STRADIVARI, Antonio
Liutaio, nato verso la fine del 1643 probabilmente in un villaggio prossimo a Cremona. A Cremona lo S. venne giovinetto, e fu allievo di Nicola Amati, nel laboratorio del quale è presumibile sia rimasto almeno fino al 1680. In quest'anno comprò una casa in piazza S. Domenico (oggi piazza Roma), e vi lavorò fino alla morte, avvenuta il 18 dicembre 1737.
Lo S. ebbe undici figli, dei quali soltanto Francesco (1° febbraio 1671-11 maggio 1743) e Omobono (14 novembre 1679-8 giugno 1742) seguirono la professione paterna, senza però eccellere.
Lo S. è l'artefice che per geniale intuito e appassionato fervore, sempre desto anche nella più tarda vecchiaia, ha saputo portare al più alto grado di perfezione la liuteria.
Facendo tesoro delle gloriose tradizioni di due scuole, la bresciana e la cremonese, e valendosi del consiglio dei violinisti contemporanei, egli, nel corso di oltre 75 anni, ha continuamente elaborato i principî della propria arte, anche con l'aiuto di un'eccezionale sensibilità visiva e di una rara prontezza manuale. Tutti gli elementi essenziali nella costruzione degli strumenti ad arco sono stati oggetto di studio da parte sua, e in ciascuno egli è riuscito ad affermare la propria personalità. Persino le parti secondarie e quelle interne hanno avuto da lui cure insolite; tanto che i suoi strumenti sono rimasti, in ogni particolare, modello insuperato. Solo il manico e la cosiddetta catena hanno dovuto essere modificati in seguito per rispondere alle esigenze della progredita tecnica violinistica e del corista più alto.
I varî elementi egli poi fuse in una linea squisitamente armoniosa, e l'incessante perfezionamento estetico equilibrò sempre, per istinto, con le leggi acustiche della liuteria. Sì che dai suoi strumenti, specie dai violini e dai violoncelli, scaturì una voce di bellezza incomparabile, che li rese preferiti da tutti i maggiori concertisti. Merito di molti coefficienti: dimensioni generali, spessori e convessità della tavola e del fondo, qualità del legno; ma soprattutto merito della vernice. Probabilmente la sua vernice non differiva, nella composizione, da quella usata dagli altri liutai del tempo: resine sciolte nell'olio e unite a sostanze coloranti. La particolarità consisteva nella maniera di dosare questi ingredienti, di manipolarli e di distenderli sullo strumento, in modo da ottenere una pasta leggiera e trasparente, dal colorito dolce e brillante. Il tempo poi vi ha steso una patina, che invano si cercherebbe in uno strumento appena costruito. Com'è naturale, la personalità dello S. si venne maturando a poco a poco. Ma sarebbe errato attribuire senza distinzione virtù speciali a tutte le opere di un dato periodo della sua attività.
Lo S. iniziava la costruzione di uno strumento fissandone i contorni esterni con appositi stampi di legno, di cui si sono trovati 19 esemplari. Per il fondo, le fasce, il riccio, la tastiera e il ponticello preferiva l'acero, tagliato secondo la fibra o a cuneo: acero indigeno, di scarso valore, nei primi e negli ultimi strumenti, acero proveniente dalla Dalmazia o dalla Croazia, di ottima qualità, negli strumenti migliori. Per il fondo dei violoncelli usava talvolta il pioppo o il tiglio. La tavola invece è invariabilmente d'abete, di due pezzi nei violini e nelle viole, di quattro in alcuni violoncelli. Le parti interne sono di salice. Con l'andar degli anni egli diminuì lo spessore della tavola e soprattutto del fondo, sempre assottigliandoli, però, più lungo i bordi che al centro (fanno eccezione alcune tavole di spessore identico in ogni punto). Anche la convessità varia molto da uno strumento all'altro: simile dapprima a quella adottata dall'Amati, aumenta considerevolmente in seguito, senza però mai eccedere, e torna ad appiattirsi negli ultimi strumenti. Riprendendo un'antica consuetudine lo S., abilissimo disegnatore, ornò il riccio, le fasce, la tastiera e la cordiera di alcuni preziosi strumenti, come quelli quintetti destinati a Cosimo de' Medici e a Filippo V, con intarsî di madreperla, o di avorio ed ebano o mastice nero.
