TEBALDI (Tebaldeo), Antonio
TEBALDI (Tebaldeo), Antonio. – Nacque a Ferrara il 5 novembre 1462 (secondo Nadia Cannata Salamone, 1993a; 1463 secondo la cronologia tradizionale di Luca Gaurico). Il padre, Malatesta, era un ufficiale di curia (Jacopo Tebaldi, lettera ad Angelo Colocci, 4 aprile 1547; Vat. lat. 4104, cc. 85r-86v, in Bernardi, 2008, pp. 444 s.); da un epitaffio latino per la madre, Bartolomea, si apprende che Antonio ebbe due sorelle e due fratelli, tra cui Tebaldo, segretario di Alfonso I dal 1482 al 1502 (Rime, a cura di T. Basile - J.-J. Marchand, III, 2, 1992, n. 597; Cavicchi, 1908).
Nella stessa lettera a Colocci, Jacopo dichiarava la secolare fedeltà della casata Tebaldi agli Este e informava sulla formazione giovanile di Antonio alla scuola di Luca Ripa, grammatico ferrarese. Da giovane, Antonio visse soprattutto tra Ferrara e Mantova, ma anche a Bologna, presso Pirro Malvezzi e i Bentivoglio. Nel 1482 si recò per la prima volta a Roma, ma fu deluso dell’ambiente ostile che vi trovò (carme Ad Romam, in Pasquazi, 1966, p. 77); quando Sisto IV alla fine del 1482 inaugurò una politica antiveneziana, Antonio rivide le sue posizioni, tanto da celebrare il papa in due epitaffi. Probabilmente nel corso della guerra tra Ferrara e Venezia (1482-84), subì danni la sua villa ad Albareta, Ferrara (Rime, cit., III, 2, n. 594). Allo stesso 1482 si possono attribuire due epitaffi per Margherita di Baviera, moglie di Federico I Gonzaga, che segnano uno dei primi momenti di contatto con i marchesi di Mantova.
A Ferrara Antonio partecipò attivamente alla vita culturale pubblica della città. Il 16 luglio 1486 compose e declamò un contratto «in versi heroici» per il fidanzamento di Alfonso Calcagnini e una figlia di Paolo Antonio Trotti (Zambotti, 1937, p. 174). Il 22 ottobre lesse l’orazione poetica per l’inaugurazione dello Studio (Modena, Biblioteca Estense, Lat. 681: Basile, 1971, p. 191). Il 25 gennaio 1487 recitò nell’Anfitrione tradotto da Pandolfo Collenuccio (Rime, cit., III, 2, n. 477). Nello stesso anno compose un carme in onore di Mattia Corvino, in vista di una missione organizzata, ma che non ebbe luogo, per accompagnare Fernando d’Este alla corte del re. In questi anni il suo ruolo a corte si consolidò fino a diventare precettore di Isabella d’Este (Luzio - Renier, 1899-1903, 2005).
Tra il 1493 e il 1496 fu a Bologna presso Annibale Bentivoglio; era già in città il 26 luglio 1493 quando da lì scrisse a Galeazzo Ficino (Cannata Salamone, 1995, p. 100). Tra la fine del 1495 e gli inizi del 1496 si trasferì a Mantova, alla corte di Francesco II Gonzaga e di Isabella, anche per le insistenze del marchese, che a quanto pare si attribuiva la paternità di alcuni suoi versi; negli anni del soggiorno mantovano, Antonio lamentò più volte difficoltà finanziarie (Luzio - Renier, 1899-1903, 2005, p. 109). Nel 1498 accolse l’invito di Ippolito d’Este e ritornò a Ferrara, dove in seguito fu segretario di Lucrezia Borgia (1504-08). Nello stesso 1498 uscì la raccolta a stampa delle sue Rime (Domenico Rococciola, Modena), curata dal cugino Jacopo, ma mai smentita da Antonio.
