TARI, Antonio
TARI, Antonio. – Nacque il 4 luglio 1809 a Santa Maria Maggiore in provincia di Caserta (dal 1862 Santa Maria Capua Vetere), da Giuseppe, conservatore delle ipoteche per la provincia di Terra di Lavoro, e da Anna Cossa. La data di nascita, in precedenza indicata come 1° luglio, è stata corretta di recente insieme al nome di battesimo, Marcantonio, registrato negli atti anagrafici (L’estetica reale di Antonio Tari, 2002, pp. 75, 105-107): nei carteggi e nelle testimonianze di amici e contemporanei il nome fu citato spesso nelle forma dialettale del diminutivo, Totonno. Ebbe tre fratelli, Benedetto, Vincenzo e Achille, e una sorella, Teresita. La famiglia era originaria di Terelle (Frosinone), piccolo borgo compreso nel territorio storico dell’abbazia di Montecassino.
Non molto si sa della sua formazione prima dell’arrivo a Napoli attorno al 1830, città in cui la famiglia possedeva una casa. Ivi si laureò in giurisprudenza esercitando per qualche anno la professione forense, che abbandonò tuttavia per dedicarsi agli studi filosofico-letterari a lui più congeniali. Autodidatta, fornito di una straordinaria erudizione, studiò musica, sotto la guida di Carlo Conti (1796-1868), divenendo un abile esecutore, e apprese le principali lingue moderne e quelle classiche, insegnando tra l’altro i rudimenti del tedesco a Bertrando Spaventa che aveva conosciuto al collegio di Montecassino. A Napoli disertò i corsi del purista Basilio Puoti, indiscussa autorità sulla cultura napoletana del tempo, e frequentò invece le lezioni e la casa di Pasquale Galluppi, docente di logica e filosofia teoretica, tra i primi a introdurre in Italia il pensiero di Immanuel Kant. Le prime, numerose prove letterarie di Tari (schizzi biografici, note di storia e storia della religione, recensioni e qualche lavoro di carattere critico-estetico) furono ospitate in riviste e giornali minori tra il 1838 e il 1842. Collaborò più assiduamente alla prima serie della Rivista napolitana (chiusa dalla censura nel 1842), scrivendo l’introduzione al primo numero (1839). Il periodico, aperto a influssi provenienti dai Paesi europei (vi comparvero anche saggi di Victor Cousin ed Edgar Quinet), fu tra i principali organi letterari di un vasto movimento culturale che negli anni Quaranta coinvolse giovani intellettuali di orientamento liberale (i fratelli Spaventa, Francesco De Sanctis, Luigi Settembrini, Giambattista Ajello ecc.), con i quali Tari ebbe stretti rapporti di amicizia.
Disperso questo gruppo con il fallimento della rivoluzione del 1848 e la violenta repressione borbonica, scelse di ritirarsi nel paese d’origine, a Terelle, dove visse appartato per un decennio con la famiglia (si unì in matrimonio con Giovanna Grosso-Rinaldi, con la quale ebbe due figli: Carlotta e Giuseppe), approfondendo sistematicamente la conoscenza dell’idealismo tedesco, della letteratura estetica contemporanea e della matematica (entrando a tal proposito in commercio epistolare con Fortunato Padula, docente prima al Collegio della Nunziatella, quindi all’Università di Napoli).
Una svolta significativa nella vita e nell’attività di Tari coincise con l’unificazione italiana, che gli offrì l’occasione di partecipare alla vita pubblica, uscendo dal volontario, lungo ritiro a Terelle. Alle elezioni del primo parlamento del Regno d’Italia, nel gennaio-febbraio del 1861, fu eletto deputato nel collegio di San Germano (oggi Cassino) e si trasferì a Torino dal febbraio al luglio di quell’anno per partecipare ai lavori della Camera. Insieme a un gruppo di esponenti delle province meridionali, aderì alla politica cavouriana, non senza assumere posizioni indipendenti, soprattutto sulle questioni che riguardavano la complessa e incerta condizione dell’ex Regno delle Due Sicilie. Una personale, vivacissima cronaca di questa esperienza affidò a una serie di lettere familiari, dalle quali si desume anche l’atteggiamento critico da lui assunto in merito ad alcuni provvedimenti legislativi (come quelli fiscali e sulla leva obbligatoria), destinati a suo parere a ricadute negative sul fragile assetto sociale del Sud.
Durante il soggiorno in Piemonte pubblicò sulla Rivista contemporanea di Torino il suo primo saggio filosofico di rilievo, Dei rapporti del kantismo collo stato della filosofia in Alemagna, dove, anticipando alcuni tratti delle sue successive elaborazioni teoriche, fornì un panorama della filosofia tedesca da Kant a Georg Wilhelm Friedrich Hegel e a Ludwig Feuerbach (A. Tari, Saggi di critica, a cura di R. Cotugno, Trani 1886, pp. 581-609).
