SINIBALDI, Antonio
– Nacque a Firenze il 5 novembre 1443 da Nanna e da Francesco di Sinibaldo.
La famiglia abitava in Santa Croce, nella casa che era appartenuta al nonno di Antonio, Sinibaldo di Filippo di Simone da Carmignano (1381-ante 1442).
Questi, come l’avo Simone prima di lui, aveva praticato il mestiere di ritagliatore, vendendo panni di seta ‘a taglio’. Grazie alla sua compagnia, in rapporti anche con Cosimo de’ Medici, e ai terreni posseduti nel contado, Sinibaldo poté condurre un’esistenza agiata. I figli Francesco e Filippo non godettero invece di condizioni economiche altrettanto floride e si trovarono obbligati a vendere varie proprietà. Alla morte di Francesco, avvenuta nel 1471, al quartogenito Antonio toccò soltanto la metà di un podere a Mosciano (Scandicci).
Niente si sa degli studi di Sinibaldi, né tantomeno dei maestri che gli impartirono la prima educazione grafica. A dodici anni si iscrisse come ritagliatore all’arte di Por Santa Maria; stanti l’immatricolazione e l’estrazione familiare, è probabile che il giovane avesse frequentato le scuole d’abaco, imparando a scrivere quella stessa mercantesca usata dal padre e dal nonno. Ma se così fu, ben presto la sostituì con le scritture richieste dall’élite umanistica, ossia la littera antiqua e la cancelleresca all’antica, poiché nessuna sua testimonianza grafica – non se ne conoscono tuttavia esempi datati anteriori al 1468 − è in mercantesca, né sembra indicare trascorsi di mercantesca.
Nel 1468 Sinibaldi compare nel ruolo di testimone in un contratto di locazione rogato a Firenze da Alessandro Braccesi e nello stesso anno esemplò il primo codice da lui sottoscritto. Nel colophon si firmò «Antonio di Francescho di Sinibaldo ritagliatore»: a questa data l’attività di scriba, sebbene già di ottimo livello, era ancora occasionale e si affiancava all’esercizio del mestiere di famiglia.
Il 1469 fu un anno di svolta, segnato da repentini cambiamenti di vita. A gennaio entrò nel monastero di S. Salvi, costringendo il padre ad accollarsi i debiti contratti sia con setaioli e ritagliatori sia con cartolai e miniatori. Il rigido ambiente monastico non risultò però congeniale a quel giovane gracile, dallo spirito faceto e burlone («iocis facetiis salibusque refertus, preterea natura imbecillis tenuique corpuscolo», lo definiva Braccesi in una lettera del 1470), che pochi mesi dopo lasciò la «Salviana religione» per trasferirsi a Napoli, al servizio di Ferrante d’Aragona: sin dal novembre 1469 figurava tra i copisti del sovrano. Da allora la trascrizione di manoscritti divenne la sua unica professione; «lo exercitio mio è solo di scrivere a prezo», dichiarava nel 1481.
Probabilmente Sinibaldi ottenne l’incarico a Napoli tramite appoggi personali, di amici fiorentini che lo raccomandarono al re; sono infatti documentate le sue relazioni con varie personalità che gravitavano nella cerchia medicea, da Braccesi, con cui instaurò un profondo e duraturo legame, a Iacopo Guicciardini, a cui scrisse nell’ottobre del 1470, chiedendo consiglio sul comportamento da tenere in ordine ad alcuni dissapori tra Ferrante e Lorenzo de’ Medici. Dalla lettera traspare la dimestichezza tra i due corrispondenti e soprattutto l’intimità del copista con il Magnifico e la sua famiglia, tanto da far supporre un coinvolgimento di Sinibaldi nelle faccende politico-diplomatiche tra Firenze e Napoli: dietro la veste ufficiale di scriba di corte, stipendiato da Ferrante, c’era un uomo di Lorenzo.
Le cedole della Tesoreria aragonese attestano che Sinibaldi fu retribuito per tre anni come salariato: il compenso di 100 ducati annui fu riscosso in più rate fino al dicembre del 1472. In seguito fu pagato a opera e ciò gli permise una certa libertà nel lavoro e negli spostamenti. Dopo alcuni anni trascorsi soggiornando tra Firenze e Napoli, riprese stabile dimora nella città natale attorno al 1480-81. Anche a distanza mantenne rapporti con gli Aragonesi e in particolare con il figlio di Ferrante, Giovanni, di cui si proclamava familiaris: il cardinale Giovanni, fintanto che visse (1485), continuò a commissionargli codici e, scrivendo a Francesco Gaddi, lo ricordò per primo tra i copisti fiorentini che lavoravano per lui. Per la corte napoletana Sinibaldi confezionò più di una ventina di manoscritti, tutti di altissimo pregio: almeno dieci per Ferrante e undici quelli censiti per Giovanni, oltre a un Properzio-Ovidio con le armi dei Sanseverino.
Rientrato in patria, intensificò i legami con Lorenzo de’ Medici e con il suo entourage, specialmente politico. Già nel 1475, mentre era lontano da Firenze per gestire un affare personale, nominò suo procuratore Niccolò Michelozzi, segretario e fedelissimo del Magnifico; nel settembre del 1481 terminò la trascrizione degli Apologi di Bartolomeo Scala, nell’esemplare di dedica per Lorenzo. Per entrare nelle grazie del Magnifico fino a diventarne uno degli amanuensi preferiti, se non il prediletto, Sinibaldi poté contare sulle proprie abilità e su una trama di relazioni intessuta soprattutto con cancellieri e notai, partecipi del potere laurenziano: uomini di legge che tuttavia univano all’impegno politico quello letterario e che, come Braccesi, Scala e Michelozzi, erano membri dell’Accademia neoplatonica di Marsilio Ficino. Braccesi indirizzò all’amico Sinibaldi un affettuoso epigramma, il cui tono fraterno rivela una consuetudine di contatti e una comune frequentazione delle brigate fiorentine del tempo. Ad ambito ficiniano è altresì riconducibile il codicetto con la consolatoria di Giovanni Nesi a Braccio Martelli, probabilmente commissionato dall’autore per donarlo a Roberto Acciaioli ed esemplato celeri manu dal copista.