La produzione volgare di Tebaldeo si inserisce nella politica culturale degli Este che a Ferrara favorivano la riscoperta del volgare accanto alla tradizione umanistica latina. La tradizione dell’intero corpus è ampia e varia: almeno 133 manoscritti, in parte autografi, e 96 stampe, anche in forma di opuscoli ‘popolari’. L’edizione del 1498 è una raccolta organica di 309 testi, costruita sulla base di sillogi d’autore precedenti, che contiene solo sonetti e capitoli in terza rima: elegie, epistole e disperate, uno dei generi in cui Antonio era riconosciuto maestro. Tra le rime extravaganti si segnalano anche una canzone (Rime, 544) e due sestine (Rime, 543, 570) contenute in due sillogi, una funebre (Rime, 520-546) e una per monacazione (Rime, 566-587), strambotti e ottave (Danzi, 1994). Degna di nota la proposta di Trovato (1993, pp. 417 s.), di ripristinare in apertura delle Rime del 1498 la sezione lugubre, aperta dall’attuale sonetto 294, spostata alla fine, pare, da Jacopo per motivi estetici. La raccolta nel suo assetto a stampa assimila tratti tipici dei canzonieri (apertura nel nome di amore, sequenze tematiche, testi di anniversario, conclusione religiosa), ma l’esile trama si disperde in una grande varietà di situazioni e testi di corrispondenza. Uno dei tratti più spiccati delle Rime è la vastità dei destinatari, che disegna un affresco della cerchia culturale e politica delle corti tra i due secoli. A partire dal 1520 circa Antonio sottopose le sue rime a una revisione linguistica e stilistica, testimoniata da una silloge per Isabella d’Este (autografo, Modena, Biblioteca Estense, It. 838), che ha permesso di parlare di una seconda fase nella sua scrittura in volgare, segnata dall’esigenza di controllo e classicità propria della Roma di Pietro Bembo (Castoldi, 1988).
Sul fronte latino, i carmina di Tebaldeo sono raccolti in alcuni manoscritti, in parte autografi: Cannata Salamone (1993b) indica i manoscritti di Modena, Est. lat. 681 (α.T.9.18), Città del Vaticano, Vat. lat. 3389 (databile al 1480-1495), e Vat. lat. 2835, raccolto da Colocci e fatto copiare in vista di un’edizione a stampa veneziana che sarebbe dovuta apparire a cura di Jacopo Tebaldi; a questi si aggiungono altri codici di Ferrara, Modena, Città del Vaticano. L’edizione postuma progettata da Bembo e Colocci (P. Bembo, Lettere, a cura di E. Travi, 1988-1993, IV, n. 1909; 4 gennaio 1538 a Girolamo Negri) però probabilmente non vide mai la luce (Bernardi, 2008, p. 75).
Tra le opere perdute si ricorda un’opera giovanile, Sigismondea, a cui Antonio accenna in un sonetto a Quercente, morto nel 1491: secondo Jean-Jacques Marchand era dedicata forse a Sigismondo d’Este (1480-1524; Rime, cit., III, 2, n. 488); dalle tavole di rime tebaldeane allestite da Colocci (edite in Bernardi, 2008) si intuisce però l’esistenza di una corona composta per una ‘Sigismonda’. Perduta è un’egloga drammatica, Dafne, composta per il carnevale ferrarese del 1508, recitata insieme a rappresentazioni di Ercole Pio e Antonio dall’Organo e alla Cassaria di Ludovico Ariosto (Bernardino Prosperi a Isabella d’Este, 6 febbraio e 8 marzo, in Bortoletti, 2008, pp. 271-274).
A Ferrara Antonio continuò a dedicarsi al teatro, come autore e come attore, aderendo alla politica culturale di Alfonso e di Lucrezia Borgia. Nel 1512 Alfonso lo raccomandò come «servitore» suo presso il doge di Venezia, per alcune controversie legate ai possedimenti di famiglia nella zona di Badia Polesine. Nel corso della sua residenza a Ferrara, Tebaldeo mantenne comunque i rapporti con Mantova, dove si recò più volte, per esempio tra la fine del 1499 e l’inizio del 1500, e con Verona: nel settembre del 1498 e del 1499 fu ospite di Jacopo Filippo Faella a Cazzano di Tramigna, dove già aveva soggiornato nell’estate del 1497 per rimettersi da un attacco di sifilide; era a Verona anche nel settembre del 1503 e nel maggio del 1504 (Rime, cit., I, 1989, p. 148; D’Arco, 1845, p. 299; Luzio - Renier, 1899-1903, 2005, pp. 112-114).
