VALENTE, Antonio
Ignoti gli estremi biografici e gran parte delle vicende riguardanti il compositore, attivo a Napoli.
La sua fama è legata a due raccolte a stampa per strumenti a tastiera: l’Intavolatura de cimbalo contenente le Recercate, fantasie et canzoni francese desminuite, con alcuni tenori, balli et varie sorte de contraponti. Libro primo (Napoli, Giuseppe Cacchio dall’Aquila, 1576; unicum a Napoli, Biblioteca nazionale; edd. mod. a cura di J.A. Burns, Cambridge, Ma., 1953; di C. Jabobs, Oxford 1973, parziale; di B. Thomas, London 1981) e i Versi spirituali sopra tutte le note, con diversi Canoni spartiti per sonar negli organi, messe, vespere, et altri officii divini … Libro secondo (Napoli, eredi di Mattia Cancer, 1580; edd. mod. a cura di I. Fuser, Padova 1958; di M. Machella, Padova 2017).
Entrambi i frontespizi dichiarano la cecità del musicista: più precisamente, nell’avvertimento ai lettori anteposto all’Intavolatura, il domenicano Alberto Mazza scrive che Valente era «Cieco da i soi teneri anni della pueritia». Scipione Cerreto nel 1601 elenca il nome del maestro tra i «Sonatori eccellenti d’organo, che oggi non vivono», nel contempo dichiarandolo «per antichità napoletano», definizione con cui l’autore indica i musicisti nati fuori dai confini della città e naturalizzati napoletani. Non hanno trovato finora riscontro documentario le ipotesi circa una possibile origine vuoi laziale vuoi pugliese (Burns, 1959, p. 134), formulate in base a una certa qual influenza dello stile di Diego Ortiz – musicista toledano presumibilmente attivo a Roma a metà Cinquecento e certamente a Napoli nel sesto e settimo decennio – riscontrabile nell’Intavolatura, e alle presunte assonanze tematiche con alcune composizioni dei baresi Stefano Felis e Giovanni Giacomo de Antiquis. Indizi più importanti offre Valente stesso nella dedicatoria dei Versi: l’encomio rivolto alla «sig. Donna Elionora Palmiera», della nobile famiglia Palmieri – lo stemma compare nel frontespizio dell’edizione –, e il sonetto in lode dell’autore a firma del poeta partenopeo Angelo Di Costanzo descrivono la nobildonna come l’eccellente musicista che avrebbe istruito Valente nell’arte. Il fatto che un libro di versetti organistici – ossia di brevi brani che nella liturgia preconciliare venivano eseguiti (o improvvisati) dagli organisti in alternanza al canto ecclesiastico durante le sacre funzioni – sia dedicato a una donna che viene additata come insegnante di un organista cieco ha portato a ipotizzare che Eleonora Palmieri fosse una monaca e che Valente fosse stato istradato alla musica in un convento o in un conservatorio di orfani (Stras, 2017). Ma non c’è motivo di escludere che la nobile fosse laica e sposata, come risulterebbe dallo stemma partito sul frontespizio, che a quello dei Palmieri affianca quello dei Barrile (Barile).
Il 29 novembre 1569 Valente restituì a Giovanni Antonio Stefanello, costruttore di clavicembali, clavicordi e organi, gli strumenti che aveva preso da lui a noleggio. I rapporti con il cembalaro dovettero perdurare: il 21 febbraio 1579 Stefanello vendette infatti un «zimbalo de 50 tasti» al musicista (Nocerino, 1998; Id., 2003).
Dalle parole di Mazza si inferisce l’attività didattica svolta da Valente. Il frontespizio del 1576 lo dichiara inoltre organista in S. Angelo a Nilo (detta cappella Brancaccio), sempre a Napoli. Ricerche nei registri della chiesa (oggi conservati nell’archivio di S. Lorenzo Maggiore) hanno rivelato che Valente venne impiegato dal novembre 1565 al maggio 1580, con aumenti di salario registrati nel 1566, 1569 e 1577: nell’ultimo periodo riceveva una paga all’incirca doppia rispetto a quella iniziale (Burns, 1953, I, pp. 4 s.; Id., 1959, p. 134). Non è noto il perché dell’interruzione del rapporto lavorativo.
