MORDINI, Antonio
MORDINI, Antonio. – Nacque a Barga, in provincia di Lucca, il 1° giugno 1819 da Giuseppe e da Marianna Bergamini.
Il padre, membro di un’agiata famiglia da oltre un secolo insignita di titolo nobiliare, prese parte attiva alla vita pubblica ricoprendo la carica di podestà di Barga e quella di deputato all’Assemblea toscana del 1848. Liberale conservatore e molto religioso, coltivò interessi letterari e storici.
Mordini studiò fra Barga e Pisa sotto la guida di precettori privati, fra i quali il più influente fu l’abate Deodato Giuliani. Nel 1833 si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza dell’Università di Pisa e quattro anni dopo vi conseguì la laurea in utroque iure. Nel 1838, insieme ad altri giovani avvocati (Fabio e Robustiano Morosoli, Paolo Mochi), fondò una Società filonomica per esercitarsi nella pratica forense. Nel vivace ambiente politico e culturale gravitante intorno all’ateneo pisano, Mordini si accostò alle idee democratiche e repubblicane, coltivate ulteriormente a partire dal 1843, quando decise di trasferirsi a Firenze. Qui nel 1845 fu tra i promotori (con Carlo e Sebastiano Fenzi, Antonio Galletti, Leopoldo Cempini e altri) di una società segreta, nata per «concorrere con ogni mezzo possibile all’acquisto dell’indipendenza e alla fondazione di una repubblica unitaria» (Rosi, 1906, p. 381) e abile a usare la stampa clandestina come mezzo di propaganda.
L’inizio del pontificato di Pio IX, nel giugno 1846, e le sue prime aperture in senso liberale e riformista incoraggiarono i democratici fiorentini a intensificare la loro attività. Sul finire dello stesso anno fu lanciata una sottoscrizione per offrire una spada d’onore a Giuseppe Garibaldi, già simbolo della lotta per l’indipendenza nazionale in virtù delle sue imprese in America latina, e Mordini fu incaricato di consegnarla al generale al suo rientro in Italia. In quei primi mesi del 1847 fu poi tra gli organizzatori di numerose manifestazioni svolte a Firenze per spingere il granduca a concedere le riforme e, nella sua veste di avvocato, si occupò della difesa di alcuni degli arrestati. Nel settembre 1847, quando venne istituita la guardia civica, entrò subito a farne parte e il 20 dicembre fu eletto capitano: in quello stesso giorno il padre Giuseppe fu ammesso nella guardia civica di Barga con lo stesso grado.
Risale a quei mesi anche la sua presenza, come segretario, nella Società nazionale per la fabbricazione delle armi, presieduta da Ubaldino Peruzzi e nella quale erano presenti esponenti di diverso orientamento politico, fra i quali Ferdinando Bartolommei, Luigi Guglielmo Cambray-Digny, Emilio Cipriani e Ferdinando Zannetti.
Il 17 febbraio 1848, mentre le agitazioni popolari dilagavano nel Granducato di Toscana, alimentate dalle notizie sull’insurrezione della Sicilia e sui successi ottenuti dalle forze liberali e patriottiche, Leopoldo II fu costretto a concedere la costituzione. Ai primi di marzo, appena fu chiara l’imminenza della guerra contro l’Austria, Mordini fu tra i primi ad arruolarsi fra i volontari intenzionati a partire per l’alta Italia. Lasciata Firenze il 23 marzo, il 1° aprile entrò come tenente nella legione padovana e il 4 maggio come capitano nei Cacciatori del Reno, quale addetto allo stato maggiore del colonnello Livio Zambeccari. Combatté a Treviso e poi a Venezia, dove prese parte attiva alla difesa della laguna e in agosto, dopo l’armistizio di Salasco – con il quale Carlo Alberto sceglieva di abbandonare la Lombardia agli austriaci – divenne capitano dello stato maggiore di Guglielmo Pepe. Non perciò smise di occuparsi di politica.
