Rosmini-Serbati, Antonio
Filosofo e teologo cattolico, fondatore dell’Istituto della carità, nato a Rovereto nel 1797 e morto a Stresa nel 1855.
Il giovane R. non lesse le opere di M. durante gli studi liceali e universitari; in quel periodo risulta citato soltanto lo scritto machiavelliano sulla lingua (lettera a Michele Simone Tevini e Luigi Sonn, 12 nov. 1814, in Epistolario completo, 13° vol., 1894, p. 11). Lesse però il Principe e i Discorsi (nell’edizione milanese del 1804-1805) durante la composizione della cosiddetta Politica prima (1821-27). In questa fase R. valutò positivamente il pensiero e la personalità di M., definendolo «sommo politico fiorentino» (Politica prima, a cura di M. D’Addio, 2003, p. 90). Fu attratto dalla figura del principe, teorizzandone la superiorità:
Qualunque cosa si parli o scriva intorno all’origine del reggimento pubblico, questi che dirà saranno sempre principi verissimi che la suprema podestà si possa considerare come un essere che possiede intera la libertà naturale. Il principe, poiché da questo principalmente partiamo come da esemplare del supremo potere, è di sua natura il primo: per conseguente non limitato, e non soggetto a veruno altro mortale fuori che alla giustizia (Politica prima, cit., pp. 269-70).
Il principe si distingue in quanto
è quell’unico uomo della nazione, a cui restò il pieno possesso della natural libertà. Gli altri tutti hanno più o meno ristretta, ma questo non già arbitrariamente, ma per le immutabili variazioni della convivenza, e della natural diseguaglianza (p. 270).
Le riflessioni di R. sulla dinamica del governo, di fronte alla naturale diseguaglianza degli individui, esaltano le virtù del principe con accenti machiavelliani. Il popolo
sa che l’esser governato, che l’avere un capo è un gran bene. Che importa cercare donde vengano i diritti di questo capo purché il capo faccia il suo dovere, faccia da capo, bene unisca e regga le membra? (p. 165).
Queste considerazioni s’inseriscono nella critica alla demagogia rivoluzionaria. Era positivo per R. il fatto che M. avesse raccomandato di guardare alla sostanza nella conservazione del potere statale: «si può osservare di Macchiavello che non le bestialità sue gli fecero la fama che ha, ma il volgere tutto come fa alla sustanza, cioè all’acquistare e tenere gli Stati» (p. 91 nota 4). In tale ambito R. cita un passo dai Discorsi (III xvi) in cui M. afferma che «la vera virtù si va nei tempi difficili a trovare» (pp. 90-91).
Pur approvando il consiglio al principe di rifuggire da vizi che possano impedire la conservazione dello Stato, e di moderare gli altri vizi, R. considera le «regole» dell’intero cap. xviii del Principe come comportamenti da cui i governanti dovrebbero in realtà guardarsi, per i loro esiti nefasti: «Però che è a desiderare che l’arte furbesca sia bandita dalle corti e che ciascuno de’ principi possa usare a fidanza cogli altri». L’ingiustizia può dare un «servigio momentaneo», ma non potrà mai accadere che alla giustizia si sottragga «il pregio di sommo mezzo politico» (p. 232). Sulla scia dei molti interpreti che avevano inteso le massime del Principe come una messa in guardia dalla malafede dei governanti, R. osserva:
Dice la comun voce che nessuno vide più là nelle cose politiche. Si può crederlo tuttavia da voi da questo solo che vi permette ogni cosa? Sì: permette anzi insegna a’ Principi ogni scelleratezza che paia utile. Ma scrive Bacone di Verulamio, che noi dobbiamo saper grado al Macchiavello e ad altri tali scrittori, perché apertamente e senza simulazione persuasero le nequizie de’ principi e li fecero conoscere (p. 204).
Secondo R., M. aveva svelato gli aspetti mostruosi e pericolosi del potere, teorizzando la necessità per il principe
che sia mezzo bestia e mezzo uomo e che sappia usare bene la bestia e l’uomo, e per bestia intende la volpe ed il leone, cioè l’astuzia e la frode, e la mancanza di fede, e la violenza, le quali cose sono troppo aperte perché non si vegga chiaro in esse l’inimico, lo schernitore del principe [...] Questi diritti e queste facoltà che vi vogliono dare, o regnanti, dai nuovi dottori che s’infingono di strisciare ai vostri piedi, sono i doni dei Danai, doni pieni di insidia, da averne grande sospetto (p. 206).