Recenti indagini nei documenti della parrocchia di S. Maria a Cancello (nella cui circoscrizione abitavano diversi musicisti di rilievo) hanno permesso di riscontrare il nome di un Antoniello Valente che tra il febbraio 1576 e il marzo 1596 fece battezzare ben sette figli avuti dalla consorte Laura Palomba (Palumbo). Il fatto che questo stesso Antoniello sia stato testimone di nozze di una Lucrezia Barrile insinuerebbe una possibile identificazione con il cieco organista, stanti i summenzionati rapporti con Eleonora Palmieri Barrile (cfr. D’Alessandro, 2019, Appendice documentaria).
Morì in data imprecisata, non oltre il 1601 (Cerreto, 1601).
I due libri di Valente rappresentano un momento fondamentale dello sviluppo dell’arte tastieristica italiana: insieme alla contemporanea opera di Rocco Rodio (Libro di ricercate a quattro voci, Napoli, Giuseppe Cacchio dall’Aquila, 1575) tramandano infatti le più antiche testimonianze di quell’insigne scuola cembalo-organistica partenopea che di lì a poco avrebbe offerto ulteriori frutti ricchi di artificio. La chiara, e per l’epoca rara, specificazione della distinta destinazione strumentale dei due volumi si rispecchia nel contenuto.
L’Intavolatura, che palesa un dichiarato intento didattico, è specificatamente dedicata al solo «cimbalo». Il termine, generico, si riferiva allora a tutti gli strumenti da tasto a corde, comprendendo dunque sia quelli a pizzico, come il clavicembalo, l’arpicordo e la spinetta, sia quello a percussione, il clavicordo (denominato anche ‘manacordio’ ovvero ‘manocordio, monacordio, monicordio’). Proprio un clavicordo, strumento ben documentato nella Napoli dell’epoca, viene raffigurato nelle note introduttive che illustrano il peculiare sistema numerico utilizzato da Valente e dal suo editore per presentare la musica. Tale procedimento notazionale appare influenzato dai sistemi di scrittura in voga in Spagna, come quello proposto da Juan Bermudo nel Libro llamado Declaración de instrumentos musicales (Osuna, Juan de León,1555), da cui però si discosta sia perché la sequenza numerica impiegata da Valente (da 1 a 27) si riferisce unicamente ai tasti, numerati, delle note diatoniche (i tasti cromatici vengono indicati con una x che, collocata sopra al numero della nota diatonica corrispondente, prescrive l’impiego del tasto cromatico immediatamente seguente), sia per la specificazione della distribuzione del materiale fra le due mani: una caratteristica, questa, comune alle intavolature da tasto praticate nella pianura padana e a Venezia.
Questa notazione non ebbe seguito e rimase perciò un unicum in tutta la produzione italiana. Le Ricercate di Rodio edite dal medesimo tipografo nel 1575, lo stesso anno in cui l’Intavolatura di Valente ottenne l’imprimatur, costituiscono infatti il primo esempio a stampa oggi noto di una partitura per tastiera, in cui ogni voce dell’ordito polifonico dispone di un autonomo pentagramma, secondo un sistema già utilizzato in Emilia dai primi decenni del Cinquecento e ancora in auge in Italia e in Germania nel Settecento (sulla scia di Girolamo Frescobaldi, Johann Jacob Froberger e Dietrich Buxtehude, Johann Sebastian Bach lo impiegò ancora nelle edizioni della Kunst der Fuge, del Musikalisches Opfer e delle Canonische Veränderungen): da subito tale disposizione venne privilegiata dai compositori per tastiera del Regno di Napoli per un secolo buono.
