SCIALOJA, Antonio (Toti)
– Nacque a Roma il 16 dicembre 1914 da Gustavo, ingegnere, e da Ada Persico; la sua famiglia era stata però soprattutto dedita agli studi di giurisprudenza, e alla politica: furono numerosi, fra i suoi antenati e parenti, i ministri di vari governi italiani.
Fin dall’adolescenza s’impegnò a elaborare composizioni poetiche, dapprima tradizionalmente in rima, ma da subito scosse da una fantasia irriverente e giocosa, portata al limite del surreale («L’ippopota disse: ‘Mo / nella mota ho il mio popò!’», Amato topino caro, Milano 1971, p. n.n.), su cui molto incise il limerick di Edward Lear, che ben conobbe e dal quale probabilmente mutuò anche il gusto di corredare le brevi strofe di piccoli disegni: dando così precocemente spazio a un’altra dimensione – il disegno – della sua educazione artistica. Diplomatosi poi nel 1933 al liceo classico Visconti di Roma, e iscrittosi per rispettare la tradizione familiare alla facoltà di giurisprudenza, iniziò però presto a frequentare, grazie alla consuetudine con Libero de Libero, l’ambiente della galleria della Cometa e della casa della contessa Mimì Pecci Blunt, ove conobbe tra l’altro Corrado Alvaro, Massimo Bontempelli, Emilio Cecchi, Alberto Savinio, Giuseppe Ungaretti, Gino Severini, Corrado Cagli e Mirko.
Ormai condotto dalle nuove amicizie verso pensieri di carattere artistico, abbandonò gli studi di legge per dedicarsi interamente alla pittura. Una sua prima personale di soli disegni, si tenne a Genova nel 1940; una seconda a Torino, nel 1941, introdotto da Cesare Brandi. Iniziò la collaborazione a Il Selvaggio (poi a Mercurio e, dal 1947, a L’Immagine), sempre come critico d’arte contemporanea. Nel maggio del 1943 espose all’ultima Quadriennale di Cipriano Oppo.
Sempre nel 1943 partecipò alla Resistenza, nelle fila del Partito d’azione, da settembre fino alla Liberazione di Roma.
Il 16 luglio 1945 si sposò con la pittrice Titina Maselli, ma il matrimonio non durò a lungo e nel 1949 si separarono. Nello stesso 1945 ebbe poi inizio, con una mostra allo Zodiaco di Roma che lo vide esporre, presentato da Alberto Moravia, a fianco di Piero Sadun e Giovanni Stradone, quell’unione fra pittori che si dichiaravano ‘espressionisti’ e che culminò due anni dopo alla galleria del Secolo nell’esposizione «Quattro artisti fuori strada»: appunto Stradone, Sadun e Scialoja, ai quali s’univa allora Arnoldo Ciarrocchi.
Insieme al coreografo Aurel Milloss – con il quale era già iniziato da qualche tempo un proficuo sodalizio, e per il quale eseguì scene e costumi di molti spettacoli ospitati, tra l’altro, dall’Opera di Roma, dalla Fenice di Venezia e da varie edizioni del Maggio musicale fiorentino (costituendo, la collaborazione con Milloss, l’occasione più continua del suo lungo lavoro per il teatro) – soggiornò nell’estate del 1947 a Parigi, dove venne sedotto in particolare dall’opera di Vincent Van Gogh; e questa scelta stilistica risultò egemonizzare i dipinti esposti nella personale allo studio La Finestra di Roma del 1948.
Opere di ancora incerta collocazione fra sintesi astratteggiante, sospensione metafisica e iperbole surrealista espose poi alla XXV Biennale di Venezia (1950). Nei molti interventi teorici di questi primi anni Cinquanta, come nella pittura coeva, Scialoja mostrò oscillazioni fra permanenze figurali (suggestionato ora da Giorgio Morandi) e vocazione astratta, che si sarebbe manifestata pienamente solo a partire dal 1954. Frattanto si susseguivano le occasioni espositive, in Italia e all’estero.
