MOSCONI, Antonio
MOSCONI, Antonio. – Nacque a Vicenza il 9 settembre 1866, da Giuseppe e da Angela Apolloni.
Il padre aveva partecipato alla difesa di Vicenza nel 1848 e di Venezia nel 1849 ed era stato proclamato dal Comune di Vicenza «benemerito della patria».
Dopo la laurea in giurisprudenza conseguita all’Università di Padova nel 1888, si dedicò alla professione di avvocato, per abbandonarla nell’aprile 1890 quando, vincitore di concorso, entrò al ministero dell’Interno: dapprincipio a Vicenza e, dal 1899, a Roma. Capo di gabinetto del ministro delle Poste e Telegrafi Carlo Schanzer nell’ottobre 1906, tornò nell’aprile 1908 al ministero dell’Interno, dove conobbe Giovanni Giolitti che, apprezzandone le capacità, lo chiamò come vicecapo di gabinetto all’Interno. Iniziò allora lo stretto rapporto con lo statista piemontese, che accelerò la sua già brillante carriera. Nel settembre 1911, ottenuto l’incarico di prefetto, fu messo a disposizione del ministero dell’Interno, per poi divenire segretario capo della Presidenza del consiglio e quindi, fino al marzo 1914, capo di gabinetto del ministero stesso. Nel frattempo il 3 novembre 1913 era stato nominato, sempre da Giolitti, consigliere di Stato.
In queste vesti scrisse il saggio La funzione consultiva del Consiglio di Stato nella preparazione delle leggi che, pubblicato nel 1919 su la Nuova Antologia, analizzava l’operato dell’organo e l’importanza della funzione consultiva, contribuendo, in una fase d’intenso dibattito sulle riforme istituzionali, a richiamarne il valore presso la cultura giuridica e l’opinione pubblica colta.
Nel luglio 1919 fu nominato commissario straordinario per la gestione del Comune di Trieste e dal dicembre, finita l’occupazione militare, commissario generale civile della Venezia Giulia, incarico che gli diede il diritto di partecipare, per le riunioni di sua competenza, al Consiglio dei ministri. Anche in considerazione dell’opera avviata in Venezia Giulia, fu proposto da Giolitti per la nomina a senatore, avvenuta nell’ottobre 1920.
A Trieste si occupò inizialmente della finanza locale, del funzionamento dei servizi pubblici e della disastrosa situazione igienico-sanitaria della Venezia Giulia; dopo la nomina a commissario, si adoperò per il consolidamento delle istituzioni provinciali e per l’estensione alla provincia triestina della legislazione italiana. All’interno si trovò a dover fronteggiare una situazione assai delicata, per la crescente conflittualità tra le componenti nazionali. La politica di ‘italianizzazione’ del territorio, infatti, comportava una compressione della libertà di espressione per la cultura slovena e per le minoranze croate e di lingua tedesca, specialmente in campo scolastico. Lo scontro tra nazionalità assunse immediatamente anche un carattere politico. Gli sloveni confluirono in buona parte nel movimento socialista, mentre minoranze croate e di lingua tedesca si orientarono verso il movimento nazionalista italiano. Mosconi si avvalse strumentalmente di quest’ultimo per limitare le iniziative di socialisti e sloveni. Si ebbe così, già sul finire del 1919, l’avvicinamento al movimento fascista, dei cui ‘eccessi’ – come ebbe a dire nelle memorie – e della carica destabilizzante era pienamente consapevole, ma del quale riteneva di potersi servire come strumento necessario al ristabilimento dell’ordine pubblico e al sostegno del processo di nazionalizzazione italiana.
Nell’agosto 1922 si dimise da commissario della Venezia Giulia e rientrò per un breve periodo al Consiglio di Stato, per poi assumere la presidenza di alcuni istituti pubblici. Nel 1923 fu chiamato alla guida dell’Istituto poligrafico per le amministrazioni dello Stato, allora a rischio fallimento. Due anni dopo fu nominato presidente dell’Istituto nazionale per le case agli impiegati dello Stato (INCIS).
L’Istituto, sorto nel 1924, aveva l’obiettivo di fornire agli impiegati dello Stato, civili e militari, con preferenza per quelli dei gradi minori, alloggi a condizioni favorevoli nelle città capoluogo di provincia, al fine di garantire un migliore funzionamento della pubblica amministrazione e facilitare i trasferimenti dei funzionari su tutto il territorio nazionale. Mosconi, in carica fino al 1928, diede impulso all’Istituto, ne organizzò gli uffici, avviò un piano per la costruzione di alloggi. Il programma privilegiava le città nelle quali le condizioni abitative erano più disagiate e si proponeva non solo di migliorare le condizioni di vita dei funzionari ma anche di stimolare, indirettamente, la crescita delle economie locali.