La visione reazionaria, cui R. si era orientato negli anni 1821-25, lasciò poi spazio ad altri intendimenti, fondati sulla «costituzione» della società civile, che preludono alle dottrine politiche e giuridiche mature. La società civile viene allora proposta come un insieme di persone responsabili, i capifamiglia, che delegano la loro sovranità naturale a un regnante al fine di ottenere da lui un governo regolare. Ma tale governo non è più «signorile», bensì regolato dal rispetto dei diritti della persona e delle famiglie. R. enuncia queste tesi in Della naturale costituzione della società civile, del 1827 (l’opera, rimaneggiata nel 1848, fu pubblicata nel 1886). Quando R. si confronta con M. nella Filosofia della politica (1837-1839), le citazioni dalle sue opere si fanno rare e critiche. Per es., quando nella parte prima della Filosofia della politica tratta della necessità che per conservare uno Stato si faccia spesso riferimento al periodo dei valori fondanti di esso, R. cita il passo dei Discorsi (III i) sulla necessità del ritorno alle origini (Filosofia della politica, a cura di M. D’Addio, 1997, pp. 80 e 95-96), applicando alla Chiesa cattolica questo principio, ma correggendo l’affermazione machiavelliana sull’azione di Francesco e Domenico con il riferimento alla provvidenza divina, che accompagnò l’opera dei due grandi santi.
La scarsa presenza di citazioni machiavelliane nella Filosofia del diritto (1841-1843) si spiega poi nell’aver posto R. la disciplina politica al servizio della morale e del diritto. Il mutamento di prospettiva è già annunciato in una nota della Filosofia della politica:
Sarebbe all’incontro del tutto assurdo e mostruoso il concepire una scienza politica, la quale volesse astrarre e prescindere al tutto dai diritti e dai doveri scambievoli che associano insieme gli uomini. Tale è la funesta astrazione del Machiavelli, ond’egli si fece seguìto maestro non di politica, ma di ogni più vile prepotenza e di ogni abbominevole latroneccio, e fu gran parte delle rovine d’Italia (Filosofia della politica, cit., p. 188).
Nell’Introduzione alla Filosofia del diritto si avverte che il lettore
vedrà ragione onde noi facemmo precedere in questa collezione [delle opere complete] le opere morali e giuridiche alle politiche. Vedrà pure quanto assurda e mala cosa ella sia il considerare le dottrine politiche, siccome fece prima il Machiavelli e poi tanti dopo di lui, astrazion fatta dalle dottrine giuridiche, quasi che quelle possano andarsene accompagnate da queste a cui debbono, siccome ancelle, umilmente servire (1° vol., 1841, p. 19).
R. quindi critica la deduzione machiavelliana dei doveri dell’uomo dalla socialità, secondo una visione utilitaristica dell’etica e del diritto (cfr. Filosofia del diritto, 1° vol., cit., p. 71). Il principio che la salvezza dello Stato deve essere la massima principale della prassi politica viene rigettato:
Questo principio feroce che veste tante foggie e cangia tante appellazioni, sotto il nome di ragion di stato, non finisce di incrudelire nell’umanità. Il Machiavelli non l’inventò, ma il tradusse in volgare (Filosofia del diritto, 1° vol., cit., p. 616).
Il principio della ragion di Stato si esplicita nel suggerire al principe di adattare il comportamento alle circostanze:
Coloro che dicono il rispetto de’ diritti essere un’obbligazione che cessa secondo il volgere delle circostanze, non fallano solo nella esattezza delle espressioni, ma confondono realmente i concetti. Secondo il loro modo di esprimersi, il diritto riceverebbe la sua forza ed esigerebbe rispetto solo dal di fuori, dalle esterne circostanze [...] Questo sistema sacrifica la giustizia all’utilità, sia poi quest’utilità privata o pubblica (pp. 598-99).
Bibliografia: Filosofia del diritto, 2 voll., Milano 1841-1843; Filosofia della politica, a cura di M. D’Addio, Roma 1997; Politica prima, in appendice Frammenti di Filosofia della politica (1826-1827), a cura di M. D’Addio, Roma 2003.
Per gli studi critici si vedano: G.M. Sciacca, Machiavelli e Rosmini, in La problematica politico-sociale nel pensiero di Rosmini, Atti dell’incontro internazionale rosminiano, Bolzano 1954, Roma 1955, pp. 390-95; R. Marsala, La figura del Principe in Machiavelli e Rosmini, «Rassegna siciliana di storia e cultura», 2006, 10, 28, pp. 31-53; G.L. Stoica, Antonio Rosmini, un attento studioso degli scritti di Machiavelli, «Storia e politica», 2011, 3, 1, pp. 55-63.