Il 1954 si rivelò un primo anno perfetto per la sua pittura. Fu solo a questa soglia avanzata, infatti, che egli toccò la maturità, fino a possedere «la propria, unica e irripetibile sostanza»: così scriveva adesso (giugno 1954) sui fogli dattiloscritti che prese a riempire fittamente nel marzo di quell’anno, e che avrebbero costituito il Giornale di pittura.
Il dattiloscritto (carte sciolte, numerate ad annum, con integrazioni autografe a penna, conservato presso la Fondazione Scialoja di Roma), tuttora inedito nella sua interezza, è un intenso diario intellettuale cui Scialoja affidò la crescita del suo pensiero estetico: lucido sulle esperienze artistiche con le quali entrava in contatto, lucido e tormentato insieme sulla sua medesima.
La nuova pittura nacque dalla definitiva rinuncia all’oggetto e, abbracciando per converso quell’astrazione espressionista che era alle fondamenta dell’action painting statunitense, fu presentata alla galleria del Milione di Milano.
I successivi dipinti del 1955 sono rossi affocati, terre scure, grigi plumbei che s’accordano in una tempesta di segni che vanno liberandosi a fatica dal ‘comporre’ implicito nella griglia ordinata, ancora in parte d’origine cubista, del 1954. Il nuovo medium dello straccio, suggeritogli da Alberto Burri, è assunto a strumento di pittura in luogo del pennello: uno straccio «ora elastico, ora gonfio e appesantito, ora magro, ora scolante» (Giornale, febbraio 1956) che si svincola sulla tela con un forte gradiente di azzardo e di cecità, pronto ad assicurargli l’ultimo passo verso una pittura che sappia «aprire la mia finestra sulla notte interiore» (Giornale, ottobre 1954).
Da allora in avanti iniziò la stagione maggiore di Scialoja. Affollava rapidi, ansiosi, drastici mutamenti di rotta: correva, adesso, verso la sua nuova immagine, ora affidata alle nozioni nuove di automatismo, di cecità e di gesto («esser se stessi interamente nel gesto, calati vivi, a nostra insaputa»; Giornale, maggio 1956). In una con tali pensieri, scemò allora il suo impegno di critico d’arte; come pure si diradò il suo lavoro per il teatro. Nel frattempo era drasticamente mutato anche l’orizzonte critico attento alla sua immagine: dopo Giuseppe Marchiori, che lo presentò alla Quadriennale di Roma del 1955, scrissero di lui, fra gli altri, Nello Ponente, Roberto Tassi, Milton Gendel, Dore Ashton, Lionello Venturi, e il cerchio delle amicizie, che comprendeva ora Afro, Burri ed Ettore Colla su tutti.
Certo, a fronte di questo, Scialoja dovette pagare il prezzo di una progressiva separazione da quella cerchia eletta di letterati, critici, artisti di diversa vocazione che aveva costituito il caldo grembo della sua giovinezza. A questa perdita corrispose l’ingresso nella sua vita, fondamentale, di Gabriella Drudi: che, già prima d’iniziare con Toti la vita in comune, gli era stata e gli fu sino alla fine insostituibile compagna d’esistenza, di lavoro e di pensiero. Fu la Drudi, tra l’altro, che contribuì a spostarne lo sguardo da Parigi a New York, dove i due giunsero nel settembre del 1956, e dove, dopo la personale alla Catherine Viviano Gallery, si trattennero sino a fine dicembre, stringendovi amicizie importanti e durature: fra l’altro con Willem de Kooning, Mark Rothko, Philip Guston, Robert Motherwell, Conrad Marca-Relli.
I primi mesi, dopo il ritorno da New York, furono spesi a saggiare l’assoluta libertà del gesto, dell’azzardo, del rapporto fisico con la tela. Uscirono così, tra gennaio e l’estate del 1957, dipinti aggrediti con gioia e furore, ove una figura strappata occupa spesso il centro della tela, squassandola d’energia. Nell’estate del 1957, a Procida, nacquero le ‘impronte’, modo maggiore della sua pittura, che attraverso lo stampaggio del colore sulla tela mitigava il cieco ripiegarsi della mano sulla superficie proprio dell’action painting. Le impronte, prima omogeneamente distese sull’intera superficie della tela, poi scandite e vieppiù isolate in un loro campo, occuparono la pittura di Scialoja sino alla metà degli anni Sessanta. Subito, con esse, il pittore venne riconosciuto come uno degli esponenti di maggior rilievo nel panorama dell’astrazione italiana.
