ANTROPOFAGIA (dal gr. ἀνϑρωποϕαγία)
Il cibarsi di carne umana. Gli scrittori antichi avevano già raccolto notizia di tale usanza fra alcuni popoli lontani: Erodoto (IV, 18, 106; VI, 26) per l'Asia interna, Strabone (XV, 710) per l'India, Tolomeo (VI, 16, 4) per l'Africa orientale (Αἰϑίοπες ἀνϑρωποϕάγοι, IV, 8, 3) e Plinio (VI, 195) per le regioni dell'alto Nilo. Ma la scoperta dell'America portò gli Europei a contatto diretto con popolazioni che ne facevano una pratica normale, primi fra queste i Caribi, incontrati da Colombo quando, nel secondo suo viaggio, toccò la Guadalupa. Dal nome dei Caribi derivò e venne in uso corrente il termine di cannibali.
Gli studiosi hanno molto discusso intorno alla diffusione del cannibalismo, alla sua storia e ai suoi caratteri; perché, mentre ȧlcuni propendono a farne un attributo dell'uomo selvaggio senza limitazione di spazio o di tempo, altri inclinano a restringere la costumanza a pochi gruppi umani, tra i più barbari e feroci del mondo primitivo. Che l'uomo, sotto l'influenza di particolari condizioni geografiche, economiche, ecc., possa diventare cannibale, è un fatto più volte provato, non solo per i popoli incivili e semicivili, ma anche per le nazioni evolute, soprattutto quando concorrano circostanze eccezionali, come la carestia, la miseria, la fame. Questo dovette verificarsi nell'Europa preistorica per difetto di nutrimento. Difatti, in varie grotte sepolcrali del periodo neolitico (valle della Lesse, nel Belgio; isola Storå Karlsö, nella Svezia; stazione di Kuovize, nella Boemia) i resti scheletrici presentano tale disordine, frammentarietà e sproporzione numerica nelle loro parti, da fare sospettare che siano avanzi di fieri pasti, anche per le tracce, che vi si riscontrano, d'intenzionali combustioni e spezzature. Ma i casi conosciuti sono pochi, e perciò malsicuro sarebbe il fondarvi sopra un'ipotesi che tendesse a generalizzare la ferina costumanza; tanto più che alcuni inclinano ad attribuire la combustione e la rottura delle ossa ad altre cause, come l'uso di accendere il fuoco nelle caverne per allontanare le belve, o quello di adoperare le reliquie umane come amuleti. Non solo, ma in sepolture dell'epoca anteriore (paleolitica) nulla si è rinvenuto che accenni a pratiche di cannibalismo. Onde il voler trarre da pochi casi, limitati a un territorio e ad un'epoca, delle conclusioni generali, secondo cui tutta l'umanità primitiva sarebbe passata per la fase antropofagica, è un'evidente esagerazione. Se gli esempî dell'etnologia moderna possono far lume nelle questioni dell'etnologia preistorica l'esempio dei Cafri, popoli pastori, dediti all'agricoltura e all'allevamento del bestiame, e di altri gruppi dell'Africa, che detestano la carne umana ma sono costretti a farne uso in momenti critici della loro esistenza, si può utilmente richiamare.
Questo per la paletnologia; perché, per quanto si attiene all'etnografia, meno affrettate osservazioni sul mondo dei cosiddetti primitivi sono venute a distruggere quella leggenda di terrore e di raccapriccio, che i viaggiatori romantici e gli scrittori di curiosità scientifiche avevano creata intorno agli uomini mangiatori di uomini. Quante volte essi, ora col generalizzare un caso singolare, ora col dar credito ad una tradizione locale, non sono caduti nell'errore di far passare per cannibali popoli che tal nome non meritano? Quante volte, dall'avere osservato le capanne e i recinti delle abitazioni adorni di cranî e di altre parti dello scheletro umano, non hanno dato consistenza a un loro sospetto, asserendo che gli abitatori di quei luoghi erano antropofagi? Dal giorno in cui una frase raccolta dal Byron sulla bocca di un indigeno della Terra del Fuoco passò nel Voyage of the Beagle del Darwin e in altri libri, i Fuegini vennero conosciuti come mangiatori di uomini, mentre non sono.