Nel 1513 Antonio lasciò Ferrara e si stabilì a Roma. Allo stesso anno risale la composizione di alcuni sonetti anonimi contro Mario Equicola e Isabella Lavagnola, dama di compagnia di Isabella d’Este. La marchesa, risentita, ruppe i rapporti con Tebaldeo e informò dell’accaduto parenti e amici, tra cui il fratello Ippolito, Lucrezia Borgia, Elisabetta Gonzaga, Bembo, Bernardo Bibbiena. I sonetti si inseriscono in una più ampia diatriba tra Antonio, a Bologna nei mesi dello scontro, ed Equicola, e sono un documento di quella vena polemica di Tebaldeo poco evidente nelle Rime, ma ben presente nella sua scrittura (Petteruti Pellegrino, 2010; cfr. anche P. Bembo, Lettere, cit., IV, n. 1909 secondo cui Antonio avrebbe ordinato che «i scritti suoi maledici si diano al fuoco, o che si mutino in loro i nomi»).
Nonostante l’ostracismo di Isabella, Tebaldeo riuscì a inserirsi nella società romana e ottenne l’appoggio di Leone X, che nell’agosto del 1513, scrivendo ai canonici di Verona, espresse la sua ammirazione per lui (Basile, 1971, p. 190) e lo raccomandò al legato di Avignone per sovrintendere i lavori per un ponte sulla Sorgue (5 agosto 1513; Coddè, 1845, pp. 20 s.); nel luglio del 1518 il papa gli donò 200 ducati, mentre in un’altra occasione lo ricompensò per un epigramma (Pasquazi, 1966, p. LXIX). I contatti di Antonio con i vertici della Chiesa sono confermati da una lettera del 19 gennaio 1522 a Marino Sanudo (1892, col. 412; Rossi, 1891, p. 141) in cui Tebaldeo viene presentato come accompagnatore in conclave del cardinale Ercole Rangoni, il cui segretario era l’amico Lilio Gregorio Giraldi.
Non molto numerose sono le notizie sulla carriera ecclesiastica di Antonio. Già il 9 aprile 1505 Tebaldeo aveva scritto da Ferrara a Francesco Gonzaga chiedendogli il primo beneficio che si fosse liberato, a Mantova, tra «l’archidiaconato, il provostato, e l’archipresbiterato», adducendo un non chiarito dissidio con Alfonso («questo Ducha m’ha in odio et non so perché»: Coddè, 1845, p. 17). Con una lettera non datata (ibid., pp. 18 s.), Aloisia Castiglione Gonzaga gli garantì il beneficio di Brentonico, vicino a Rovereto, al tempo diocesi di Verona, ma politicamente territorio del Tirolo e del principato vescovile di Trento (sui possedimenti di Brentonico cfr. Castiglione, 2016, n. 144). Il 12 giugno 1518 Leone X inviò a Massimiliano I un’epistola «pro Antonio Thebaldeo, clerico ferrarien. famil. nost. super adipiscenda possessione ecclesiae S. Mariae de Brentonico» (Basile, 1971, p. 190); nei registri veronesi del 1525-27 appare come rector della chiesa dei Ss. Pietro e Paolo. Al maggio del 1524 risale una lite che contrappose Antonio alla comunità di Brentonico (Archivio di Stato di Verona, Notai bruciati, b. 5, f. 1, Leone Leoni, in Brugnoli - Peretti, 2015). Probabilmente anche in seguito a questo scontro, nel maggio del 1530, Tebaldeo cedette il beneficio a Domizio Villafranca (cfr. gli atti visitali del vescovo Gian Matteo Giberti in Fasani, 1989, II, pp. 575 e 1103). Conservò tuttavia la titolarità dell’arcipretura: con un breve del 27 aprile 1537 a Bernardo Clesio, vescovo di Trento, Paolo III riconobbe i diritti di Tebaldeo sulla riscossione delle entrate (Trento, Biblioteca comunale, 2114 in Zanolini, 1909, p. 123). La presenza di Tebaldeo a Brentonico non è però direttamente attestata. Giberti, anzi, restò sfavorevolmente colpito dal malgoverno di Antonio, tanto da condannarlo in una lettera a Giovanni Morone del 7 marzo 1538 (Milano, Biblioteca Ambrosiana, O 230 sup., n. 51, in Prosperi, 1969, p. 201).