Dopo il rientro in Italia da New York, e sino al suo ritorno negli Stati Uniti nel marzo del 1960, Scialoja espose in tre personali a Roma, rispettivamente alla Schneider nel maggio 1957, alla Salita nel novembre 1958 e alla Tartaruga nel giugno 1959, oltre che in varie collettive. Si occuparono allora del suo lavoro Venturi, Giovanni Carandente, Murilo Mendes, Palma Bucarelli, Ponente – tra gli altri; e Gillo Dorfles, che lo introdusse alla personale romana del 1959, con il testo più lucido sino allora comparso sulle impronte: nelle quali – scrisse – «la ripetizione di elementi identici (anzi: analoghi) a distanze topo-cronologiche discontinue suscita, inevitabilmente, un ritmo; e codesto ritmo trae con sé la nascita, magica e impreveduta [...], d’un tempo emotivo: un particolare e universale tempo spazializzato» (Toti Scialoja, Roma 1959, p. n.n.; ora in Id., Gli artisti che ho incontrato, a cura di L. Sansone, Ginevra-Milano 2015, p. 143).
Sempre più episodico, ormai, il lavoro teatrale. Mentre assieme a Gabriella Drudi, che ne fu segretaria di redazione per due numeri (1956, n. 5, e 1957, n. 6-7, della serie 2), Toti partecipò alla concezione e agli indirizzi dell’ultimo tempo di Arti visive, pubblicando un saggio su Afro (n. 5, pp. 11-15, con lo pseudonimo di Carlo Efrati) e dedicando un numero monografico (n. 6-7) ad Archile Gorky, che segna il primo momento d’attenzione critica italiana al padre della scuola di New York.
Nel marzo del 1960, nuovamente a New York dopo aver rinunciato all’incarico di insegnamento all’Accademia di belle arti di Roma iniziato nel novembre del 1957, pose mano a dipinti di grande dimensione, nei quali le impronte sono serializzate, disponendosi come presenze pausate, ieratiche e silenziose, nel vasto spazio della tela: dipinti che sono certamente fra i maggiori della pittura italiana coeva, pur avendo avuto il destino amaro di rimanere, per dieci anni e oltre, a tutti sconosciuti, arrotolati nello studio di East Hampton di Costantino Nivola.
Frequentò ancora, a New York, gli amici del suo primo soggiorno oltreoceano; ma «la sensazione netta – scriveva ad Achille Perilli in giugno – è che tra la vecchia guardia della scuola di New York e i giovani ci sia un salto netto di qualità, di sostanza umana, di verità espressiva» (cit. in METEK, 1996, n. 1, p. 35). In realtà, dunque, questo secondo soggiorno a New York fu una sorta di suggello posto da Scialoja a concludere la sua vicinanza all’espressionismo astratto americano.
Di ritorno in Italia, espose in due personali, al Naviglio di Milano e alla Salita di Roma; nel 1961 partì per Parigi, dove frequentò sino alla morte del filosofo le lezioni di Maurice Merleau-Ponty alla Sorbona (che gli confermarono la propria condivisione dei principi della fenomenologia), dipingendo tele nelle quali le impronte si fanno sempre più cadenzate e isolate in spazi di loro gelosa pertinenza: nitide visualizzazioni dello scorrere del tempo sulla superficie. Rimase a lungo a Parigi (dal febbraio del 1961 al settembre del 1964); nel corso del 1963, però, sue opere furono a Livorno, alla vasta rassegna «Aspetti della ricerca informale in Italia fino al 1957», mentre nel febbraio dell’anno precedente aveva esposto alla Salita di Roma: due testimonianze, fra numerose altre, della continuità di rapporti che Scialoja si sforzò di mantenere con l’Italia, con gli amici critici e con i suoi principali galleristi, negli anni di Parigi (che restarono comunque, come egli stesso testimoniò a Dorfles, forse i più solitari di questa sua età perfettamente matura).
