CAMPONESCHI, Antonuccio
Figlio di Lalle (II), fu espulso con la sua famiglia dall'Aquila nel luglio del 1391. Il 20 sett. 1393 rientrò in città, seguito poco tempo dopo dal fratello Giampaolo, conte di Montorio. Nel 1403 fu viceré d'Abruzzo durante l'assenza dal Regno di Ladislao che si era recato in Ungheria; e nel 1408 sembra che seguisse a Roma il sovrano napoletano. Nel 1409 entrò a Fermo con il rettore pontificio della Marca d'Ancona e con Galeazzo Malatesta: il che è indice di una divergenza politica tra il C. e Ladislao. Nel corso del medesimo anno combatté nell'Italia settentrionale agli ordini di Giovanni Malvicino in favore dei Terzi e fu ferito in combattimento presso Guardasone.
La morte di Ladislao consentì al C. di ritornare all'Aquila (9 nov. 144) insieme con la fazione familiare. Il governo dei Camponeschi all'Aquila fu contrastato in un primo momento da Obizzo da Carrara e poi dagli eserciti di Muzio Attendolo Sforza e di Iacopo Caldora. Il 13 febbr. 1415 i Camponeschi ripresero il sopravvento in città e il C. vi rientrò il 23 maggio da Cittareale "con granne onore e triunfo". La cittadella restava, però, nelle mani delle truppe regie. Il C. concluse un accordo con i rappresentanti di Giovanna II cui seguì un altro patto tra i capitani regi, Sforza e Caldora, da un lato e il Comune dall'altro (18 giugno 1415). L'anno successivo, il gran connestabile del Regno, Lordin de Saligny, tentò ancora una volta di sottomettere L'Aquila. Il C. gli impedì di entrare in città e assediò la guarnigione regia della rocca. Il dissidio scoppiato tra Giacomo di Borbone e la regina costrinse Lordin a rientrare a Napoli: la rocca aquilana si arrese allora ai cittadini.
Il mutamento di governo avvenuto a Napoli permise al C. di entrare nei favori della corte. Il 10 febbr. 1417 egli fu nominato viceré della provincia della Valle di Crati e nel successivo mese di agosto ricevette l'incarico di reprimere le rivolte scoppiate in Calabria a favore di Giacomo di Borbone. Pur perdendo Catanzaro, riuscì a domare la ribellione di Annechino Mormile e di Ottino Caracciolo; concluse inoltre una tregua con il signore di Badolato e con il conte di Mileto. La sua azione repressiva lo rese tanto impopolare in Calabria che, più tardi, nel 1421, Luigi d'Angiò promise di non affidare in futuro alcuna autorità o giurisdizione al C. nella Valle di Crati o nell'intera regione. Il 28 ott. 1419 il C. fu presente alla cerimonia dell'incoronazione della regina Giovanna a Napoli. Il 22 dic. 1420 la regina, nel concedere al C. Angitola, si rivolgeva a lui chiamandolo viceré dell'intero ducato di Calabria e fedele consigliere regio.
Quando Alfonso d'Aragona giunse per la prima volta nel Regno, Giovanna utilizzò il C. come strumento della sua politica in favore del re aragonese. Il 12 marzo 1421 il C. ricevette l'ordine di unirsi all'esercito di Alfonso che avanzava da Messina. Come tutta la sua famiglia il C. era in stretti rapporti con il condottiero regio Braccio di Montone, altro sostenitore di Alfonso. Il 13 apr. 1421 la regina Giovanna chiamava ancora il C. fedele servitore suo e del figlio adottivo Alfonso. Ma in seguito i Camponeschi mutarono la loro politica, probabilmente a partire dal 1422. Nel marzo di quell'anno il C. ritornò all'Aquila dalla Calabria. Il 9 agosto Loysio Camponeschi sposò Angelella Marzano, sorella, oltre che del duca di Sessa, anche di Marta, promessa sposa di Luigi d'Angiò. Il passaggio dei Camponeschi al partito angioino non dovette avvenire prima del 6 ott. 1422, quando Alfonso parla ancora del C. come viceré del ducato di Calabria; il fatto dovette però realizzarsi poco dopo questa data.