Ai suoi strumenti anteriori al 1690 è stato dato l'appellativo di amatizzati, perché in essi l'influenza di Nicola Amati si manifesta sensibilissima, specie in quelli recanti la data 1666-69. Tipico di quest'epoca il violino Sellière. (I migliori suoi strumenti furono battezzati dai posteri con nomi proprî, spesso in omaggio a celebri strumentisti o collezionisti che ne furono temporaneamente possessori).
Nel decennio successivo, pur conservando il formato piccolo dell'Amati (lunghezza della cassa armonica: cm. 34,9-35,2) e il colore giallo della vernice, lo S. dà ai proprî violini un aspetto più robusto. Inoltre costruisce generalmente il fondo in un sol pezzo (mentre quelli dell'Amati sono in due) e sceglie l'acero fra il legname più costoso importato dall'altra sponda dell'Adriatico. A questo periodo appartiene l'Hellier (1679), che anche per le dimensioni (cm. 35,9) segna un progresso rispetto agli strumenti precedenti, e presenta la caratteristica di essere intarsiato.
Ma soltanto dopo la morte dell'Amati (1684) lo S., non più occupato ad aiutare il vecchio maestro, può dedicarsi esclusivamente alla costruzione dei proprî strumenti. La vernice assume un tono più caldo e la voce diventa più potente. Ormai padrone assoluto nel maneggio degli utensili, lo S. raggiunge già in questi anni straordinaria nettezza di lavorazione (lo Spagnolo del 1687). Alcuni strumenti del 1688 hanno i bordi del riccio dipinti in nero.
È però nel 1690 che si verifica un cambiamento decisivo nella produzione dello S. Esemplare perfetto di quest'anno è il Toscano, la cui bellezza è rimasta ineguagliata e la cui voce è a un tempo brillante e tenera. Subendo in parte l'influenza del Maggini, egli crea un tipo di violino di grandi dimensioni, lungo cm. 36,2. Eppure le proporzioni sono mirabilmente conservate, e alcuni di questi violini, dal suono pieno, grave - anche se meno pronto - sono paragonabili a molti di quelli che egli farà nel periodo settecentesco.
Nel 1698 lo S. riprende il formato dell'Amati, col fondo in due pezzi a venatura larga, e comincia a dare alla vernice una tinta arancio-sanguigno. L'anno successivo torna al tipo di violino allungato, ma nel 1700 vi rinuncia definitivamente. Ha inizio così quello che G. Hart ha definito "periodo d'oro" (1700-1725).
Il primo capolavoro in ordine di tempo è costituito dal Betts, del 1704, dagli angoli lunghi e slanciati, e con le esse arditamente tagliate.
Dopo quest'anno alcuni principî rimangono quasi immutati. Soltanto il formato acquista maggior compattezza. Si osservino il delizioso violino del 1708 custodito nel conservatorio di Parigi e il Viotti (1709), superbi sotto tutti gli aspetti e dal suono nobilissimo. Le esse vi sono più aperte, con i fori a forma di pera, il riccio è più robusto, la vernice è brillante come se fosse ancora allo stato liquido.
In questo periodo la lunghezza viene portata a 36 cm., pur senza abbandonare il formato di 35,5.
Dal 1710 al 1720 egli produce il maggior numero di violini, e molti di essi assurgono per le loro prerogative a speciale celebrità. Del 1710 è il Vieuxtemps; del 1711 il Parke, d'aspetto imponente, verniciato con pasta tenera, perfetta; del 1713 il Boissier, appartenuto a P. Sarasate, uno dei più belli secondo il Fétis; del 1714 il famoso Delfino; del 1715 i tre strumenti appartenuti a J. Joachim e l'Alard, che riunisce tutti i pregi desiderabili in un violino; del 1716 il portentoso Messia, di proprietà dei fratelli Hill, stupendamente conservato, e dal quale lo S. non si separò mai, il Cessol, che somiglia al Delfino, e il Medici, custodito nel museo del conservatorio di Firenze, fratello gemello del Messia per agilità di fattura; del 1717 il Sasserno, del 1718 il San Lorenzo, del 1719 il Lauterbach.