Fu tra i fondatori a Venezia del Circolo italiano, che professò ideali repubblicani e sostenne la necessità di proseguire la guerra contro gli austriaci per fare del Lombardo-Veneto il primo embrione di un’Italia libera e democratica. Insieme a Giuseppe Revere inoltre, il 1° ottobre 1848, stilò un documento destinato a tutti i circoli d’Italia, in cui mosse severe critiche al governo di Daniele Manin, accusato di aver smarrito lo slancio rivoluzionario dei mesi precedenti e di non aver combattuto la corruzione amministrativa. Per tutta risposta Manin fece arrestare entrambi e li espulse da Venezia.
Mordini tornò allora a Firenze, proprio nei giorni in cui, caduto il governo di Gino Capponi, se ne formava uno di spiccata connotazione democratica guidato da Giuseppe Montanelli, con Francesco Domenico Guerrazzi al ministero dell’Interno. Entrò a far parte del Circolo popolare, di cui più tardi assunse la presidenza, e il 2 novembre 1848 fu tra i fondatori di un Comitato centrale provvisorio sorto con l’obiettivo di arrivare alla convocazione di una Costituente nazionale a Roma che, eletta a suffragio universale, avrebbe dovuto deliberare il proseguimento della guerra all’Austria, affermare il principio della sovranità popolare e creare le premesse per l’unificazione dell’Italia sotto un sistema repubblicano. Mordini sostenne queste idee in un giornale da lui diretto, La Costituente, il cui primo numero apparve a Firenze, per i tipi di Felice Le Monnier, il 23 dicembre 1848.
In alcuni articoli pubblicati sul giornale avversò l’idea di una «Costituente federativa», cara a Vincenzo Gioberti, e chiese al governo toscano di inviare suoi deputati alla Costituente romana del 5 febbraio 1849, che in tal modo avrebbe assunto un carattere nazionale, convinto che una simile decisione avrebbe potuto spingere su posizioni analoghe anche i delegati di Venezia e della Sicilia. Quando però il granduca, l’8 febbraio, rifiutò di sanzionare la delibera del governo e fuggì prima a Siena e poi a Porto Santo Stefano (e da qui il 20 febbraio a Gaeta), si formò un governo provvisorio guidato da Guerrazzi, Montanelli e Giuseppe Mazzoni. Mordini, lasciata la direzione de La Costituente a Leonida Biscardi, entrò nel governo democratico come titolare del dicastero degli Esteri e, dal 13 febbraio, in seguito alla rinuncia da parte di Mariano D’Ayala, prese l’interim di quello della Guerra.
Il suo compito non fu facile. Le delegazioni diplomatiche dei paesi esteri, a cominciare da quella del Regno di Sardegna, rifiutarono di instaurare relazioni ufficiali con il governo provvisorio e solo il rappresentante della Francia dichiarò di accettare l’offerta di rapporti ufficiosi. Mordini si adoperò allora per stringere accordi di alleanza con il governo siciliano e soprattutto con quelli di Roma e Venezia, ma senza grandi risultati. La sua proposta di proclamazione della Repubblica e di unione della Toscana a Roma e a Venezia, incontrò infatti l’esitazione e poi l’opposizione di Guerrazzi, al quale alla fine di marzo furono affidati poteri dittatoriali. Altrettanto vani si rivelarono i tentativi di organizzare una forza di difesa mediante la costituzione di milizie volontarie che surrogassero l’esercito regolare rimasto fedele al granduca.
Il riaprirsi delle ostilità fra Piemonte e Austria e la pesante sconfitta, il 23 marzo 1849 a Novara, di Carlo Alberto, costretto ad abdicare in favore di Vittorio Emanuele II, favorirono anche la caduta del governo toscano. Dopo l’arresto di Guerrazzi, l’11 aprile, e la restaurazione del governo legittimo di Leopoldo II, Mordini, ricercato dalla polizia, riuscì a fuggire dalla Toscana imbarcandosi il 10 maggio a Viareggio e raggiungendo Bastia, in Corsica, e poi Nizza.
