggiore della chiesa di S. Giacomo (1562), crollata per intemperie, alcuni interventi nel trecentesco ospedale della Morte (1565, attuale Museo civico) e altri, di poco precedenti, nel palazzo dell’Archiginnasio (1562-63). Questa prestigiosa opera, patrocinata da Pio IV, vide però Morandi impegnato non tanto nel progetto della facciata quanto nelle veste di impresario esecutore, poiché l’ideazione spetterebbe a Gabrio Serbelloni, architetto militare e capitano delle milizie pontificie, nonché nipote del papa.
Morì a Bologna nel 1568 e fu sepolto in S. Domenico nella cappella Ghislieri.
Fonti e Bibl.: G. Guidicini, Cose notabili della città di Bologna, ossia Storia cronologica dei suoi stabili sacri, pubblici e privati, II, Bologna 1869, p. 13; F. Malaguzzi Valeri, L’architettura a Bologna nel Rinascimento, Rocca San Casciano 1899, pp. 197, 204; L. Sighinolfi, Nuova guida di Bologna, Bologna 1915, p. 34; G. Manzini, A. M., il «Terribilia», nell’architettura bolognese del ’500, in Il Carrobbio, IX (1983), pp. 243- 274; M. Gervasio, Il «chiuso» degli ebrei. Contrade, strade e portoni del ghetto, in Verso l’epilogo della convivenza: gli ebrei a Bologna nel XVI secolo, a cura di M.G. Muzzarelli, Bologna 1996, p. 186 n. 32; G. Roversi, A. M., in Le vie di Bologna, a cura di M. Fanti, II, Bologna 2000, p. 753; B. Adorni, Giulio Romano architetto in Emilia: un successo irresistibile negli anni Quaranta del Cinquecento, in Arti a confronto: studi in onore di Anna Maria Matteucci, a cura di D. Lenzi, Bologna 2004, pp. 97 s.; J. Bentini, Appunti di cantiere per due siti domenicani di Bologna, ibid., pp. 121-126; F. Ceccarelli, Scholarum Exaedificatio. La ricostruzione del palazzo dell’Archiginnasio e la piazza delle scuole di Bologna, in L’Università e la città. Il ruolo di Padova e degli altri Atenei italiani nello sviluppo urbano. Atti del Convegno, Padova… 2003, a cura di G. Mazzi, Bologna 2006, p. 62; V. Rubbi, Sull’architettura del Cinquecento: A. M., detto il «Terribilia», in L’architettura del Rinascimento a Bologna. Passione e filologia nello studio di Francesco Malaguzzi Valeri, Bologna 2010, pp.123-143; F. Ceccarelli, A. M. architettore. Committenze patrizie e cantieri pubblici del Terribilia, in Domenico e Pellegrino Tibaldi. Architettura e arti a Bologna nel secondo Cinquecento. Atti del Convegno, Bologna… 2006, in corso di stampa; U. Thieme - F. Becker, Künstlerlexikon XXV, p.119.