Al lume delle nuove indagini, l'antropofagia si mostra meno diffusa di quel che si creda e molto meno praticata di quel che si dica. Siamo debitori al Bergemann di aver determinato le aree in cui, nell'Oceania, nell'Africa, nell'America, esiste quest'abitudine e di aver rilevato che essa tende a scomparire anche tra quelle popolazioni non convertite ad una religione i cui dogmi la condannano (cristianesimo, buddhismo, islamismo, culto di Riamba in Africa). In molte regioni (America Settentrionale, Polinesia orientale) il costume fu trovato dagli Europei, già al tempo dei primi contatti, in decisa decadenza o allo stato di sopravvivenze limitate. La loro influenza lo ha poi eliminato quasi dappertutto e ora esso persiste soltanto presso un numero probabilmente molto esiguo di tribù dell'Africa Centrale, dell'interno della Nuova Guinea e di alcuni recessi della grande zona forestale brasiliana.
Tenendo conto in ogni modo dei luoghi nei quali il costume fu sicuramente constatato nell'epoca moderna, si osserva anzitutto che da esso risultarono esenti le tribù a cultura più primitiva, come per es. i Pigmei africani ed asiatici, i Boscimani, i Vedda e loro affini e, nell'America, i Fuegini e la maggior parte delle tribù Gēs (esclusi i Botocudo) e quelle della California. Tre aree sono apparse invece particolarmente inquinate:1) Il Bacino del Congo e la costa della Guinea, nell'Africa, l'area della "cultura occidentale": i NiamNiam o Asandè, i Mangbetu, varie tribù dell'Ubanghi ed i Fan del Congo francese erano fra le tribù più note al riguardo. 2) L'Australia e la Melanesia (Nuova Guinea, Arcipelago di Bismarck, Isole Salomone, Nuove Ebridi, Nuova Caledonia, Figi) con alcuni distretti dell'Indonesia (Batta di Sumatra, Daiachi di Borneo) e della Polinesia (Maori, Nukahiva, Isole Bow, Marchesi). 3) Una vasta regione sudamericana comprendente anche varie tribù, Caribi, Arawak e Tupi: fra questi ultimi erano i Tupinamba che abitavano le coste del Brasile al tempo delle navigazioni del Vespucci e dei suoi successori, e sono gli attuali Apiacà e Parentintin dell'interno.
Le tre aree principali dell'antropofagia sono quelle che presentano in modo più schietto la cultura matriarcale degli agticoltori primitivi (ciclo delle due classi), e lo Schmidt non erra probabilmente nel supporre che la dieta essenzialmente vegetariana, caratteristica di tale ciclo culturale, acutizzando il bisogno di sale e la bramosia del cibo carneo, abbia, insieme con concezioni animistiche, determinato una particolare diffusione dell'antropofagia.
Fuori di tali aree i popoli presso i quali essa fu accertata sono pochi e nessuno di essi la pratica più. Tra questi si possono ricordare i Basuto dell'Africa australe e alcune tribù nordamericane, specialmente gli Irochesi (Mohawk) e le tribù adiacenti al golfo del Messico (Tonkawa, Attacapa, Karancawa, Caloosa della Florida). Sopravvivenze, soprattutto come antropofagia rituale, si avevano anche fra gli Andini, i Messicani e gli Indiani del NO. (Kwakiutl, Nutka). Nelle aree principali di diffusione del costume è evidente la stretta relazione di esso con la "caccia alle teste", i sacrifici umani e l'uso dei cranî-trofei.
Si dicono endocannibali i popoli che mangiano i proprî parenti e, soprattutto, i proprî figli, come fanno alcuni Australiani dopo aver messo a morte i loro piccoli per altre ragioni (decimazione della prole); ed esocannibali quelli che sono soliti di consumare la carne degl'individui estranei alla tribù. Delle due forme la prima è la meno frequente, ma la più feroce; la seconda è la più diffiusa, sebbene talora l'una e l'altra si mostrino insieme associate. Ma quella, secondo lo Steinmetz, al quale è dovuta la distinzione, rappresenta il triste retaggio dell'uomo primitivo, portato dalla necessità a cibarsi della carne dei consanguinei, e si mostra in varie maniere:
a) endocannibalismo dei consanguinei non uccisi da quelli che li mangiano (casi frequenti nell'Australia, nell'America Meridionale e nell'Africa; e meno frequenti nella Melanesia);
b) endocannibalismo dei consanguinei messi a morte a causa della loro imperfezione e della loro invalidità (America Meridionale e Africa centrale);
c) endocannibalismo per avidità della carne umana, ristretto ai capi della tribù e ad altri despoti;
d) endocannibalismo o degustazione della carne dell'uomo a scopo magico o rituale (soprattutto nei sacrifici, come un tempo a Tahiti);
e) endocannibalismo per furore di vendetta o per pena.