Cominciò allora per lui un decennio di esilio trascorso perlopiù nel Regno di Sardegna, fra Nizza e Genova, ma con frequenti spostamenti, spesso sotto falso nome, che lo portarono a Londra nel 1851 e nel 1857, dove fu in stretto contatto con Giuseppe Mazzini, a Ginevra, a Torino e in varie località dell’Italia centro-settentrionale. La condanna all’ergastolo inflittagli nel luglio 1853 dal tribunale toscano a conclusione del processo intentato contro il governo Guerrazzi (poi tramutata in condanna all’esilio) gli rese impossibile ogni ipotesi di rientro nel Granducato. Per qualche anno ancora fu molto vicino a Mazzini, con cui intrattenne una fitta corrispondenza e, pur non prendendo parte attiva ai tentativi insurrezionali mazziniani del 1853, serbò intatti i propri ideali repubblicani. Col tempo però, proprio muovendo dal giudizio negativo su quei moti, il cui fallimento imputava alla fretta e all’insufficiente preparazione, prese le distanze da Mazzini e si convinse dell’opportunità di collaborare col Regno sabaudo, l’unico ritenuto capace di guidare il movimento per l’indipendenza nazionale. La rottura si consumò alla fine del 1856, dopo il fallimento del moto in Lunigiana, dei cui preparativi anch’egli fu partecipe, così come ebbe parte attiva nella raccolta di armi e denaro per sostenere un tentativo rivoluzionario che doveva scoppiare in Sicilia nel novembre dello stesso anno. Quelle due ennesime delusioni lo indussero a disapprovare il successivo moto di Genova del giugno 1857, cui restò estraneo, e a esprimere aperto dissenso dalle posizioni di Mazzini. Costretto nel dicembre 1857 da una misura cautelare del governo piemontese a lasciare Genova per trasferirsi a San Remo, Mordini nei due anni seguenti, pur non abiurando la fede repubblicana, finì col persuadersi del tutto della necessità di un esplicito sostegno alla monarchia sabauda nel caso in cui questa avesse dichiarato guerra all’Austria.
Lo scrisse in termini chiari a Nicola Fabrizi il 15 marzo 1859: «Se il governo piemontese inizia la guerra al grido Viva l’unità italiana, il nostro partito deve dare la sua adesione collettiva riservando la questione della forma politica a guerra vinta» (Rosi, 1906, p. 167). Era la linea che Garibaldi aveva scelto fin dal 1857 aderendo alla Società nazionale e che Mazzini, invece, continuava ad avversare.
La caduta della dinastia lorenese, il 27 aprile 1859, e la successiva amnistia decretata dal governo provvisorio toscano il 3 maggio fecero decadere la condanna all’esilio e consentirono a Mordini di rientrare a Barga. Da qui il 19 giugno partì per raggiungere Garibaldi in Valtellina e partecipare alla seconda guerra d’indipendenza nel corpo dei Cacciatori delle Alpi, agli ordini di Giacomo Medici. Restò con lui fino ai preliminari dell’armistizio di Villafranca (11 luglio), dopo il quale si recò a Torino per perorare l’annessione immediata della Toscana al Piemonte. Sostenne la medesima causa anche nella sua veste di deputato all’Assemblea toscana, carica alla quale fu eletto nell’agosto 1859, spingendo affinché si troncassero gli indugi diplomatici e fosse la stessa Assemblea a decidere in tal senso. L’annessione della Toscana al Regno di Sardegna fu invece sancita dal plebiscito del 12 marzo 1860, dopo il quale Mordini fu eletto deputato al Parlamento in rappresentanza del collegio di Borgo a Mozzano.