Quasi allo scadere del tempo parigino ebbe una larga sala personale alla XXXII Biennale veneziana. Poi fu intensa l’attività espositiva, in Italia e all’estero, con l’appoggio critico di antichi e nuovi amici (fra i quali Mendes, Maurizio Calvesi, Maurizio Fagiolo). Riprese allora con maggiore vigore il lavoro per il teatro (del 1964 sono le scenografie di Povera Juliet di Alfredo Giuliani e di Traumdeutung di Edoardo Sanguineti a Berlino; dell’anno seguente la messa in scena, al Parioli di Roma, di alcuni testi della compagnia dei Novissimi).
Nel maggio del 1966 si tenne alla Marlborough di Roma una vasta personale con opere dal 1958 al 1966: nella quale, dunque, tutta la vicenda delle impronte venne riproposta in sintesi, sino agli ultimi esiti, nei quali sia impronte pittoriche sia inserti materici tendono a racchiudersi entro porzioni verticali di spazio geometricamente scompartito. Poi, al Malmö Art Museum nell’ottobre del 1968, collage recenti attestarono la via, di rigorosa costrizione emotiva, che prese d’ora in avanti la pittura di Scialoja. S’aprì così un lungo tempo, che ebbe termine solo allo scadere dell’ottavo decennio, in cui tutta la libertà sperimentata fin dalla prima scoperta della nozione di gesto, tra il 1955 e il 1956, con le sue implicazioni di cieco automatismo e di estroflessione del proprio io sulla tela, gli apparve passibile di gratuità; mentre, come a contraltare, gli si ergeva la nozione di una superficie nitidamente scandita in porzioni successive di spazio, inemotive, e tali da indicare quasi didascalicamente lo scorrere del tempo lungo l’asse paradigmatico della storia.
A partire dalla fine degli anni Sessanta riprese l’attività didattica con l’insegnamento di scenografia all’Accademia di belle arti di Roma, di cui divenne direttore dal settembre del 1982 al 1987.
Il 4 maggio 1972 Scialoja e Drudi si sposarono. Abitarono quindi in un appartamento, ristrutturato ad abitazione e studio di pittura dall’amico architetto Silvio Radiconcini, in piazza Mattei n. 10.
Negli anni Settanta furono numerose le occasioni espositive di rilievo, intese a documentare la sua produzione recente: a Roma nel 1971, a Torino nel 1972, a New York e a Corpus Christi (Texas) nel 1973, a Milano nel 1974, nuovamente a Roma nel 1975, a Zurigo e al Musée des beaux arts di La-Chaux-des-Fonds nel 1976. Ancora all’Editalia di Roma nel 1978; al Segno, sempre a Roma, nel 1980; all’Isola di Roma nel 1982; alla Frankfurter Westend Galerie di Francoforte nel 1983: per dire solo di alcune personali sino a quella data che segnò un nuovo avvio della pittura.
A un’intera rifondazione dell’immagine della sua personalità concorse, negli stessi anni, la rivelazione della sua antica vena di poeta, che si manifestò, dapprima, nella pubblicazione di una serie di volumi di ‘poesie per l’infanzia’ (Amato topino caro, 1971; La zanzara senza zeta, 1974; Una vespa! Che spavento, 1975; La stanza la stizza l’astuzia, 1976; Ghiro ghiro tonto, 1979). Tutte poi riunite, insieme ad altre raccolte successive ovvero pubblicate in edizioni limitate, in Versi del senso perso (Milano 1989), suscitarono l’adesione convinta, tra gli altri, di Italo Calvino, Antonio Porta, Giovanni Raboni, Nanni Balestrini, Giorgio Manganelli. A partire dal 1981, e da allora in avanti con intensa frequenza (dipingeva la mattina, scriveva il pomeriggio: ogni giorno), Scialoja si votò poi alla stesura di versi non più dedicati all’infanzia, e che nel tempo assunsero tonalità anche drammatiche. Primi esempi della sua nuova poesia sono i Paesaggi senza peso, pubblicati prima da Paolo Mauri nella rivista Il cavallo di Troia (1981, n. 1, pp. 11 s.), quindi in volume dalla Litografia Bruni a Roma, sempre nel 1981.