L’unicità della notazione di Valente si sposa con il materiale presentato nella collezione che, rivolgendosi esclusivamente al «cimbalo», esalta le peculiarità di una scrittura spesso improntata ai modelli diffusi tra i maestri coevi del liuto. Valente punta a offrire il più ampio spettro dei generi strumentali in voga: ricercari (di ambo i tipi in circolazione, vuoi floridi alla stregua di improvvisazioni estemporanee, vuoi più severamente contrappuntistici); elaborazioni di canti fermi liturgici (il che non deve stupire in una raccolta cembalistica, secondo una prassi già invalsa in ambito liutistico, e destinata a perdurare nei decenni a seguire); intavolature diminuite, ossia abbondantemente fiorite, di chansons vocali alla moda; variazioni su tenores di danza, ossia bassi ostinati; e veri e propri balli. La Fantasia d’apertura presenta dapprima il tipico, agile stile delle improvvisazioni preludianti, indi una sezione più contrappuntistica, seppure esente da grandi artifici imitativi. Le sei «recercate» (tutte pluritematiche tranne la seconda) rivelano la loro destinazione cameristica nell’incessante ricorso a diminuzioni e trilli (o ‘tremoli’) che permettevano all’esecutore di sfoggiare l’auspicata ‘leggiadria di mano’, nonché – cifra essenziale per gli strumenti a corde, in cui il suono si estingue in breve – di non ‘lasciar vuoto lo strumento’, magari a scapito della severità della scrittura imitativa e della trama polifonica, certamente non paragonabile agli ingegnosi brani di Rodio. Come in Rodio, si riscontra l’abbondante ricorso all’utilizzo, vuoi sincrono vuoi in immediata successione, dei tre esacordi originali e di quelli trasposti per musicam fictam: un procedimento che genera insolite inflessioni cromatiche, tipiche dei successivi prodotti cembalo-organistici meridionali. Il Salve regina elabora il canto fermo ecclesiastico, contrappuntandolo in uno stile più prossimo ai modelli vocali. I quattro brani successivi intavolano tre canzoni francesi (Pis ne me peut venir da Thomas Crecquillon, Qui la dira da Adrian Willaert e Sortez me pleurs da Filippo di Monte, quest’ultima in due versioni) arricchite di virtuosistiche diminuzioni, dove le difficoltà tecniche sono distribuite tra le due mani dell’esecutore a blocchi alternati. Le sei Partite – serie di variazioni, tra sei e dodici cadauna – si basano perlopiù su tenores già utilizzati da Diego Ortiz nel Tratado de glosas sobre cláusulas y otros géneros de puntos en la música de violones (Roma, Valerio e Luigi Dorico, 1553) – il Passamezzo antico, quello moderno, utilizzato anche nel Ballo dell’Intorcia, e la Romanesca –, sulla cosiddetta Bassa Fiamenga (Almande Bruynsmedelijn), mentre il «Tenore grande alla Napolitana» si fonda su un curioso accorpamento tra i bassi di Passamezzo moderno, Ruggiero e Romanesca. In questi brani le miriadi di ‘tirate’ e ‘passaggi’ (fioriture di notine), quasi sempre affidate alla mano destra, vengono sostenute da rudimentali accordi a mo’ di chitarra posti nella tessitura grave. Le tre rimanenti composizioni dell’Intavolatura sono balli, brevi salvo la Gagliarda napolitana che presenta ben trentasei variazioni. Nell’insieme, le musiche contenute in questo libro presentano un accentuato affrancamento dallo stile vocale e uno spiccato senso di sorgiva, elementare spontaneità, sorretto da un impulso ritmico irrefrenabile: quasi si trattasse di virtuosistici stilemi improvvisativi fissati su carta ex post.
La seconda raccolta, destinata all’organo, presenta 43 versetti organistici destinati al servizio divino. Il formato editoriale prescelto – quello della partitura con un rigo per ciascuna delle quattro voci, si addice alla saldezza della scrittura contrappuntistica. L’opera sfoggia diverse novità: i versi, di una lunghezza variabile tra le dieci e le venti caselle (ossia battute di due semibrevi), non seguono l’ordinamento allora consueto degli otto (ovvero dodici) toni ecclesiastici ma sono disposti, a gruppi di sei, secondo le sette finales ascendenti da ut fino all’odierno si bemolle (secondo la pratica della solmisazione denominato fa di be fa be mi). Eccezionale il tono d’impianto del quarantatreesimo verso, l’unico basato sul mi bemolle (b molle di e la mi, inteso come doppia trasposizione alla quarta superiore del tono di fa. La rinunzia alla consueta sequenza dei modi distribuiti in due serie alternate tra autentici e plagali precede di un secolo e mezzo il sistema dei modi comuni esposto da Johann Joseph Fux nel Gradus ad Parnassum (1725). Il libro del 1580 è inoltre il primo conosciuto nel genere del versetto organistico che elabori materiale del tutto autonomo rispetto al canto fermo ecclesiastico (solo Claudio Merulo aveva sporadicamente composto versi svincolati dal gregoriano nelle sue messe d’organo). Non di rado i brani utilizzano due soggetti esposti dapprima a due voci, come fosse un bicinium, poi ripresi dalle restanti parti della polifonia. L’ultimo versetto di ciascun gruppo di sei impiega la tecnica del canone (applicata a una coppia di voci). Nella scrittura di questi brevi brani, il cui carattere oscilla tra lo stile severo del ricercare, quello leggiadro della canzona e quello intermedio del cosiddetto ‘ricercare arioso’, Valente fa intenso ricorso all’arte della diminuzione, sia pure in modi ed entro limiti più equilibrati e più omogeneamente distribuiti tra le diverse voci rispetto al libro del 1576 (certamente in ossequio alle risorse foniche e agli stilemi tipici dello strumento liturgico).