Non prese, tuttavia, parte attiva ai lavori parlamentari (anche se fu presente alla seduta in cui si approvò la cessione di Nizza alla Francia ed espresse voto contrario), perché ai primi del giugno 1860 si unì ai Mille in partenza per la Sicilia. Garibaldi, che ne apprezzava le capacità politiche e organizzative, lo nominò in rapida successione tenente colonnello e presidente del consiglio di guerra a Palermo (20 giugno), auditore generale militare e in quanto tale membro dello stato maggiore (3 settembre), e infine prodittatore di Sicilia (17 settembre).
In quest’ultima carica subentrò ad Agostino Depretis, il quale, dichiarandosi favorevole all’immediata annessione dell’isola, secondo il volere di Cavour, si era posto in contrasto con Garibaldi, intenzionato invece a ritardare la consegna, prolungando la sua dittatura e verificando la possibilità di muovere dal Sud alla volta di Roma. Le pressioni politiche e popolari per affrettare i tempi del congiungimento della Sicilia al Regno di Sardegna indussero però Mordini, sgradito a Cavour per i suoi trascorsi mazziniani, a convocare le elezioni di un’assemblea siciliana, che avrebbe dovuto discutere le condizioni dell’annessione armonizzando le leggi locali con lo Statuto albertino, per il 1° ottobre. Di lì a poco, rivelatasi impraticabile questa strada per la decisione di Giorgio Pallavicino, prodittatore di Napoli, di indire il plebiscito per il 21 ottobre, anche Mordini si trovò costretto ad adottare analogo provvedimento.
Due giorni prima, il 19 ottobre, accogliendo un suggerimento dello storico liberale Michele Amari, nominò comunque un Consiglio di Stato, composto di 38 membri e presieduto da Gregorio Ugdulena. Il Consiglio, riunito all’indomani del plebiscito, predispose una relazione da inviare al futuro Parlamento nazionale, nella quale si caldeggiava l’adozione da parte del nascente Regno d’Italia di un assetto regionalistico tale da garantire alla Sicilia una forte autonomia politico-amministrativa e salvaguardare le sue tradizioni.
Il 4 novembre 1860 si ebbero i risultati ufficiali del plebiscito e tre giorni dopo Mordini accompagnò Vittorio Emanuele II nel suo ingresso trionfale a Napoli, a fianco di Garibaldi e di Pallavicino. Il 1° dicembre il re si recò a Palermo, prendendo ufficialmente possesso dell’isola e ponendo fine alla prodittatura di Mordini. Questi rientrò a Napoli e riassunse la carica di auditore generale dell’esercito meridionale tenuta fino al febbraio 1861, quando fu eletto deputato nel collegio di Palermo per la prima legislatura del Parlamento italiano. Venne ininterrottamente confermato nella carica di deputato fino al 1895, dapprima nel collegio di Palermo e poi in quello di Lucca, finché il 25 ottobre 1896 ricevette la nomina a senatore.
Fin dal biennio 1859-1860 le sue posizioni politiche erano andate modificandosi in senso moderato. Accantonata la prospettiva repubblicana, si batté, per così dire, per la definitiva ‘costituzionalizzazione’ del movimento garibaldino, ossia per l’abbandono di ogni velleità insurrezionale da parte dei democratici e per il loro pieno inserimento nell’alveo istituzionale monarchico. Nei primi anni dopo l’Unità avvertì progressivamente l’esigenza di dar vita a un raggruppamento politico di sinistra costituzionale moderata che prendesse le distanze dalle frange più estreme, presenti anche in Parlamento, e si aprisse persino alla possibilità di collaborazione, sui grandi temi della politica interna e sulle iniziative necessarie al completamento dell’unità nazionale, con la Destra di governo. Questo progetto avrebbe assunto contorni più definiti fra il 1866 e il 1869, quando Mordini riuscì ad aggregare elementi della Sinistra e della Destra nel cosiddetto Terzo partito, che pur nella sua effimera esistenza esercitò un ruolo non marginale nelle vicende politico-parlamentari del periodo.
