MORROCCHESI, Antonio
– Nacque a San Casciano in Val di Pesa, nel Chianti fiorentino, il 15 maggio 1768, da Francesco e da Marianna Zaccagnini, quarto di sei figli.
Su spinta paterna abbandonò presto il paese natio per compiere la propria formazione presso gli scolopi di Firenze. La solida educazione impartita dalle scuole calasanziane favorì tanto il gusto per la cultura classica, quanto l’attitudine verso le belle arti e in particolare verso il disegno. D’indole vivace e curiosa, si accostò al teatro, al quale finì presto per consacrare l’intera vita. Dopo l’esordio come attore nei teatri dei collegi e in formazioni filodrammatiche, il debutto pubblico avvenne nel 1789, sul palcoscenico del teatro di Borgo Ognissanti in un Amleto messo in scena nella riduzione di Jean-François Dulcis, in cui recitò con lo pseudonimo – costruito prendendo a prestito il cognome materno – di Alessio Zaccagnini. Compiuta sotto gli auspici di uno Shakespeare sperimentale e adattato, la prima prova lanciò d’acchito Morrocchesi nel mondo del professionismo. Seppure manifestatasi in modo timido, la sua inclinazione artistica, unita alle qualità recitative, lo fece scritturare verso la fine del 1789 come primo amoroso nella compagnia di Francesco Paganini e Pietro Pianca, con la quale compì una lunga tournée nel circuito veneto ed emiliano culminata con una esibizione alla Scala di Milano. Ormai consacrato tra i più ricercati attori del primo Ottocento, nella stagione teatrale 1791-92 entrò nella troupe di Francesco Menichelli, che, oltre a brevi soste in alcuni capoluoghi piemontesi, si fermò per un’intera stagione al Carignano di Torino.
Dopo essere stato a Trieste nell’ottobre del 1792, ospite della contessa Margherita di Capodistria, e dopo aver soggiornato a Venezia, forte dell’esperienza artistica maturata, nonché delle relazioni intessute con il mondo della cultura italiana, il ventiseienne Morrocchesi volle portare in scena Saul di Vittorio Alfieri nella stessa città in cui in quel periodo risiedeva l’autore. Il 14 gennaio 1794 sul palcoscenico fiorentino del teatro di S. Maria debuttò la tragedia del titanico re d’Israele, portata per la prima volta all’esterno delle sale di palazzo Gianfigliazzi, nel quale dal 1792 al 1795 Alfieri stesso provò e allestì il Saul, il Bruto e il Filippo con una compagnia di dilettanti. Il successo del Saul di Morrocchesi sulle scene pubbliche fiorentine fu tale da indurre il riottoso autore ad assistere alla quinta replica.
L’episodio, narrato con accenti enfatici e dovizia di particolari nelle pagine delle memorie autobiografiche, diventò il fulcro della vita attoriale di Morrocchesi, il quale, a riprova del pieno superamento della prova, ebbe da Alfieri «cinque rusponi, dodici braccia di panno scuro di Sedan ed una copia delle sue tragedie» o forse – secondo quanto asserisce Carmignani (1806) – il mantello originale con cui Alfieri stesso aveva recitato il Saul e si era fatto ritrarre da François-Xavier Fabre. Lo specialissimo sodalizio fra l’attore e l’autore scattò ancor prima dei simbolici donativi. Vera o presunta l’investitura con il mantello di Saul indossato da Alfieri e donato a Morrocchesi, l’attore raggiunse quella sera un tale grado di immedesimazione nel personaggio biblico che, nel recitare l’ultima battuta («Empia Filiste, me troverai, ma almen da re, qui… morto…»), si gettò sulla spada e si accasciò, ferito, sul palcoscenico. Con l’autoferimento Morrocchesi sperimentò – a sua insaputa – quel processo di identificazione con il personaggio che costituisce il tratto più forte del teatro ottocentesco, cresciuto fra neoclassicismo e romanticismo per lo più sotto il segno del contrasto tra furor e ratio, come prescrivevano la drammaturgia di Alfieri ma anche quella di Shakespeare e di Schiller.