L'esame comparativo fra questi strumenti rivelerebbe nella conformazione del riccio, nell'altezza delle fasce, nello spessore dei bordi, nel disegno della filettatura, nell'intaglio delle esse, lievi differenze, che dànno a ciascuno d'essi un'inconfondibile individualità. Considerandoli nel complesso, si notano il fondo, quasi sempre in due pezzi, di acero stupendo, la vernice, di tinta variabile fra l'arancione e il bruno-rossastro, con riflessi d'ambra, e la voce di rara prontezza e intensità.
Dal 1720 al 1725 ancora non si avverte il peso dell'età del vecchio artefice, né s'intravede l'aiuto datogli probabilmente dai figli Francesco e Omobono e dall'allievo Carlo Bergonzi. Forse essi si limitavano a sbozzare il legno o a completare le parti accessorie. Se qualche particolare rivela minore precisione di lavorazione e il legno e la vernice sono meno belli che negli strumenti precedenti, in compenso il modello è magnifico e la voce di alcuni, pur essendo mordente e un poco metallica, è straordinaria. A questo periodo appartengono il Rode (1722), il migliore degli strumenti decorati, e che si scosta da questo tipo di voce, il violino usato da P. Sarasate (1724), dal suono scintillante e perlato, e quello usato da A. Wilhelmj (1725).
Dopo quest'anno il declino dovuto alla vecchiaia e l'aiuto dei figli e del Bergonzi diventano visibili. Però fino al 1730 lo S. riesce a produrre ancora un certo numero di strumenti di pregio eccezionale, e soltanto negli ultimi anni il bordo e gli angoli si appesantiscono, le esse non sono più tagliate con destrezza e alla medesima altezza, la filettatura è un poco incerta, e il riccio, non perfettamente simmetrico, si direbbe scelto fra quelli costruiti in gioventù e scartati in un primo tempo. Del 1731 sono i violini appartenuti a H. Heermann, a F. Habeneck, a E. Ysaye, e il Kreutzer. Uno degli ultimi strumenti è il Muntz, del 1736.
Lo S. costruì pure, sporadicamente, alcune viole; ma in esse non raggiunse sempre grande armonia fra le varie parti. Specie il riccio è di solito troppo grosso, privo di grazia. Forse gli nocque l'incertezza del formato. Dal modello del 1672 (lungo cm. 41,1) passò infatti a quello della gigantesca viola "tenore" conservata a Firenze (lunga ben 47,9), senza darci un esemplare nella misura ideale di centimetri 42, 5. Fra tutte le sue viole la migliore è considerata la Macdonald del 1701. Pure assai apprezzate sono quella intarsiata, l'Archinto (tutt'e due del 1696), e quella del 1731, posseduta da N. Paganini.
La loro voce è brillante, simile a quella dei violini costruiti dallo S. negli stessi anni, ma relativamente debole, specie sulle due corde più gravi, e priva del timbro cupo che distingue le viole di Gasparo da Salò, del Maggini e degli Amati.
L'abilità dello S. splende invece in tutta la sua grandezza nei violoncelli. Per essi si ripete la parabola già osservata per i violini. Per di più egli, basandosi sulle trasformazioni già operate dai suoi predecessori, e tenendo conto delle esigenze della letteratura che andava sorgendo, ha saputo modificare gradatamente il modello lungo 79,7 fino a giungere a quello di 75 centimetri, ch'è rimasto inalterato nei secoli. E ha superato tutti i liutai, anche i maggiori, per arditezza e nobiltà di concezione. Il suo più antico violoncello è del 1667. Dal 1680 al 1700 ne costruì circa trenta, tutti di grande formato. Purtroppo la maggior parte di essi venne in seguito ridotta a dimensioni minori, e non rimasero intatti che quello creato per Cosimo de' Medici (1690), l'Aylesford (1696) e quello già di proprietà del marchese de Piccolellis. Del 1700 sono il Cristiani, con vernice superba, e il violoncello conservato nella Cappella reale di Madrid, lungo 76,9. L'anno seguente ricompare, col Servais, il grande formato di cm. 79,1, largo nella parte inferiore cm. 47. Ma tutte le parti sono così bene proporzionate, da farlo sembrare snello. Il legno, come nei due strumenti precedenti, è stupendo. Probabilmente solo nel 1707 lo S. giunse al nuovo formato lungo cm. 75,9-75, e produsse una ventina di strumenti, dal suono squillante, magnifico anche sulle corde centrali. Nei più riusciti i bordi e la filettatura sono leggerissimi, e il riccio e le esse tagliate con grande sicurezza. Celeberrimi il Duport (1711), di lavorazione finissima; il Batta (1714), di aspetto virile; il Piatti (1720), perfettamente conservato, con vernice rossa scura, l'unico violoncello col manico originale; il Romberg, con fondo e fasce di pioppo e filettatura soltanto nera; il Davidoff con vernice di tono caldo, rosso arancio. Nello Chevillard del 1726 l'aiuto degli allievi è palese, e negli strumenti costruiti negli anni 1730-1731 la mano dello S. è ormai quasi completamente assente.