Sinibaldi non ricoprì mai cariche pubbliche, ma tra il 1484 e il 1485 collaborò con i Dieci di Balìa, longa manus del Magnifico per la direzione degli affari esteri in tempo di guerra. I Dieci, forse su suggerimento di Braccesi che in quegli anni ne dirigeva la cancelleria, assegnarono a Sinibaldi due incarichi: il 2 novembre 1484 gli dettero mandato di recarsi presso Giovanni Sforza e Camilla Sforza d’Aragona, conti di Pesaro, per trattare una questione diplomatica, seppur modesta; il 30 aprile 1485 lo pagarono «per haver servito alle lettere in cancelleria de’ detti Dieci».
Negli anni tra il 1484 e il 1490 la carriera professionale del copista raggiunse il vertice. Nel 1484 egli era già in rapporti con il giovanissimo Piero di Lorenzo de’ Medici, che gli affidò – magari non direttamente ‒ la copia di una propria traduzione dal greco, compiuta sotto la guida del Poliziano e dedicata al padre. Soltanto in questo libello è fatta menzione della casata medicea: «Magnifici Laurentii ac ornatissimi et doctissimi Petri perpetuus servitor Antonius Sinibaldus scripsit»; il legame con il Magnifico e i suoi congiunti fu talmente stretto da renderne superflua la citazione in tutti gli altri volumi che Sinibaldi allestì per loro.
La produzione per i Medici fu infatti ampia (oltre quindici codici), protratta nel tempo (l’ultimo manoscritto sottoscritto è del 15 maggio 1491), qualificata nei contenuti (per lo più classici, libri d’ore e patristici) e segnatamente nella fattura, quasi sempre di estrema raffinatezza; nella decorazione del resto furono spesso coinvolti i più famosi miniatori: Attavante degli Attavanti, Mariano del Buono, Francesco di Antonio del Chierico, Gherardo e Monte di Giovanni, Francesco Rosselli. Tra il 1488 e il 1490, inoltre, Sinibaldi affiancò all’attività per i signori di Firenze quella per il re d’Ungheria, trascrivendo per Mattia Corvino almeno cinque volumi, di cui due datati e firmati, confluiti in seguito nella raccolta medicea.
Sinibaldi arricchì e dette lustro non solo alle biblioteche degli Aragonesi e dei Medici, ma a molte altre di committenti altrettanto ragguardevoli e facoltosi: dai fiorentini Donato Peruzzi e Neri Capponi, al genovese David Lomellino, fino al duca di Urbino, Federico da Montefeltro, per il quale il copista lavorò in due occasioni su incarico di Vespasiano da Bisticci.
Nel 1484 aveva sposato Antonia di Giovanni di Francesco di Zanobi Galli, che tuttavia morì poco tempo dopo. Nel 1490, a 47 anni, contrasse nuove nozze con la ventiduenne Diamante di Ridolfo Paganelli, di antica e prestigiosa famiglia fiorentina. Per la suocera Tommasa vergò una petizione diretta al papa, specificando che «gratis scripsit»; tale precisazione e un’altra analoga, presente nel libro d’ore realizzato nel 1485 per Agostino Biliotti, sottolineano l’eccezionalità di un’opera professionale allestita senza alcun compenso. Dalla seconda moglie ebbe tre figlie: Camilla, di cui non si hanno notizie, Maria, che sposò il calzolaio Anselmo di Girolamo de’ Rossi, e Antonia, suora nel convento di Ognissanti.
Dopo la caduta dei Medici nel 1494 la produzione libraria di Sinibaldi divenne sporadica e le testimonianze su di lui si fanno rare: i documenti si fermano al 23 marzo 1502, quando prese in affitto una casa nel popolo di San Simone a Firenze, e l’ultimo dei codici che sottoscrisse reca la data 1501. Il piagnone Simone Filipepi, nella Cronaca composta tra il settembre 1502 e gli inizi del 1504, afferma che Sinibaldi «morì in grandissima calamità e miseria»; si ignora di preciso quando e dove, ma è certo che insieme con i Medici declinò anche il copista «perpetuus servitor» del Magnifico.
Fonti e Bibl.: A.C. de la Mare, New research on humanistic scribes in Florence, in A. Garzelli, Miniatura fiorentina del Rinascimento 1440-1525, I, Firenze 1985, pp. 460, 484-487, 595 s.; L. Regnicoli, A. S. copista di corte, in Il libro d’Ore di Lorenzo de’ Medici, a cura di F. Arduini, Modena 2005, pp. 141-181 (con rimandi alle fonti citate nel testo); Ead., Cenni sulla storia del codice Laurenziano, ibid., pp. 95-106; Ead., Tre ‘Libri d’Ore’ a confronto, ibid., pp. 188-222; Ead., Il libro d’Ore di Maddalena dei Medici, Modena 2011, pp. 32, 37, 41-43, 58-66; Ead., Una scrittura, due mani. A. S. o Alessandro da Verrazzano?, in Medioevo e Rinascimento, n.s., XXVI (2012), pp. 253-289 (bibliografia precedente alle pp. 255 s.).