Le recite fiorentine del fortunato Saul furono sedici, un numero che da solo non basterebbe a spiegare il mutamento di denominazione del teatro cittadino, che da allora cambiò il nome da S. Maria in teatro Alfieri. Da quel momento, il nome di Morrocchesi è legato indissolubilmente alla possibilità di traduzione scenica degli impervi endecasillabi alfieriani, resi fruibili per vasti pubblici grazie all’attore toscano e riscattati dall’ambiente accademico e dilettantesco. Specialista indiscusso della recitazione tragica, distintosi sempre più come solido interprete alfieriano, Morrocchesi fu conteso dalle maggiori compagnie del suo periodo. Con la troupe di Luigi Rossi, nella cui formazione era Elisabetta Marchionni, madre della celebre Carlotta, recitò le tragedie alfieriane sia nel circuito dei principali teatri toscani (a Lucca, a Pisa, a Pescia, oltre che a Firenze), sia nei teatri bolognesi. Nel 1798 entrò a far parte della compagnia di Luigi Del Buono (l’orologiaio creatore e interprete della maschera di Stenterello), poi in quella di Marta Colleoni, con la quale fu presente prevalentemente sui palcoscenici emiliani. In quello stesso lasso di tempo partecipò al primo governo francese della Toscana tanto che il suo nome nel 1799 finì nell’elenco dei proscritti.
Nella primavera del 1801, scritturato dalla compagnia di Gaetano Barzi, interpretò Maometto di Voltaire e altri drammi a Brescia, Cremona, Novara, Casale Monferrato, Torino. L’anno successivo fu con Vincenzo Monti; poi, al seguito di una propria compagnia, tornò in Toscana, recitando al teatro del Cocomero di Firenze l’Ottavia di Alfieri. Con la formazione Venier - Asprucci - Prepiani riprese l’amatissimo teatro alfieriano nel circuito lombardo. Nel 1808 ritornò nuovamente alla Scala di Milano. Nella stagione successiva venne richiamato nella troupe di Luigi Rossi, con la quale attraversò i teatri di Pavia, Milano, Imola, Pesaro, Rimini. In data non precisata sposò Maddalena Pelzet, affermata prima attrice dei palcoscenici di inizio Ottocento, interprete speciale del teatro di Giovan Battista Niccolini.
Nel corso delle lunghe peregrinazioni artistiche Morrocchesi ebbe modo di conoscere e di frequentare intellettuali del suo tempo, dei quali esibiva l’amicizia non senza una buona dose di comprensibile autocompiacimento: Francesco Albergati Capacelli, Ugo Foscolo, Ippolito e Giovanni Pindemonte, Giulio Perticari e il fratello Gordiano.
Quando, nel 1811, Elisa Baciocchi, granduchessa di Toscana, gli assegnò la cattedra di declamazione e d’arte teatrale presso l’Accademia di belle arti di Firenze «pour la poésie italienne, et pour le perfectionnement de la diction prosaïque» (Aliverti, 1984, p. 197), Morrocchesi si trasformò in un prodigioso attore-pedagogo, tanto da dedicare tutta la rimanente vita alla formazione di interpreti dalla nuova consapevolezza culturale, in grado di comprendere e sostenere, teoricamente e tecnicamente, la drammaturgia alfieriana. Compendio del lungo periodo di insegnamento, che durò fino alla morte, furono le Lezioni di declamazione e d’arte teatrale pubblicate a Firenze nel 1832 (ed. anast. Roma 1991), un trattato di tecniche recitative corredato da 40 litografie esplicative della mimica, del portamento, dei gesti necessari all’attore. Esse sono considerate «il capolavoro teorico del nostro teatro ottocentesco, vibrante di riflessioni e di premonizioni» (Meldolesi - Taviani, 1991, p. 198), contenenti in alcune pagine, riferite alla Lezione dell’anima o sentimento, addirittura un «nocciolo remoto» della pedagogia teatrale di Stanislavskij (ibid., p. 200). Da professore di declamazione, con l’assegnazione di uno stipendio annuale di 2400 franchi, si impegnò per una riforma del teatro italiano, intesa come sovversione del teatro esistente e non come servilismo politico alla maniera di Gaetano Bazzi.