Il primo sforzo di moderazione Mordini lo compì nell’agosto 1862, quando insieme ad altri deputati si recò in Sicilia per dissuadere Garibaldi dall’intraprendere la spedizione verso Roma, conclusasi poi il 29 agosto con lo scontro fra le camice rosse e l’esercito regolare in Aspromonte. Non solo non riuscì nel suo tentativo, ma il 27 agosto, sospettato di essere coinvolto nelle mene garibaldine, fu fatto arrestare a Napoli insieme ai deputati Nicola Fabrizi e Salvatore Calvino. Recluso a Castel dell’Ovo, fu rimesso in libertà soltanto dopo l’amnistia del 5 ottobre. Nel novembre successivo denunciò alla Camera le prevaricazioni del potere esecutivo e contribuì alla caduta del governo Rattazzi, senza tuttavia che ciò modificasse la propria fiducia nella monarchia costituzionale e nella possibilità di una collaborazione fra Garibaldi e il re. Proprio tale aspettativa lo indusse, fra il 1863 e il 1864, a tessere una trama di relazioni con alcuni emigrati ungheresi e polacchi per sostenere l’insurrezione scoppiata in Polonia nel gennaio 1863, estendendola all’Ungheria e al Veneto e creando così le condizioni per un intervento combinato, come già accaduto nel 1859- 1860, dei volontari garibaldini e dell’esercito sabaudo. Questa azione, poi rivelatasi vana, s’intrecciò con le pressioni esercitate su Garibaldi, seguito da Mordini nell’aprile 1864 durante il trionfale viaggio in Inghilterra, affinché accettasse la guida di un partito «democratico costituzionale». Garibaldi rifiutò, pur continuando a serbare intatta stima nei confronti dell’ex prodittatore di Sicilia, come è dimostrato dalla scelta di nominarlo suo delegato allorché, nel maggio 1864, divenne gran maestro del Grande oriente d’Italia. Entrambi, peraltro, già l’8 agosto seguente, preso atto delle divisioni che minavano l’unità della massoneria italiana (a cui Mordini era stato iniziato nel 1862 nella loggia Dante Alighieri di Torino), rassegnarono le dimissioni. Da quel momento Mordini si allontanò ulteriormente dalle posizioni della sinistra democratica e nel novembre 1864 non esitò a votare a favore del disegno di legge governativo per il trasferimento della capitale a Firenze.
Lo spostamento verso il centro dello schieramento politico si accentuò a partire dal 1866, quando accettò la proposta del presidente del Consiglio Bettino Ricasoli di recarsi come commissario regio nella città di Vicenza, abbandonata dagli austriaci a seguito della sconfitta subita nella terza guerra d’indipendenza. Restò in carica dal 17 luglio al 21 ottobre 1866, fino allo svolgimento del plebiscito che sancì l’annessione del Veneto all’Italia. In quello scorcio conclusivo degli anni Sessanta, mentre prese finalmente corpo l’idea del «Terzo partito» (sebbene inteso soltanto come mero organismo di raccordo di un gruppo di parlamentari, senza alcuna struttura organizzativa) e Mordini ne era riconosciuto come leader assoluto, il suo nome circolò più volte come candidato a ricoprire un incarico ministeriale. L’ipotesi si concretizzò il 13 maggio 1869, quando entrò come ministro dei Lavori pubblici nel terzo governo Menabrea, che ebbe però vita assai breve (cadde il 13 dicembre di quell’anno) e non gli consentì di assumere iniziative particolarmente degne di nota. Due anni dopo, il 28 novembre 1871, nella veste di vicepresidente della Camera, ebbe l’onore di presiedere la prima seduta del Parlamento a Roma, divenuta nuova capitale del Regno.
Nel frattempo, nel settembre 1866, si era sposato con una donna di Barga, Amalia Cecchini, all’epoca appena ventenne e dunque di ben 27 anni più giovane di lui, che morì tuttavia precocemente, il 5 giugno 1872, dopo aver dato alla luce due figli, Leonardo nel 1867 e Antonietta nel 1869.