La selezione di madrigali, mottetti e «fantasie bellissime», annunciata da Mazza (assieme ai versi d’organo) nella prefazione all’Intavolatura de cimbalo, non vide forse mai la luce (solo qualche testimonianza ottocentesca, di dubbia attendibilità, allude a «madrigali» di Valente; Quaranta, 1834; Villarosa, 1840).
S. Cerreto, Della prattica musica vocale, et strumentale, Napoli 1601, p. 159. B. Quaranta, Della musica nelle Due Sicilie, in Annali civili del Regno delle due Sicilie, IV (1834), p. 100; C. de Rosa marchese di Villarosa, Memorie dei compositori di musica del Regno di Napoli, Napoli 1840, p. VI; N. Caravaglios, Una nuova “Intavolatura de Cimbalo” di A. V. cieco, in Rivista musicale italiana, XXIII (1916), pp. 491-508; C. Sartori, Bibliografia della musica strumentale italiana stampata in Italia fino al 1700, I, Firenze 1952, pp. 36 s.; II, Firenze 1968, pp. 19 s.; J.A. Burns, Neapolitan keyboard music from V. to Frescobaldi, Cambridge, Mass., 1953; Id., A. V., Neapolitan keyboard primitive, in Journal of the American musicological society, XII (1959), pp. 133-143; M.S. Kastner, Il soggiorno italiano di Antonio e Juan de Cabezón, in L’Organo, I (1960), pp. 61, 66; J.A. Burns, L’impiego della partitura e L’Arte della fuga di J. S. Bach, in L’Organo, II (1961), p. 164; L.F. Tagliavini, Riflessioni sull’arte tastieristica napoletana del Cinque e Seicento, in Musica e cultura a Napoli dal XV al XIX secolo, a cura di L. Bianconi - R. Bossa, Firenze, 1983, p. 141; W. Apel, Storia della musica per organo e altri strumenti da tasto fino al 1700, Firenze 1985, ad ind.; B. Brauchli, The clavichord, Cambridge 1998, pp. 58 s., 72, 286, 307, 309 s.; F. Nocerino, Arte cembalaria a Napoli. Documenti e notizie su costruttori e strumenti napoletani, in Ricerche sul ’600 napoletano. Saggi e documenti 1996-1997, Napoli 1998, p. 92; R. Jackson, V., A., in Grove music online, 2001, https://doi.org/10.1093/gmo/9781561592630.article.28910 (31 luglio 2020); F. Nocerino, Cembalari a Napoli nel Cinquecento. Nuove fonti e inediti documenti, in Recercare, XV (2003), pp. 184 s.; M.S. Tonda, Nuove osservazioni sull’“Intavolatura de cimbalo” del 1576 di A. V., in Informazione organistica, XVII (2005), n. 1-2, pp. 3-21; D. Cannizzaro, Legami tra Spagna e Italia meridionale, in Revista de musicología, XXXIV (2011), pp. 192-199; F. Nocerino, The ‘Regole di Marancio’: new documents on the clavichord in Naples, in De clavicordio X. Proceedings of the X international clavichord symposium, a cura di B. Brauchli - A. Galazzo - J. Wardman, Magnano 2012, pp. 183-185; P. Niedermüller, V., A., in MGG Online, 2016, https://www.mgg-online.com/mgg/stable/23016 (31 luglio 2020); L. Stras, The performance of polyphony in early 16th-century Italian convents, in Early music, XLV (2017), pp. 196 s.; D.A. D’Alessandro, Mecenati e mecenatismo nella vita musicale napoletana del Seicento e condizione sociale del musicista, in Storia della musica e dello spettacolo a Napoli. Il Seicento, a cura di F. Cotticelli - P. Maione, Napoli 2019, pp. 128, 318, Appendice documentaria in CD-Rom, doc. 803.