Alla chiusura estiva della Camera, l’iniziale entusiasmo per l’esperienza parlamentare, cui si era intensamente dedicato per sei mesi, andò attenuandosi con l’emergere di un sentimento di amarezza e di delusione per essersi «pasciuto crudelmente di vuote speranze» (Lettere familiari dal primo parlamento italiano (1861), in Nuova Antologia, 16 luglio 1938, pp. 159-184).
Il breve impegno politico, che per lui, a differenza che per molti suoi amici della generazione a cavallo dell’Unità, rimase un episodio circoscritto, si concluse con una rinuncia al seggio prima della riapertura del Parlamento, in quanto già dal luglio del 1861 De Sanctis, ministro della Pubblica Istruzione, prima nel governo Cavour, poi nel governo Ricasoli, gli anticipò l’intenzione di una sua nomina a docente dell’Università di Napoli. La nomina alla cattedra di estetica, ma solo come straordinario, avvenne nel mese di ottobre: De Sanctis aveva infatti qualche riserva sull’idoneità di Tari all’incarico, dal momento che fino ad allora non aveva mai insegnato, né pubblicato lavori significativi in quel settore di studi. Nell’estate seguente, Tari palesò la sua preoccupazione che la nomina non gli fosse confermata o che non gli venisse concesso l’ordinariato, cosa che in effetti avvenne solo dieci anni più tardi, nel 1873.
Nella prolusione al primo corso universitario delineò il programma di una «necessaria conciliazione», compito affidato alla riflessione italiana sull’estetica, tra il monismo di Hegel e il monadismo di Johann Friedrich Herbart, il cui antagonismo segnava l’esito del periodo classico dell’estetica tedesca iniziato da Alexander Gottlieb Baumgarten, Gotthold Lessing e Kant (Saggi di estetica e metafisica, a cura di B. Croce, Bari 1911, pp. 1-20).
Due anni dopo, dando corpo a queste anticipazioni, pubblicò la prima parte di un manuale, l’Estetica ideale (Napoli 1863), destinato a rimanere incompiuto (le parti II e III saranno edite sui manoscritti solo in tempi recenti). Dell’opera Tari fornì un compendio nel Corso di estetica (in La filosofia delle scuole italiane, 1881, vol. 23, pp. 227-229), mentre un’esposizione postuma, da lui stesso riveduta e ampliata, apparve nelle Lezioni di estetica generale (a cura di C. Scamaccia-Luvarà, Napoli 1884). Aspetti speciali del suo sistema Tari trattò in vari saggi (Del sistema delle arti, 1864, in Saggi di critica, cit., pp. 115-130; Dello stile, 1871, ibid., pp. 65-93) e in monografie su argomenti specifici, come: Dell’architettura gotica, 1869, pp. 147-176; La basilica vaticana, 1880, pp. 411-434, e così via.
Benedetto Croce definì Tari «il più genuino rappresentante italiano dell’Estetica metafisica alla tedesca» (Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale (1902), a cura di F. Audisio, Napoli 2014, p. 457), la corrente di studi ispirata all’idealismo assoluto di Hegel. La dialettica hegeliana fu ritenuta da Tari un «indubitato progresso filosofico» e la correzione delle rispettive unilateralità del metodo empirico e di quello aprioristico, dei quali costituiva la sintesi. A Hegel e alla sua scuola Tari obiettò tuttavia un eccesso di «inesorabile monismo», che conduceva, da un lato, a un astratto primato della logica sul «sentimento» e «sull’originalità della natura», dall’altro, a una ricostruzione storica «falsata». Andò quindi proponendo una «via intermedia» tra idealismo assoluto e realismo, privilegiando, rispetto alla categorie più generali dell’estetica, le parti che trattavano delle manifestazioni concrete del bello: il bello naturale («estetica esistenziale») e il bello artistico («estetica reale»), dove egli espose tra l’altro un sistema delle arti alternativo a quello di Hegel e assai vicino alle tesi di un suo epigono, Friedrich Theodor Vischer (Estetica ideale, cit., pp. 7, 17, 22, 67, 405; Lezioni di estetica generale, cit., p. 328; cfr. anche A. Tari, Estetica esistenziale, a cura di M. Leotta, Napoli 1987).
Le lezioni di Tari all’università furono affollatissime, mentre i suoi lavori a stampa ebbero scarsa diffusione e i loro estimatori si limitarono a una ristretta cerchia di amici e allievi, come Cesare Dalbono, Raffaele Cotugno e Vito Fiorentini. Dedicò anche vari saggi all’estetica musicale, da sempre al centro dei suoi interessi, contestando tra l’altro le teorie di Arthur Schopenhauer e di Richard Wagner (Vincenzo Bellini, 1876, in Saggi di critica, cit., pp. 535-547; Sull’essenza della musica secondo Schopenhauer ed i wagneriani, 1882, ibid., pp. 233-245; Avvenire ed avveniristi in musica, 1884, ibid., pp. 246-284; Beethoven e la sua Sinfonia pastorale, 1884, ibid., pp. 549-567). Tra il 1872 e gli ultimi anni, in una serie di scritti occasionali di carattere aforismatico, espose anche le sue convinzioni filosofiche generali, accentuando ulteriormente la distanza dal pensiero hegeliano già emersa in campo estetico.