Il 21 aprile 1926, in occasione delle celebrazioni del Natale di Roma, iscritto d’ufficio dalla federazione di Vicenza, prese la tessera del Partito nazionale fascista. Nello stesso anno fu nominato presidente della Banca nazionale d’Albania.
Il 7 luglio 1928, a sorpresa, fu designato da Mussolini ministro delle Finanze, chiamato – come indicato dal capo del governo – ad attuare una politica di riordino della finanza statale e a migliorarne la trasparenza, a favorire un parziale ridimensionamento dell’intervento pubblico, a garantire la conservazione del livello di stabilizzazione della lira conseguito con «quota 90» (il cambio con la sterlina fissato a 90 lire) e a tutelare il risparmio. Rientra in questo quadro il varo di alcuni provvedimenti in materia di finanza pubblica, tra i quali la legge del 1928 sulla contabilità dello Stato che vietava l’assunzione di impegni senza relativa copertura, l’introduzione nel 1929 dell’obbligatorietà della dichiarazione dei redditi e di misure per la lotta all’evasione, l’approvazione nel 1931 del testo unico per la finanza locale, con cui vennero razionalizzate le imposte esistenti e irrigiditi i controlli dello Stato sui bilanci degli enti locali.
Chiamando Mosconi alle Finanze, Mussolini con tutta probabilità intendeva avvalersi – in sostituzione di una personalità forte e autorevole come Giuseppe Volpi – di un collaboratore meno ingombrante e più fedele alle direttive, cui sarebbero spettati compiti di gestione tecnica più che l’esecuzione di complesse iniziative politiche. Nel presentare la nomina al re, Mussolini – considerati risolti «ormai i maggiori problemi della finanza» – assegnava a Mosconi il compito «di fare della grande, precisa, proba ma nel complesso ordinaria amministrazione» (cit. in G. Toniolo, L’economia dell’Italia fascista, Bari-Roma 1980, p. 127). Il giudizio sembra essersi direttamente trasferito nella storiografia, che ha considerato Mosconi «relativamente poco competente di economia» (N. De Ianni, Il ministro soldato. Vita di Guido Jung, Soveria Mannelli 2009, p. 245), figura «alquanto sbiadita» (R. Faucci, Finanza, amministrazione e pensiero economico. Il caso della contabilità di Stato da Cavour al Fascismo, Torino 1975, p. 179), «grigio burocrate» e «fedele esecutore di ordini» (Toniolo, L’economia, cit., p. 127). Sebbene sia indubbio che egli non riuscisse a imprimere una svolta alla politica finanziaria italiana, né a caratterizzare la propria azione per originalità e intraprendenza, vero è però che si trovò sottoposto a un duplice vincolo: da un lato, soprattutto a partire dalla fine degli anni Venti, l’intervento diretto di Mussolini nella formulazione degli indirizzi di politica finanziaria, improntato al rafforzamento della posizione internazionale dell’economia italiana; dall’altro, l’esigenza di rassicurare il mondo economico dopo le forzature e le tensioni prodotte dalla rivalutazione della lira e, al tempo stesso, di rinsaldare la fiducia dei mercati esteri verso le istituzioni finanziarie italiane, considerata anche la necessità di attrarre capitali da fuori.
Da ministro delle Finanze Mosconi dovette fronteggiare la crisi economica internazionale apertasi alla fine del 1929. Seri allarmi provenivano dal sistema bancario, considerata anche la stretta relazione dei maggiori istituti di credito con i grandi gruppi industriali. Il governo si adoperò per salvare le banche in difficoltà e, al tempo stesso, per sciogliere le aggrovigliate relazioni tra istituti di credito e imprese industriali, prima con le convenzioni del 1930-31 e poi con la creazione dell’Istituto mobiliare italiano (IMI) nel 1931. A queste operazioni Mosconi partecipò in prima persona senza mai esserne l’ideatore. La sua azione istituzionale appare infatti per lo più accodarsi ai reali promotori di quelle iniziative, primo fra tutti Alberto Beneduce. Le sue preoccupazioni riguardavano soprattutto il mantenimento della stabilità della lira. Tuttavia, contrariamente alle scelte compiute nella gran parte dei paesi occidentali, non introdusse cambiamenti significativi nella politica economica estera e neppure con l’aggravarsi della crisi, dopo i primi mesi del 1930, mise in questione l’ancoraggio della lira all’oro e alle regole del gold standard. Non adottò alcun controllo dei cambi per cercare di attutire la caduta del corso dei titoli italiani all’estero e frenare l’aumento del tasso di interesse; attuò inoltre una politica del commercio con l’estero quasi esclusivamente fondata sulla leva doganale e tariffaria (che peraltro ritoccò parzialmente), senza ricorrere a contingenti e limitazioni delle importazioni.