La conseguenza di tale passaggio fu l'ostilità di Braccio da Montone - che militava agli ordini di Alfonso - verso i Camponeschi e L'Aquila. Il 15 apr. 1423 Braccio ordinò ad Ardizzone da Carrara e a Niccolò Piccinino di muovere contro il C. e il Comune ribelle. Nel maggio 1423 i bracceschi conquistarono il contado dell'Aquila. Il governo cittadino ascoltò gli ambasciatori di Braccio, ma respinse le loro richieste: "Era in consilio el sengiore Antonuccio, / E disse: Avete intesa la risposta? / Avea questa citade alla soa posta / E io ly ò facto honore de capuccio; / Lo benvolere mio dal so se scosta. / Quisto conmune sempre sarràne verde, / E dì "Chi tucto vole, tucto perde"". Il C. guidò la sua città nella lotta contro Braccio, lotta che si protrasse per un anno e che vide L'Aquila al centro della resistenza contro il tentativo aragonese di controllare l'Italia centrale. In questo periodo il C. aveva acquistato senza dubbio una posizione preminente nell'ambito del governo cittadino, tanto che, durante l'assedio, la Repubblica fiorentina inviò il 23 luglio 1423 un ambasciatore per negoziare non con il Comune, bensì con lui. Sembra, tuttavia, che il problema dell'oligarchia mercantile aquilana non fosse quello di accettare il governo aragonese o quello dei Camponeschi, bensì l'altro di evitare la diretta dipendenza dalla corte napoletana attraverso il dominio di Braccio. Il problema non mutò nell'estate del 1423 quando la regina ripudiò Alfonso d'Aragona e adottò Luigi d'Angiò: Braccio, infatti, significava il dominio diretto da parte del governo centrale, mentre il regime angioino implicava la continuazione del tradizionale sistema di dipendenza indiretta del Comune da Napoli.
Il 23 giugno 1423 il C. guidò il rione Paganica nella difesa dell'Aquila, combattendo prima a porta Aquilana e poi a porta Paganica. Non riuscendo a conquistare la città, Braccio mosse contro la fortezza di Manopello, tenuta da truppe del C.; nell'autunno del 1423 la fortezza cadde nelle mani di Braccio per il tradimento di un certo Fornarino. Nell'estate dell'anno successivo, l'arrivo di truppe pontificio-napoletane, inviate di rinforzo e guidate dal Caldora, portò alla battaglia definitiva con Braccio: in essa il C. svolse un ruolo importante. All'inizio, della battaglia del 2 giugno il C. cadde in un'imboscata tesagli da Ardizzone da Carrara; reagì energicamente, e guidò il contrattacco. Riunite, quindi, le truppe aquilane, le trattenne in attesa degli ordini del Caldora; quando questi diede l'ordine, il C. le lanciò nella lotta. Il suo comando dell'attacco aquilano risultò decisivo nella terza ed ultima fase della battaglia che si concluse con la sconfitta e la morte di Braccio.
A partire dalla battaglia dell'Aquila fino alla morte della regina Giovanna (1435) il potere e il prestigio del C. furono al culmine. Il 15 luglio 1424 egli si recò con quattrocento cavalieri a Gallicano, ove si trovava Martino V con la sua corte; qui non solo fu accolto con onore dal papa, che aveva aiutato nella lotta contro Braccio, ma ricevette anche numerose offerte di condotta da parte di vari Stati italiani. In particolare, Firenze desiderava averlo ai suoi servizi per utilizzarlo nella guerra di Romagna; ma l'11 ott. 1424 giunse a Firenze la notizia che Pietro Giampaolo Orsini aveva acquistato Manopello, e che il C. aveva preferito accorrere per recuperare il castello anziché sostenere la Repubblica in Romagna. Il C. sembra, dunque, diverso dai signori di altre città - come i Baglioni di Perugia -, in quanto la difesa degli interessi nella sua città appaiono in lui prevalenti rispetto ai vantaggi che gli potevano derivare dalla condotta di uno Stato italiano. Anche Venezia gli chiese di passare al suo servizio; ed in effetti il 13 novembre il C. si accordò per servire la Repubblica con duecento lance e cento fanti per un periodo di sei mesi. Ma poi non rispettò l'impegno. L'unica impresa militare da lui espletata in quell'epoca per altri Stati italiani sembra essere la breve campagna condotta a favore degli esuli perugini Michelotti i quali erano stati suoi alleati nella battaglia dell'Aquila: il 26 agosto il C. è indicato presso Assisi insieme con Ludovico Michelotti alla guida di settecento cavalieri. Tuttavia egli assicurò il legato pontificio di non avere intenzioni ostili contro Perugia, e non sembra essersi spinto oltre Trevi. Ricevette 13.000 ducati ("a titolo di prestanza") da Venezia come anticipo per la condotta stipulata nel 1424; ma il suo mancato rispetto dell'impegno è dimostrato dalle misure di rappresaglia decretata dal Senato veneziano nel gennaio 1432 contro L'Aquila che aveva assunto il ruolo di "mallevadore" di quel pagamento. Gli stretti rapporti commerciali tra il Comune e Venezia indussero il primo a restituire nel 1435 il debito del C., al fine di evitare negative conseguenze sul commercio.