In questi scritti manifestò una crescente sfiducia nei confronti dei sistemi metafisici, da Benedetto Spinoza a Hegel, e del positivismo evoluzionistico, che criticò come una mera applicazione di principi logici ai fatti dell’esperienza. Quest’ultima rimaneva comunque per lui l’unico terreno al quale si può estendere un conoscere consapevole dei suoi invalicabili limiti («limitismo» Tari chiamò appunto questo presupposto), e dal quale traspare un fondamento immanente ai fatti della natura e della storia, che non è l’«idea» come in Hegel, e che resta invece non solo ignoto e trascendente, come il noumeno kantiano, ma del tutto inesprimibile, ossia un «Innominabile» (Ente spirito e reale. Confessioni filosofiche, Napoli 1872; Lettere quattro a complemento delle confessioni, Napoli 1882, in Saggi di estetica e metafisica, cit., pp. 169-323; B. Croce, Aggiunta alle lettere del Tari, in La Critica, 1928, vol. 26, pp. 305-310, 1931, vol. 29, pp. 229-240, 1932, vol. 30, pp. 233-240).
La tesi dell’«Innominabile», con il suo esito scettico, non privo di un risvolto vitalistico, fu all’origine di un progressivo distacco di Tari dagli amici della cerchia hegeliana in cui si era formato: Bertrando Spaventa e Angelo Camillo De Meis, ad esempio, mostrarono sconcerto e sorpresa per l’evoluzione delle sue idee. Di questo suo isolamento egli stesso fu consapevole, sottolineando a più riprese, con autoironia, la sua vocazione minoritaria per una riflessione personale, autonoma dalle scuole, destinata a rimanere priva di effetti sulla cultura dell’epoca: «Che egli viva sempre schivo e appartato, in ritiro dal mondo, non costituisce solo un aspetto distintivo della psicologia dell’uomo, ma tocca insieme il centro nevralgico da cui dipende l’orientamento del suo filosofare» (Oldrini, 1986, 1990, p. 273).
Negli ultimi anni curò anche alcune traduzioni (L. Brothier, Storia popolare della filosofia, Napoli 1881; S. Zaborowski-Moindron, Origine del linguaggio, Napoli 1882; E. Noël, Voltaire e Rousseau, Napoli 1885).
Morì a Napoli il 15 marzo 1884.
Fonti e Bibl.: I manoscritti sono conservati nel Fondo Antonio Tari della Biblioteca nazionale Vittorio Emanuele III di Napoli (XV F 102-104; IV E 53. 2, 3, 5, 6).
C. Dalbono, A. T., in Scritti vari, Firenze 1891, pp. 282-308; G. Gentile, «Il trionfo dell’idea» in Italia. A. T. e Floriano Del Zio (1906), in Bertrando Spaventa, a cura di V.A. Bellezza, rivisto da H. Cavallera, Firenze 2001, pp. 561-575; B. Croce, Note sulla letteratura italiana nella seconda metà del secolo XIX (1907), rist. in La letteratura della nuova Italia, I, Bari 1973, pp. 378-384; Id., Lettere inedite di A. T. su argomenti filosofici e letterari, in La Critica, 1910, vol. 8, pp. 145-160, 233-238, 309-320; G. Gentile, La filosofia in Italia dopo il 1850, VI, Gli hegeliani, IV, La corruzione dello hegelismo (Pietro Ceretti e A. T.) (1913), rist. in Id., Le origini della filosofia contemporanea, III, 2, I neokantiani e gli hegeliani, Firenze 1957, pp. 27-36; M. Leotta, La filosofia di A. T., Napoli 1983; G. Oldrini, A. T. e la dissoluzione dell’hegelismo napoletano, in Giornale critico della filosofia italiana, 1986, n. 65, pp. 149-178 (rist. in Id., Napoli e i suoi filosofi. Protagonisti, prospettive, problemi del pensiero dell’Ottocento, Milano 1990, pp. 245-274); F. Solitario, A. T. nella “Critica” di Benedetto Croce. Contributo per un recupero, Milano 1998; L’estetica reale di A. T. Saggio interpretativo e prima edizione a stampa, a cura di F. Solitario, Milano 2002 (con una bibliografia degli scritti, lacunosa, pp. 79-85); F. Solitario, L’estetica di A. T. e la cultura filosofica meridionale del suo tempo, Milano 2007; Id., A. T. e la musica, Milano 2011.