Quando, tra il 1983 e il 1984, uscirono le due raccolte Scarse serpi e La mela di Amleto, presto seguite da altri titoli che iscrivevano ormai a pieno titolo Scialoja nel panorama della più qualificata poesia italiana (tanto che nel 1997 Raboni scrisse della «precisione con cui questo grande poeta riesce a mescolare invisibilmente le carte del sogno e quelle della vita», in T. Scialoja, Le Costellazioni, Venezia 1997, seconda di copertina), aveva già preso avvio la nuova, intensa sua operosità artistica: ed ecco che la poesia, cresciuta a dismisura sino ai grandi esametri di Rapide e lente amnesie (1994) e Le costellazioni (1997), si trovò a convivere per la prima volta con il riconoscimento pieno, esteso adesso a tutto il lungo arco dell’operosità, della pittura.
Un primo riscontro complessivo sulla sua opera era già venuto al palazzo della Pilotta di Parma, nel 1977. Ampia anche la rivisitazione dell’opera su carta che gli dedicò palazzo Te di Mantova nel 1979; ma la prima antologica che poté stringere assieme il lavoro delle due grandi stagioni del ‘gesto’ di Scialoja fu quella del Museo civico di Gibellina nel 1985, alla quale fecero seguito, fra le principali, le vaste antologiche della Galleria civica di Modena del 1987 e di Villa Reale a Monza nel 1988, fino alla grande retrospettiva della Galleria nazionale d’arte moderna di Roma, del 1991, anno in cui presso Leonardo-De Luca uscì anche la monografia di Fabrizio D’Amico Toti Scialoja. Tutto ciò seguì quella conversione decisiva del modo più recente di Scialoja, che sostenne come dinnanzi ai Goya di Madrid egli avesse ritrovato la necessità di una pittura data senza remore e spavento, finalmente libera dai dubbi paralizzanti che l’avevano toccata dalla metà degli anni Sessanta. Fu lì, a Madrid, che quel che l’artista aveva nominato ‘l’assoluto ritmico’ (il rendere visibile sulla superficie, attraverso la inemotiva esperienza delle quantità cromatiche disposte paratatticamente sulla tela, lo scorrere del tempo della nostra esperienza) si svelò come un demone non più totalizzante. In realtà, la voglia di ritrovare la libertà smarrita era allora da tempo in lui latente: già nel maggio del 1979, ad esempio, annotava sul Giornale: «Tornare al gesto, al gesto unico, al grande gesto automatico che annulli la negazione, che annulli l’altro da sé – la prigione [...]. Tornare a una pittura che valga come finale scancellazione dell’inerte» (Giornale di pittura, Roma 1991, pp. 181 s.).
Scialoja morì a Roma il 1° marzo 1998.
Fonti e Bibl.: Per un esaustivo inventario degli eventi, soprattutto espositivi, si veda G. Appella, Vita, opere e fortuna critica, in Toti Scialoja. Opere 1955-1963 (catal., Verona), a cura di F. D’Amico, Ginevra-Milano 1999, pp. 127-216.
Per quanto attiene al lavoro per il teatro, restano fondamentali i contributi di Barbara Drudi, Materiali, in Teatro da quattro soldi. Vito Pandolfi regista. Toti Scialoja scenografo (catal., Certaldo), a cura di A. Mancini, II, Bologna 1990, pp. 33-148; e Il teatro e la pittura, in Toti Scialoja. Opere 1955-1963, cit., pp. 29-47. Della stessa Drudi si vedano inoltre i saggi biobibliografici in calce a F. D’Amico, Toti Scialoja, Roma 1991, pp. 137-155; e al catalogo dell’antologica promossa dalla Galleria nazionale d’arte moderna di Roma, Toti Scialoja. Opere dal 1940 al 1991, Roma 1991, pp. 193-213. Per la poesia si veda Toti Scialoja. Poesie 1961-1998, prefazione di G. Raboni, Milano 2002.