Nell’agosto 1872, ormai allineato sulle posizioni della Destra, Mordini fu nominato prefetto di Napoli, carica conservata fino all’avvento della Sinistra al potere (marzo 1876), quando ritenne opportuno rassegnare le dimissioni. Rieletto deputato, si schierò con l’opposizione di Destra fino a riconoscersi, dal 1882, nella soluzione trasformista congegnata da Agostino Depretis e Marco Minghetti. Negli anni seguenti si distaccò gradualmente dalla politica attiva e non accettò neppure l’offerta – avanzata nel 1884 da Depretis – di assumere la presidenza della Camera. Analogo rifiuto oppose nel 1890 a Crispi, che gli offrì il dicastero degli Esteri, proposta che gli venne rinnovata l’anno seguente, con identico diniego, nel corso della crisi che poi portò alla formazione del governo Giolitti.
Nel marzo 1893 accettò l’ultimo importante incarico: quello di presidente e relatore della Commissione dei Sette, l’organismo parlamentare che – incaricato dell’inchiesta sugli istituti di emissione – denunciò il coinvolgimento nello scandalo della Banca Romana di numerosi esponenti della Sinistra, tra i quali lo stesso Crispi. Ormai riconosciuto come uno dei grandi notabili della politica italiana, fra il 1896 e il 1902 Mordini partecipò con una certa assiduità ai lavori del Senato.
Morì a Montecatini Terme il 14 luglio 1902.
Fonti e Bibl.: L’archivio Mordini si conserva a Barga nel palazzo di famiglia e consta di 134 filze. Per una descrizione dettagliata è disponibile l’Inventario dell’archivio storico risorgimentale A. M., a cura di M.P. Baroncelli, Barga 2009. Per la biografia resta fondamentale il libro di M. Rosi (II Risorgimento italiano e l’azione d’un patriota cospiratore e soldato, Roma-Torino 1906), che conobbe personalmente Mordini ed ebbe modo per primo di consultarne l’archivio: cfr. C. Gabrielli Rosi, Michele Rosi e A. M., Pisa 2004. Per la centralità avuta nelle molte vicende del Risorgimento e dell’Italia unita, il nome di Mordini ricorre in numerosi studi: offrono puntuali riscontri la Bibliografia dell’età del Risorgimento. In onore di A.M. Ghisalberti, 4 voll., Firenze 1971-1977, e la Bibliografia dell’età del Risorgimento. 1970-2001, 4 voll., Firenze 2003-2005, ad ind. Fra i diversi contributi si vedano: F. Mazzonis, Laicismo e anticlericalismo nella politica della «Permanente» e del Terzo partito Mordini-Bargoni, in Chiesa e religiosità in Italia dopo l’Unità (1861-1878), Atti ... La Mendola... 1971, Comunicazioni, II, Milano 1973, pp. 360-373; F. Ronchi, A. M. e le basi sociali del «terzo partito» (1867-1869), in Clio, XII (1986), 3, pp. 445-467; R.P. Coppini, Il Granducato di Toscana dagli anni francesi all’Unità, Torino 1993, ad ind.; F. Conti, I notabili e la macchina della politica. Politicizzazione e trasformismo fra Toscana e Romagna nell’età liberale, Manduria- Roma-Bari 1994, ad ind.; G. Luseroni, Giuseppe Montanelli e il Risorgimento. La formazione e l’impegno civile e politico prima del ’48, Milano 1996, ad ind.; F. Conti, L’Italia dei democratici. Sinistra risorgimentale, massoneria e associazionismo fra Otto e Novecento, Milano 2000, ad ind.; Id., Storia della massoneria italiana. Dal Risorgimento al fascismo, Bologna 2003, ad ind.; A. Chiavistelli, Dallo Stato alla nazione. Costituzione e sfera pubblica in Toscana dal 1814 al 1849, Roma 2006, ad ind.; A. Marcucci, A. M. e il Terzo Partito, Lucca 2011.