Si calcola che, con la rapidità che gli era propria, lo S. abbia costruito più di mille fra violini e viole e almeno 80 violoncelli, oltre ad archi, chitarre e strumenti di forma varia, tranne che contrabbassi. Molti violini e violoncelli andarono distrutti durante le vicende che turbarono l'Europa nei secoli XVIII e XIX, e molti furono irrimediabilmente deturpati. Attualmente si conoscono circa 540 violini, 12 viole e 50 violoncelli.
La fama dello S. cominciò a diffondersi presto, se già nel 1682 gli venne commissionato un quintetto completo (di cui s'ignora la fine) da offrire a Giacomo II, re d'Inghilterra. Il brevetto di fornitore rilasciatogli dall'arcivescovo di Benevento nel 1686, il munifico premio offertogli dal duca di Modena e le numerose ordinazioni chee gli provenivano da principi e personalità di ogni categoria, dimostrano in quale considerazione egli fosse tenuto fino da allora. La sua rinomanza in Italia e in Spagna superava ormai quella di N. Amati e dello Stainer. Quando poi, nel 1782, il Viotti fece conoscere i suoi violini a Parigi e successivamente a Londra, anche in Francia e in Inghilterra essi vennero molto ricercati. Così emigravano a poco a poco le più belle collezioni italiane. Attualmente in Italia non sono rimasti che pochi strumenti dello S., oltre il violino, la viola "tenore" e il violoncello custoditi nel conservatorio di Firenze.
Fra gli allievi che il Fétis e il Hart hanno attribuito allo S., alcuni, come il Guarneri "del Gesù" e il Montagnana, rivelano nelle proprie opere tali differenze di concezione e di lavorazione dal presunto maestro, che non si stenta a dimostrare la loro provenienza da altre scuole. Anche il Balestrieri non fu allievo dello S., ma di Pietro Guarneri, e Michelangelo Bergonzi del proprio padre Carlo. Quindi pochi artefici ebbero per maestro lo S.: sicuramente i suoi due figli e Carlo Bergonzi, che lavorarono sempre accanto a lui e gli succedettero nel laboratorio, e forse Alessandro Gagliano, Francesco Gobetti e Lorenzo Guadagnini.
Bibl.: Per le ricerche biografiche sullo S. sono di grande importanza: F. Fétis, A. S., Parigi 1856; P. Lombardini, Cenni sulla celebre scuola cremonese degli stromenti ad arco e sulla famiglia del sommo A. S., Cremona 1872; G. Hart, The violin, its famous makers and their imitators, Londra 1875; tr. franc., Parigi 1886; A. Mandelli, Nuove indagini su A. S., Milano 1903. Per l'analisi dei varî strumenti è opera preziosa quella di W. H. Hill, A. F. Hill, F. S. A. e A. E. Hill, A. S. sa vie et son øuvre, tradotta in francese da M. Reynold con la collaborazione di L. Cézard, Londra 1907. Altri scritti sullo S.: W. H. Hill, The Tuscan a short account of a violin by S. dated 1690, ivi 1889; A. Riechers, The violin and the art of its construction, Gottinga 1895; H. Petheric, A. S., Londra 1900; C. Schultzer, Stradivaris Geheimnis, Berlino 1901; A. Berenzi, Vox clamantis pro S., Cremona 1907. Lunghi capitoli sullo S. si trovano inoltre in tutte le opere di liuteria.