MUÑOZ, Antonio
– Nacque a Roma il 14 marzo 1884 da Augusto e da Angela Zeri.
La famiglia paterna, di origine castigliana, si era definitivamente stabilita in Roma nel XVIII secolo allorché Juliano Muñoz, ufficiale maggiore in servizio presso l’ambasciata di Spagna, aveva preso in moglie una donna romana (Bellanca, 2003).
Si iscrisse nel 1902 all’Università di Roma, conseguendo nel 1906 la laurea in lettere; frequentò quindi il corso di perfezionamento in storia dell’arte tenuto da Adolfo Venturi. Durante gli anni dell’università si recò a Parigi per seguire alcuni corsi all’Académie des beaux-arts; nel medesimo periodo fu in Medio Oriente, Austria e Russia. Pubblicò i suoi primi studi a partire dal 1903 sulla rivista L’Arte.
Nel 1909 ottenne la libera docenza in storia dell’arte all’Università di Napoli; nel contempo, su sollecitazione della famiglia, contraria al suo trasferimento, entrò a far parte, per concorso, dell’organico della Soprintendenza ai monumenti di Roma. Nominato ispettore nel 1921, nel 1929 fu chiamato, pare per diretto interessamento del governatore di Roma Francesco Boncompagni Ludovisi, alla direzione della X ripartizione del Governatorato capitolino ove rimase fino al 1944: nel corso di quei decisivi decenni, nei quali l’assetto della città storica subì trasformazioni radicali, Muñoz fu la persona deputata a decidere sull’opportunità e sulle modalità di numerosissimi e importanti interventi, relativamente ai quali agì secondo criteri spesso non univoci e sintomatici di una certa lacunosità di riferimenti metodologici. La sua instancabile attività può essere ripercorsa secondo la classificazione adottata da Alberto Maria Racheli (1995), il quale ha individuato quattro grandi categorie di interventi: i lavori su chiese ed edifici, intrapresi a partire dal 1909, i ‘restauri’, finalizzati a restituire ai monumenti la presunta facies originaria, l’attività di urbanista e quella di progettista architettonico dilettante; quest’ultima attuata per lo più mediante «ritocchi edilizi conseguenti a interventi urbanistici» (ibid., p. 94), e il più delle volte, quindi, localizzati entro contesti urbani assai pregevoli e delicati.
Primario oggetto di interesse durante i primi anni di attività (1909-14) furono i lavori di risistemazione di alcune chiese romane, tra le quali S. Eligio degli Orefici, i Ss. Quattro Coronati e S. Prassede.
L’intervento sulla chiesa di S. Eligio, in cui alcuni cedimenti delle fondazioni avevano provocato lesioni di una certa importanza nella cupola e l’umidità aveva danneggiato i partiti decorativi, attuato nel 1909 e volto in primo luogo al consolidamento statico e alla risarcitura delle lesioni, quindi a una generale ripulitura degli interni e della facciata, ebbe più la connotazione di una manutenzione straordinaria che di un vero e proprio restauro. Di diversa portata i lavori nella chiesa dei Ss. Quattro Coronati (1913), nella quale Muñoz ripristinò sia le bucature polifore del campanile, eliminando l’orologio collocatovi nel XVII secolo, sia il chiostro reso illeggibile dalle superfetazioni, non mancando peraltro di inserire in quel contesto un elemento innovativo come una moderna vasca entro la quale pose la fontana con teste di leoni. Ben più ‘pesante’ l’intervento (1914) nella chiesa paleocristiana di S. Prassede dove, in totale assenza di indicazioni iconografiche o documentarie utili a ridefinire il disegno della pavimentazione perduta, Muñoz effettuò una ricostruzione mimetica – realizzata, cioè, senza rendere in alcun modo riconoscibili le aggiunte − basandosi sul raffronto analogico, «riproponendo linee generali del disegno architettonico riferentisi all’epoca originaria predominante del monumento»: un’esercitazione in stile più che un restauro, al pari di quanto operato, nel secolo precedente, da Virginio Vespignani in S. Maria in Trastevere (Racheli, 1995, p. 94).
Nel 1914 curò il completamento dei lavori di restauro della chiesa di S. Salvatore in Lauro in via dei Coronari (Bellanca, 2003); nello stesso anno, fu nominato membro della commissione istituita allo scopo di studiare la nuova decorazione dei pilastri della basilica Vaticana (G. Cascioli, Nuovi lavori dei pilastri alla basilica di S. Pietro, Roma 1914). Nel 1915 si recò nella Marsica per verificare i danni cagionati dal sisma del 17 gennaio e intraprendere le necessarie opere di risistemazione. Pubblicò i risultati delle sue ricognizioni in I monumenti del Lazio e degli Abruzzi danneggiati dal terremoto (Roma 1915) e, alcuni anni più tardi, in Monumenti di Celano prima e dopo il terremoto del 1915 (Roma 1924). Nel 1919 portò a compimento la prima fase dei lavori di restauro della chiesa di S. Sabina all’Aventino, iniziata nel 1914.