Al 7 agosto 1524 data una donatio causa mortis che Tebaldeo stese a Verona, quando era ospite di Giovanni Villafranca, padre di Domizio a cui cedette il beneficio (Archivio di Stato di Verona, UR T, 116/148, in Brugnoli - Peretti, 2015). Con il testamento, Antonio lasciava al cugino Tebaldo, o al nipote Gerolamo de Zuponariis in caso di premorte di Tebaldo, i suoi libri e a Domizio i beni mobili che aveva con sé, con la clausola che alla sua morte il ritratto che del poeta aveva eseguito Raffaello Sanzio sarebbe dovuto passare alla città di Verona. Dalle lettere di Bembo sappiamo che uno degli eredi di Antonio era «Pietro, già servitore e ora erede del nostro buon M. Antonio Tebaldeo» (a Colocci, 9 marzo 1539, Lettere, cit., IV, n. 2019), di incerta identità: potrebbe essere Pietro Pais, che lavorò all’edizione dei suoi carmi latini (su Pais: Cannata Salamone, 1993b, pp. 60 s.).
Al momento del Sacco, Tebaldeo era a Roma, a Castel Sant’Angelo, con la corte di papa Clemente VII (lettera di Sebastiano del Piombo a Pietro Aretino: Chastel, 1983, p. 166, n. 70). Il giorno della capitolazione di Roma (5 giugno 1527) era a palazzo Colonna, sede relativamente sicura perché dimora di Isabella d’Este Gonzaga, madre di Ferrante Gonzaga, capitano imperiale, e perché Pompeo Colonna era in buoni rapporti con gli imperiali (Bernardi, 2017, pp. 58-62). Il Sacco segnò profondamente Antonio, anche economicamente: in agosto Bembo si preoccupò di fargli arrivare un prestito di 30 fiorini (Lettere, cit., II, nn. 803 s.).
Nel clima del Sacco, Tebaldeo espresse l’intenzione di andare in Francia (carme Itala terra vale, belli diuturni iniqui, in Cannata Salamone, 1993b), seguendo l’esempio di Giacomo Sadoleto, che Tebaldeo aveva frequentato prima del Sacco e che si era stabilito a Carpentras. Il 4 gennaio 1528 Bembo gli scrisse per convincerlo a non partire, offrendosi di ospitarlo a Padova o di trovargli alloggio a Venezia (Lettere, cit., II, n. 844). Venuta meno l’emergenza e rientrata la corte a Roma, e con la corte gli amici come Colocci, Tebaldeo rinunciò ai propositi di espatrio, ma non all’idea di lasciare Roma: il 5 maggio 1528 Giammaria della Porta scrisse a Elisabetta Gonzaga a Urbino chiedendole di accogliere Antonio alla sua corte per l’estate (Rossi, 1891, p. 111). Tebaldeo era però a Roma nel maggio-giugno del 1529 (P. Bembo, Lettere, cit., II, nn. 960 e 990, in cui lamenta che l’amico non vuole andare a Venezia o a Padova), nel novembre del 1530 (ibid., II, n. 1174) e nel 1533, quando Marcello Cervini lo ricorda in una lettera (20 settembre, Vat. lat. 4104, c. 17r, in Bernardi, 2017, p. 54). Secondo Paolo Giovio (Elogia, Michele Tramezzino, Venezia 1546, c. 59v, 2006, p. 277), al momento dell’ingresso di Carlo V a Roma (5 aprile 1536), Tebaldeo ribadì l’ostilità nei confronti dell’imperatore tenendo chiuse le finestre della sua casa in via Lata. I sentimenti anti-imperiali di Tebaldeo sono confermati da una lettera di Gerolamo Negro: «è fatto gran Francese, inimico de l’Imperatore, implacabile» (17 gennaio 1535; Delle lettere di principi, III, Francesco Ziletti, Venezia 1577, p. 150v).