Riconfermò la fedeltà all’ortodossia monetaria nel successivo biennio. A determinarne le scelte fu in primo luogo la convinzione – condivisa peraltro con quasi tutta la classe dirigente economica del tempo – che la crisi fosse fenomeno passeggero da cui l’Italia sarebbe stata coinvolta marginalmente. Al tempo stesso, risentì dei condizionamenti imposti dal capo del governo, secondo il quale l’adesione alle regole del gold standard e la parità fissata nel 1927 non potevano essere messe in discussione e a esse le altre misure di politica economica si sarebbero dovute adeguare.
L’assenza di iniziative atte a fronteggiare gli effetti dell’instabilità dei mercati finanziari internazionali e delle turbolenze monetarie aveva portato a un progressivo peggioramento nei rapporti con il governatore della Banca d’Italia, Vincenzo Azzolini. Questi, a differenza di Mosconi, era convinto della necessità di introdurre misure per il controllo dei cambi, per la limitazione dei movimenti di capitale e dell’importazione di merci non essenziali e voluttuarie. Soprattutto, ad alimentare le tensioni, fu, dagli ultimi mesi del 1931, la questione dell’indeterminatezza delle prerogative e dell’indipendenza della Banca d’Italia: Mosconi contestò infatti ad Azzolini di avere agito con eccessiva autonomia nella gestione delle riserve valutarie dopo la svalutazione della sterlina e negli interventi per fronteggiare la crisi degli istituti di credito.
Dalla contesa Mosconi uscì indebolito. A rendere più precaria la sua posizione fu il rapido peggioramento del bilancio dello Stato, che nel 1930-31 tornò dopo alcuni anni a far registrare un rilevante saldo negativo, peggiorato ulteriormente nell’esercizio successivo. Negli ambienti vicini a Mussolini fu ritenuto in buona parte responsabile della situazione, per non aver preso forti iniziative al riguardo, essendosi rifiutato tra l’altro di consolidare il debito pubblico. In questo clima di crescente sfiducia, il 20 luglio 1932 fu sostituito con Guido Jung. Rientrato nel Consiglio di Stato, all’inizio del 1934, chiese il collocamento a riposo per via degli incarichi nel frattempo accumulati.
Presidente della Banca nazionale dell’agricoltura dal 1933 al 1935; membro del consiglio di amministrazione della Riunione adriatica di sicurtà (RAS), prova dei mai interrotti rapporti con il mondo economico triestino, nel 1933-34; membro del consiglio di amministrazione delle Manifatture cotoniere meridionali negli anni 1934-44; presidente dal 1936 al 1948 della società Tranvie vicentine e rettore dell’Accademia olimpica di Vicenza della quale fu poi presidente onorario fino al 1955; dal 1939 al 1944 fu, altresì, presidente della Commissione centrale delle imposte.
Dopo la caduta del regime, nell’agosto 1944 fu deferito all’Alta corte di giustizia per le sanzioni contro il fascismo, che alla fine di settembre, come in altri casi simili, emanò un provvedimento di decadenza, cui seguì nel maggio 1946 un’ordinanza di inammissibilità del ricorso. Nel luglio 1948, tuttavia, le sezioni unite civili della Corte di Cassazione revocarono la decadenza.
Ritiratosi dall’attività pubblica, pur continuando a mantenere alcune cariche, morì a Roma il 12 luglio 1955.
Aveva sposato in prime nozze Virginia Cogollo e, dopo la morte di questa, Florinda Di Segni. Dal primo matrimonio nacque il figlio Giuseppe.
Tra le opere: I primi anni del governo italiano nella Venezia Giulia: Trieste 1919-1922, Bologna 1924; La finanza statale alla vigilia delle elezioni plebiscitarie. Discorso pronunziato al Teatro S. Carlo di Napoli il 16 marzo 1929, Roma 1929; La finance fasciste, L’État mussolinien et le réalisations du fascisme en Italie, a cura di T. Sillani, Paris 1931; La mia linea politica [autobiografia], Roma 1952.
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