Nel corso dei secoli l’impianto dell’antica basilica era stato alterato da modificazioni sostanziali. L’intervento più invasivo era stato, a detta dello stesso Muñoz (La basilica di S. Sabina in Roma, Milano-Roma s.d. [ma 1919]), quello effettuato da Domenico Fontana sotto il pontificato di Sisto V, allorché si era proceduto alla demolizione della schola cantorum di Eugenio II, all’eliminazione dei marmi posti a rivestimento delle pareti dell’abside e alla chiusura della gran parte delle bucature in facciata e sulla navata centrale In tempi più recenti (1906) nella zona presbiteriale erano stati eretti un baldacchino e un altare in stile cosmatesco (Racheli, 1995). L’intento di Muñoz fu ricostituire l’unità stilistica dell’organismo originario, riportandolo alla presunta facies prebarocca. Il ripristino delle bucature e la ricostruzione della schola cantorum furono realizzati, peraltro, sulla base di indizi piuttosto deboli. Quanto alle prime, una volta rimosse le tamponature celate al di sotto dello strato di intonaco e ridefiniti i vani, si provvide a ricostruire le grate poste a chiusura, originariamente realizzate in scagliola e lastre di selenite spatica, con un impasto di cemento e polvere di granito formato secondo un motivo liberamente tratto da alcuni frammenti rinvenuti nel corso dei lavori. Nel presbiterio, demoliti il baldacchino e l’altare novecenteschi, la ridefinizione planimetrica della schola cantorum, della quale erano stati ritrovati ulteriori, esigui, reperti appartenenti alla cimasa, venne effettuata sulla base delle poche tracce rinvenute nella pavimentazione, «ma in generale la restituzione in pianta si fonda su analogie con altri tipi conosciuti» (ibid., p. 385); nell’alzato, le integrazioni furono rese facilmente distinguibili dalle parti originarie per mezzo delle decorazioni, tracciate a graffito in forma di abbozzo sulla superficie.
I lavori in S. Sabina furono oggetto di critiche severe da parte di Roberto Longhi (La toilette di Sabina e altre cose, in IlTempo, poi in Scritti giovanili 1912-1922, Firenze 1961, pp. 437-440), il quale esecrava «la chiesa-museo, il modello didascalico di basilica cristiana» proposto da Muñoz, per la verità senza troppo offuscare i consensi pervenuti da più parti. Nel 1936 la chiesa fu oggetto di un’ulteriore e sistematica serie di interventi mediante i quali Muñoz fece, tra l’altro, occultare le capriate lignee della copertura della nave centrale da un soffitto a cassettoni, reputato forse più consono filologicamente a una basilica paleocristiana, e rivestire nuovamente di marmo le pareti dell’abside; essendo stati, inoltre, rinvenuti nuovi frammenti della pavimentazione della schola cantorum che generavano qualche incertezza circa l’attendibilità della ricostruzione operata alcuni anni prima, Muñoz stabilì di rimuovere quanto realizzato allora, «innalzando un recinto più largo rispetto alla prima versione con gli amboni dell’Epistola e del Vangelo proposti in forme semplificate, mancando totalmente dati di riscontro» (Racheli, 1995, p. 387).
Negli anni del primo conflitto mondiale Muñoz lavorò anche al consolidamento delle volte della Domus Aurea. Fuori Roma sovrintese ad Anagni alla sistemazione del palazzo di Bonifacio VIII, del palazzo comunale e della cattedrale; a Casamari al restauro dell’abbazia e a Tivoli della villa d’Este; a Viterbo, oltre ai lavori intrapresi nel duomo, aveva posto mano nel 1912 alla medievale chiesa di S. Maria Nuova al fine di eliminarne le ‘deturpazioni’ subite nei due secoli precedenti.
Il ripristino fu effettuato intervenendo pesantemente sull’impianto, come descritto dallo stesso Muñoz nel volume Il ripristino della chiesa di S. Maria Nuova in Viterbo e il S. Francesco di Vetralla (Roma 1912), nel quale egli stesso solleva alcuni dubbi sull’opportunità della rimozione degli intonaci, ammettendo come probabile che almeno in epoca medievale questi fossero presenti nella gran parte delle chiese non soltanto del Viterbese.
Strenuo distruttore delle trasformazioni attuate sui monumenti in epoca barocca, Muñoz fu attento studioso di quel periodo storico: tra il 1918 e 1919 diede alle stampe due tra i suoi studi più noti, Elogio del Borromini e Roma barocca, accolti in maniera discordante dalla critica.