Nel 1836 iniziò a scrivere le sue memorie (I vent’anni del mio comico pellegrinaggio, in tre volumi manoscritti, conservati a Firenze nella Biblioteca Marucelliana, Fondo Martelli, D. 19), relative alle vicende comprese fra il 1790 e il 1810, nelle quali intrecciò il gusto della memorialistica da viaggio e le favole morali, la novellistica italiana e la fisiognomica – allora imperante – di Johann Kaspar Lavater. Attore nuovo, capostipite della cosiddetta «generazione alfieriana», egli spiegò la qualità, artistica ed etica, delle scelte compiute, asserendo che «l’audacia […] per le arti in genere del teatro è necessaria quanto il sapere» (ibid., III, p. 345).
Fu anche autore prolifico. Tra le molte tragedie da lui composte si ricordano La presa di Belgrado, che segnò il suo debutto nell’ambito della drammaturgia; Alfieri tra l’ombre, recitato a Bologna nel 1804. Larga fortuna, fino al punto di essere ridotta per la maschera di Stenterello, ebbe l’opera Ferriere di Maremma, rappresentata a Verona nel 1805. Di interesse per la storia napoleonica è La battaglia di Austerlitz. La principale produzione per le scene è raccolta in Opere teatrali inedite e nuove, Bologna 1807-08 (4 volumi); Tragedia, I-II, Firenze 1822.
Morì a Firenze il 26 novembre del 1838 e fu sepolto nel chiostro di S. Croce, prossimo alle spoglie di Alfieri. Toccò a Giovan Battista Niccolini, il drammaturgo cui era legata la fama della Pelzet, dettare la sua epigrafe.
Francesco Regli (1860, p. 350) descrive Morrocchesi «alto e ben conformato di corpo, dignitosa, espressiva fisionomia, nobile, elegante, naturale movimento, somma delicatezza d’animo e molta altezza di mente». Per Colomberti ([1872], 2004, p. 547) «declamava benissimo il verso tanto tragico, che melodrammatico, perché fu uno dei migliori recitanti nei drammi di Metastasio» .
Fonti e Bibl.: G. Carmignani, Dissertazione critica sulle tragedie di Vittorio Alfieri da Asti, Lucca 1806, p. 19; M. Missirini, A. M.: memorie, Firenze 1838; F. Regli, Dizionario biografico dei più celebri poeti ed artisti melodrammatici, Torino 1860, pp. 350-353; A. Colomberti, Memorie di un artista drammatico (1872), a cura di A. Bentoglio, Roma 2004, p. 547; Jarro [G. Piccini], Vittorio Alfieri a Firenze, Firenze 1896, pp. 1-36; L. Rasi, I comici italiani, II, Firenze 1905, pp. 162-168; V. Pandolfi, Antologia del grande attore, Bari 1954, pp. 25-42; G. Pastina, A. M., in Enciclopedia dello spettacolo, VII, Roma 1975, coll. 852 s.; S. Geraci, L’oggetto spogliato: i costumi e le memorie di A. M., in Quaderni di teatro, 1980, n. 10, pp. 65-75; M.I. Aliverti, Comiche compagnie in Toscana (1800-1815), in Teatro Archivio, 1984, n. 8, pp. 197, 223 s.; S. Geraci, Comici italiani: la generazione alfieriana, in Teatro e storia, 1989, n. 7, pp. 215-243; C. Meldolesi - F. Taviani, Teatro e spettacolo nel primo Ottocento, Roma-Bari 1991, pp. 192-200; S. Geraci, Notizia su alcuni fatti taciuti nelle memorie di A. M., in Teatro e storia, 1994, n. 16, pp. 69-89; Id., Alfieri in sala prove, in La passione teatrale. Tradizioni,prospettive, e spreco nel teatro italiano: Otto e Novecento, a cura di A. Tinterri, Roma 1997, pp. 137-141, 157-161; M. Pieri, Ossessioni, deliri e trance: la recita della pazzia nel teatro borghese italiano, in Follia, follie, a cura di M.G. Profeti, Firenze 2006, p. 349; O. Pampaloni, A. M. e il teatro tragico di Alfieri, San Casciano Val di Pesa 2007; S. Geraci, Destini e retrobotteghe. Teatro italiano nel primo Ottocento, Roma 2010, pp. 115-186.