Negli ultimi anni di vita la salute era compromessa. Nel 1525 Negro scriveva a Marcantonio Micheli di un suo mal «della pietra» (6 dicembre 1525; ibid., p. 150r); nel 1530 Bembo parlava della sua «chiragra» (12 novembre 1530).
Il 2 novembre 1537 Tebaldeo morì a Roma e fu sepolto nella basilica di S. Maria in via Lata.
La rete di amicizie e rapporti stretti da Antonio negli anni fu molto vasta, come testimoniano le rime, i carmi latini e la corrispondenza, di cui però manca un censimento. Tra i nomi con cui entrò in dialogo si ricordano Lilio Gregorio Giraldi (con cui aveva condiviso la scuola di Ripa; cfr. Dialogi duo de poetis nostrorum temporum, [Torrentino], Firenze 1551, pp. 113-124); Quercente; Giovanni Muzzarelli; Laura Brenzoni Schioppo; Baldassarre Castiglione, che lo nominò nella seconda redazione del Cortegiano e nelle lettere; Vincenzo Colli, che Antonio presentò a Isabella d’Este nel 1495, e Bembo, che presentò alla marchesa con una lettera del 20 giugno 1505 (Bertoni, 1907, p. 260). Negli anni romani Tebaldeo strinse amicizia con Colocci (Bernardi, 2017); sappiamo che Bembo si rifiutò di mandare a Tebaldeo le vite provenzali di Bartolomeo Giorgio, certo «che non per voi le vogliate, ma per alcuno altro che richieste ve le ha» (dove nell’‘altro’ sembra lecito individuare Colocci; Lettere, cit., III, n. 1174). In una lettera di Bembo a Bibbiena (19 aprile 1516; Lettere, cit., II, n. 371) è anche la notizia del ritratto di Antonio eseguito da Raffaello, perduto ma sopravvissuto in copie; discussa tra Bembo e Tebaldeo è l’attribuzione dell’epitaffio per la tomba di Raffaello al Pantheon.
Le testimonianze sulla sua poesia ne sottolineano spesso la natura orale: «gli epigrammi e sonetti [...] de’ quali egli nessun testimonio ha lasciato non gli avendo mai scritti [...] gli amici suoi [...] gli debbono da lui avere uditi» (P. Bembo, Lettere, cit., IV, n. 1909, a Girolamo Negro, 4 gennaio 1538) e la diffusione in forma cantata: «edita vel surrepta eius carmina a viris pariter et foeminis ad citharam cantarentur» (P. Giovio, Elogia, cit., c. 59, 2006, p. 277; e in termini satirici Equicola, Apage, sultis, vos, inauspicatissimos, in Petteruti Pellegrino, 2010, pp. 197 s.). Il giudizio sulla poesia di Tebaldeo è stato spesso riduttivo, fino da Vincenzo Colli, detto il Calmeta (1959, pp. 15-19); dai contemporanei fu però particolarmente apprezzato come revisore: Antonio lavorò per esempio sul De partu virginis di Iacopo Sannazaro e su carmi di Bembo (Lettere, cit., I, n. 168, 28 agosto 1503: «Elegos ad Borgiam meos, quibus in locis Thebaldeo non probabantur, immutato tibi remitto»). La precoce menzione nelle Selvette di Niccolò Liburnio (1513; su cui Basile, 1971, p. 202) e la presenza di Antonio come interlocutore esponente della teoria cortigiana da una posizione antifiorentina nel Dialogo della volgar lingua di Pierio Valeriano (1530) confermano la sua presenza di primo piano nell’ambiente letterario di inizio Cinquecento e il ruolo di mediazione che svolse tra la poesia ‘cortigiana’ e le esperienze del petrarchismo maturo di Sannazaro e Bembo (Dionisotti, 1996).
Opere. Rime, a cura di T. Basile - J.-J. Marchand, I-III, Modena 1989-1992.