Dal 1921 al 1925, nominato direttore preposto ai Monumenti di Roma, intraprese i lavori di isolamento del tempio cosiddetto della Fortuna Virile al foro Boario, trasformato nel corso dei secoli nella chiesa di S. Maria Egiziaca e inglobato in un articolato assieme comprendente alcune case.
La questione di maggiore entità susseguente all’abbattimento delle superfetazioni fu la reintegrazione del lato del tempio adiacente la zona demolita, che era stato privato dei partiti architettonici. Muñoz ricorse nuovamente al metodo analogico ed effettuò la ricostruzione basandosi sulla parte meglio conservata del tempio, utilizzando la muratura di mattoni ricoperta di intonaco rustico per le integrazioni operate sia sul paramento in tufo, sia sui fusti delle colonne, nei quali le parti nuove furono rese ulteriormente riconoscibili dalla mancanza delle scanalature.
Tra il 1923 e il 1926 curò alcuni interventi in S. Giorgio in Velabro e, tra 1927 e il 1929, in S. Balbina, condotti anch’essi con l’intento di restituire agli edifici l’unità stilistica compromessa a seguito degli interventi di trasformazione.
Analogamente a quanto era avvenuto in S. Sabina, in entrambe le chiese furono ripristinate le finestre e ricostruiti i pannelli traforati posti a chiusura. In S. Balbina l’operazione risultò frutto di «assoluta invenzione» (Racheli, 1995, p. 97): fu lo stesso Muñoz a spiegare come «non essendovi traccia alcuna delle antiche transenne, ve ne [avesse] applicate alcune ispirate a quelle di S. Sabina ma con lastrine di vetro» (ibid.).
Tra il 1923 e il 1927 si recò con frequenza all’estero per tenere cicli di conferenze; nel 1927 fu chiamato a far parte della commissione preposta all’elaborazione delle linee guida del redigendo piano regolatore di Roma del 1931, della quale erano membri Cesare Bazzani, Armando Brasini, Gustavo Giovannoni, Roberto Paribeni, Marcello Piacentini, accademici d’Italia, Edmondo del Bufalo e Alberto Calza Bini, del sindacato fascista degli architetti e ingegneri, Paolo Salatino e Cesare Palazzo in qualità di rappresentanti rispettivamente del Municipio capitolino (come lo stesso Muñoz) e del ministero dei Lavori pubblici.
Lasciata la direzione della soprintendenza nelle mani di Gianfranco Vené (maggio-dicembre 1928) e poi di Alberto Terenzio (gennaio 1929-luglio 1950), nel 1930 (nel 1929, secondo Racheli e Bellanca) fu posto a capo dell’ufficio Antichità e belle arti della X ripartizione del Governatorato capitolino, divenendo il «braccio esecutore della Roma di Mussolini e vero deus ex machina della grande trasformazione archeologico-monumentale di Roma moderna» (Porretta, 2008, p. 31): fra i suoi interventi, vi furono l’isolamento del colle Capitolino che, attuato fra il 1926 e il 1943, vide la distruzione di pregevoli sequenze del tessuto edilizio della città storica in prossimità delle sue pendici, da piazza Montanara a via di Tor de’Specchi fino a via della Consolazione; la sistemazione dei Fori, della basilica di Massenzio e del tempio di Venere e Roma; il riassetto dell’area del foro Olitorio e della chiesa di S. Nicola in Carcere; l’apertura della via del Mare e della via dell’Impero.
L’opportunità di realizzare un asse viario di collegamento tra via del Corso e il Colosseo era stata ipotizzata in più occasioni sia in epoca napoleonica, sia successivamente alla proclamazione di Roma capitale. Nel 1911, all’indomani dell’inaugurazione del Vittoriano, la proposta andò configurandosi in maniera sostanzialmente diversa. Prese corpo, cioè, la possibilità di operare gli sventramenti non più al solo scopo di tracciare la sede stradale, limitandone quindi l’entità, ma di ‘liberare’ i Fori, realizzando non già una strada, ma «una grande via monumentale» (ibid., p. 33). I lavori ebbero inizio nel 1931: ne risultò un paesaggio di rovine nel quale le modalità di percezione dei monumenti erano state radicalmente mutate, essendo stato irrimediabilmente compromesso «l’impatto emotivo della scoperta, del fuori scala, del cambiamento improvviso di orientamento…» (ibid., p. 34). Il Colosseo, così collocato nel nuovo contesto spaziale, vide la propria connotazione di elemento emergente fortemente alterata: «i resti dell’antico Impero vennero riprogettati rispetto ad un nuovo punto di vista, prima inesistente: quello della strada» (ibid.). Contemporaneamente ai lavori di apertura della via dell’Impero, Muñoz si preoccupò di avviare il consolidamento strutturale della basilica di Massenzio, che aveva risentito delle demolizioni della Velia. Risarcite le lesioni, provvide al ripristino degli archi tamponati, operando un ‘completamento volumetrico’ a seguito del quale l’abside della basilica, ovvero la sua parte posteriore, sarebbe stata percepita come «fronte monumentale» (ibid., p. 35).