Alla morte della regina Giovanna la famiglia del C. si mantenne fedele alla causa angioina e il C. fu raccomandato dagli Aquilani alla regina Isabella d'Angiò il 26 genn. 1436. Nel documento della tregua conclusa il 7 nov. 1438 tra L'Aquila e Sulmona il C. viene indicato come "Regni Sicilie magister Iustitiarius", mentre il riferimento - che si rinviene nel medesimo atto - a "nui pretitulati Aquilani et Camponischi" attesta la stretta connessione della fazione con la struttura politica cittadina.
Il 20 apr. 1441 Eugenio IV nominò il C. (indicato come "miles, civis Aquilana") senatore di Roma a partire dal 1º dicembre successivo, ma la guerra d'Abruzzo gli impedì di assumere la carica. Nel marzo del 1442 il C. si impegnò, anche a nome del Comune dell'Aquila, a versare la somma di 10.000 ducati a Francesco Sforza quale riscatto per la liberazione di Raimondo Candola tenuto prigioniero a Fermo: il C. e gli Aquilani rifiutavano di pagare i 50.000 ducati richiesti dallo Sforza, ma erano pronti a impegnarsi a intervenire contro il Candola, ove questi non avesse rispettato l'accordo raggiunto per la sua liberazione. Il C. (che ancora porta il titolo di maestro giustiziere) continuò a sperare nell'arrivo del re Renato all'Aquila. Ma ormai nel Regno la causa angioina aveva i giorni contati. Nel luglio del 1442 Alfonso d'Aragona condusse un esercito in Abruzzo: conquistò il castello di Fagnano e quindi, dietro suggerimento di un nemico dei Camponeschi, si impossessò di Tocco e fece prigioniera la moglie del C., Giovannella Pappacoda. Il C. difendeva L'Aquila con un forte esercito e Alfonso rinunciò ad assalire la città. Il C. era un abile condottiero, ma non era più giovane: "vir rei militaris, sed iam senior, peritissimus" secondo le parole del Facio; ed era inoltre avvilito per la prigionia della moglie. Perciò accettò di far entrare Alfonso nella città da solo e senza scorta militare: egli e gli Aquilani si sottomisero ad Alfonso con un accordo favorevole sia al C. sia al Comune. In questa capitolati, del 6 ottobre 1442, Alfonso confermò al C. la sua carica di magister iustitiarius e i suoi possedimenti di Tocco e di Cittareale e gli promise di rendergli giustizia per la sua vertenza circa Manopello. Il C., inoltre, rientrò in possesso di Civitaquana e ricevette una pensione annua sulla dogana delle pecore di sessanta once d'oro. Alfonso riconosceva in sostanza la preminenza dei Camponeschi all'Aquila e nello stesso tempo confermava l'autonomia amministrativa e finanziaria del Comune in termini ampi.
Il 18 sett. 1447 Alfonso si rivolgeva al C. e ad altri membri importanti della famiglia Camponeschi chiamandoli "consiliariis et fidelibus dilectis". Il frate francescano Giovanni da Capestrano funse da intermediario in dispute tra il re, i Camponeschi e L'Aquila circa la custodia delle fortezze di Cittareale e di Antrodoco: i Camponeschi ricevettero 300 ducati l'anno per la custodia delle fortezze, le quali dovevano ritornare al monarca dopo due anni. Il 30 giugno 1451 il re incaricò il commissario abruzzese Bernardo de Raymo di investigare circa la protesta avanzata da Penne in seguito all'occupazione operata dagli Aquilani, incoraggiati dal C., di Farinola e Montebello. La lettera regia chiarisce che si tratta di unn causa feudale nella quale non potevano trovare applicazione i privilegi che erano stati concessi dal re all'Aquila.
Il C. morì nel 1452.
Fu il più fortunato della sua famiglia nel predominio dell'Aquila. Anche se fu per lungo tempo alleato col papa, non era eccessivamente pio: il frate Alessandro de Ritiis parla aspramente della sua abitudine, negli ultimi anni di vita, di cavalcare nella piazza dell'Aquila "cum quadam sclavicula puella in croppa sui alby equi". Sembra che il C. portò per qualche tempo il titolo di conte di Montorio, con il quale compare per la prima volta nel novembre 1424 e l'ultima nel 1438: nel 1442 non sembra usarlo più. Il giudizio che di lui dà il conterraneo Cirillo è degno di nota: "e la patria sua, e mia l'havrebbe pianto, quando non havesse per sua causa, e delle sue gare patito il pubblico assai più che molto".
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