Fonti e Bibl.: L. Coddè, Notizie biografiche di A. T., Rovigo 1845; C. D’Arco, Notizie di Isabella Estense moglie a Francesco Gonzaga, in Archivio storico italiano, Appendice II, 1845, pp. 203-223; V. Rossi, Pasquinate di Pietro Aretino, Palermo-Torino 1891; M. Sanuto, I diarii, XXXII, Venezia 1892; A Luzio - R. Renier, La coltura e le relazioni letterarie di Isabella d’Este Gonzaga, 1899-1903, a cura di S. Albonico, Milano 2005; G. Bertoni, Pietro Bembo e Isabella d’Este Gonzaga, in Giornale storico della letteratura italiana, L (1907), p. 260; F. Cavicchi, Intorno al T., in Giornale storico della letteratura italiana, 1908, suppl. 8, pp. 106-138; V. Zanolini, Un breve di Paolo III a favore del T., in San Marco, I (1909), pp. 121-123; B. Zambotti, Diario ferrarese, a cura di G. Pardi, in RIS, XXIV, 7, Bologna 1937; V. Calmeta, Prose e lettere edite e inedite, a cura di C. Grayson, Bologna 1959; S. Pasquazi, Poeti estensi del Rinascimento, Firenze 1966; A. Prosperi, Tra evangelismo e controriforma. G.M. Giberti (1495-1543), Roma 1969; T. Basile, A. T. nel giudizio dei contemporanei, in Umanità e storia. Scritti in onore di Adelchi Attisani, II, [Napoli] 1971, pp. 187-220; A. Chastel, Il Sacco di Roma. 1527, Torino 1983; P. Bembo, Lettere, a cura di E. Travi, Bologna 1987-1993; M. Castoldi, Appunti sul secondo T.: 1520-1521, in ACME, XLI (1988), pp. 41-62; A. Fasani, Riforma pretridentina della diocesi di Verona, I-III, Vicenza 1989; N. Cannata Salamone, Nuovi elementi per la biografia di A. T., in The Italianist, XIII (1993a), 2, pp. 47-56; Id., Per l’edizione del T. latino. Il progetto Colocci-Bembo, in Studi e problemi di critica testuale, XLVII (1993b), pp. 49-76; P. Trovato, La lirica del Quattrocento, in Manuale di letteratura italiana, a cura di F. Brioschi - C. Di Girolamo, I, Torino 1993, pp. 409-437; M. Danzi, Sulla poesia di A.T. (con un’appendice metrica e lessicale), in Giornale storico della letteratura italiana, CLXXI (1994), pp. 258-282; N. Cannata Salamone, Per una storia delle Rime del T. Alcune recenti indagini critiche, in Roma nel Rinascimento, 1995, pp. 79-100; C. Dionisotti, Appunti sul T., in Per Cesare Bozzetti, a cura di S. Albonico et al., Milano 1996, pp. 175-184; P. Giovio, Elogi degli uomini illustri, a cura di F. Minonzio et al., Torino 2006; M. Bernardi, Lo zibaldone colocciano, Vat. lat. 4831. Edizione e commento, Città del Vaticano 2008; F. Bortoletti, Egloga e spettacolo nel primo Rinascimento. Da Firenze alle corti, Roma 2008; P. Petteruti Pellegrino, Baruffe e Parodie. Equicola, T. e un polimetro inedito, in Metafore di un pontificato. Giulio II (1503-1513), Atti del Convegno..., 2008, a cura di F. Cantatore et al., Roma 2010, pp. 181-250; P. Brugnoli - G. Peretti, Il ritratto di T. dipinto da Raffaello in dono alla città di Verona, in Studi storici Luigi Simeoni, LXV (2015), pp. 143-148; B. Castiglione, Lettere familiari e diplomatiche, a cura di G. La Rocca, Torino 2016; M. Bernardi, Colocci e T. di fronte al Sacco di Roma (1527): le liste f e g e un nuovo documento epistolare, in Miscellanea Bibliothecae Apostolicae Vaticanae, XXIII (2017), pp. 35-117.