Tra il 1933 e il 1935 anche il vicino tempio di Venere e Roma subì un importante intervento di restauro, che contemplò l’innalzamento delle colonne e l’esecuzione delle consuete reintegrazioni.
In questa occasione Muñoz fece ricorso, con esiti interessanti, alla ricostruzione arborea, già oggetto, peraltro, di precedenti studi e sperimentazioni da parte di Giacomo Boni e di Raffaele De Vico: la scala di accesso alla platea fu realizzata con gradini di bosso, e arbusti di alloro andarono a ridefinire le murature perimetrali della cella, mentre le superfici estese delle murature di sostegno vennero celate con essenze della macchia mediterranea.
Il rapporto dialettico tra antico e contemporaneo fu argomento della relazione Les monuments antiques dans l’ambiance de la ville moderne: l’exemple de Rome, presentata da Muñoz alla Conferenza internazionale di Atene del 1931, dedicata alle principali problematiche connesse alla conservazione e al restauro dei monumenti architettonici,ove si era recato in qualità di membro della delegazione italiana.
Nel 1944, soppresso il Governatorato, Muñoz, richiamato dalla soprintendenza e assegnato alla sede dell’Aquila, si pose in congedo adducendo problemi di salute; dal 1945 al 1949 curò il riordino dell’Archivio del Gabinetto fotografico nazionale (Bellanca, 2003).
Nel 1930 era stato il primo direttore del Museo di Roma: inaugurata da lui stesso nel fabbricato dell’ex pastificio Pantanella in piazza Bocca della Verità, la struttura venne trasferita nel 1952 nell’attuale sede di palazzo Braschi.
Fu un romanista, studioso di ‘fatti e figure’ romane ed egli stesso autore di sonetti (Bellanca 2003, p. 21). Fu anche pittore, come Maria Luisa Viné, che divenne sua moglie: espose le proprie opere nell’ambito della Quadriennale romana nelle edizioni dal 1931 al 1943 e nel 1952.
Durante tutti gli anni Cinquanta, proseguì la collaborazione con la rivista L’Urbe, da lui fondata nel 1936. Dal 1947-48 al 1954 tenne il corso di storia dell’arte e stili dell’architettura presso la facoltà di architettura.
Morì a Roma il 22 febbraio 1960.
Alla morte lasciò il suo archivio fotografico al nipote Federico Zeri, storico e critico d’arte: il materiale costituisce parte del patrimonio della Fototeca Zeri, attualmente gestita dall’omonima Fondazione con sede in Bologna.
Fonti e Bibl.: Roma, Arch. centrale dello Stato, Antichità e belle arti, Divisione I, b. 100: Antonio Muñoz; Ibid., Arch. generale dell’Ordine dei padri predicatori, Fondo Darsy, c. n.n.; Ibid., Arch. Biblioteca Quadriennale di Roma, ad ind.; L’Urbe, n.s., XXIII (1960), 2-3, n. monografico; C. Ceschi, Le chiese di Roma dagli inizi del Neoclassico al 1961, Rocca San Casciano 1963, pp. 167-170; I. Insolera, Roma moderna. Un secolo di storia urbanistica, Torino 1971, pp. 129, 136-139, 141; Gli anni del Governatorato (1926-1944). Interventi urbanistici scoperte archeologiche arredo urbano restauri, a cura di L. Cardilli, Roma 1995, passim; A.M. Racheli, Restauro a Roma 1870-1990. Architettura e città, Venezia 1995, passim e 401 (con bibl.); C. Bellanca, La basilica di S. Sabina e gli interventi di A. M., Roma 1999; Id., A. M. storico dell’architettura e docente, in La facoltà di architettura dell’Università di Roma “La Sapienza” dalle origini al Duemila, a cura di V. Franchetti Pardo, Roma 2001, pp. 133-139; Id., A. M. La politica di tutela dei monumenti di Roma durante il Governatorato, Roma 2003, con regesto degli scritti; P. Salvatori, Il Governatorato di Roma. L’amministrazione della Capitale durante il fascismo, Milano 2006, p. 52; V. Vidotto, Roma contemporanea, Roma-Bari 2006, pp. 178 s., 200 s., 416 s., 419-423; P. Porretta, A. M. e via dei Fori imperiali a Roma, in Architetti e archeologi costruttori d’identità, a cura di E. Pallottino, Roma 2008, «Ricerche di stora dell’arte» n. 95, pp. 31-43.