I motivi che determinano l'uso della carne dell'uomo si possono così indicare, sommariamente: fame, gusto, pregiudizio; onde il cannibalismo per necessità, per ghiottoneria e per superstizione. La necessità può consistere tanto in circostanze di natura generale (il difetto del nutrimento carneo, come presso alcuni australiani), quanto in circostanze accidentali. Il naufragio, la carestia rientrano nel numero di queste ultime, e possono stimolare l'istinto dei cannibali anche tra popoli civili. Come nell'Egitto, nell'anno 597 dell'ègira (1200), così nella Francia, nel 1030, a causa di una carestia prolungata, si andava alla caccia dell'uomo, e specialmente del fanciullo. Casi di cannibalismo per fame sono narrati dagli storici dell'antica Arabia; notissima è la storia della madre ebrea che si nutrì delle carni del proprio figlio (cfr. Dante, Purg., XXIII, 29-30); di cannibalismo si tacciarono i parigini durante l'assedio di Enrico IV, nel 1590; i Sassoni durante la guerra dei Trent'anni; gli Zingari della Boemia e della Transilvania, quando inseguiti dalle milizie, verso la metà del sec. XVIII, dovettero ricorrere all'alimentazione con la carne dell'uomo. La ghiottoneria o golosità è la forma più obbrobriosa di cannibalismo. Essa è praticata nell'Oceania e nell'Africa; nella prima dai cosiddetti cacciatori di teste delle isole Salomone, delle Nuove Ebridi, della Nuova Bretagna; nella seconda dai Niam-Niam, i quali, oltre la carne, adoperano il grasso per illuminare i loro ambienti, e da varie tribù dell'Ubanghi, ove, insieme con l'uso d'ingrassare gli schiavi comprati o gl'individui catturati, esiste l'altro di mettere in macerazione i cadaveri, perché acquistino un sapore speciale. Spesso il gusto è in rapporto con la qualità della carne. I Figiani, per i quali l'uomo è il "maiale lungo" (puaka-balava), preferiscono la carne dei Neri a quella dei Bianchi, la carne delle donne a quella degli uomini, la carne della coscia e dell'antibraccio a quella delle altre parti. Nelle isole Marchesi si dice che la vittima venisse strangolata, per non perdere il sangue. Gli occhi erano estratti ed offerti al capo, il cuore si mangiava crudo. Il resto del corpo avvolto in foglie di ti veniva arrostito o infornato, quindi fatto a pezzi.
La superstizione nasce dall'idea, comunissima tra le genti di rango inferiore, di poter trasferire nel vivo le qualità fisiche o morali del morto, risiedano esse nella carne, nel grasso, nel sangue, ovvero in organi speciali, come il cuore, sede del coraggio, gli occhi, sede della vista, il fegato, ecc. (v. anima e animismo). Racconta un viaggiatore che nella Nuova Guinea e nelle isole ad occidente di essa gl'indigeni sogliono degustare soltanto qualche parte del cadavere dei nemici, specialmente del cervello e della lingua, credendo di assimilarsi in tal modo le virtù e le attitudini che i guerrieri ebbero in vita. Durante la guerra cinese dei Tai-ping, un commerciante inglese di Shan-hai incontrò un suo servo, che recava in casa il cuore d'un ribelle per mangiarlo, non già per golosità o per bisogno, ma per acquistare del coraggio. Accanto ai tre motivi menzionati, che sono i principali, altri ve ne sono di carattere secondario, come la vendetta, il furore bellico, l'odio ferino contro lo straniero, la densità demografica, l'abbondanza di schiavi, ed altri, poi, di carattere religioso (sacrifici), di carattere giuridico e familiare. Il cannibalismo giuridico o giudiziario o penale si ha quando il delinquente è condannato ad essere divorato dal popolo. I Batta hanno elevato ad istituzione questa mostruosa e crudelissima costumanza, che consegna, o almeno consegnava fino a un secolo fa, al furor pubblico l'adultera, il ladro, il notturno aggressore di un villaggio. Legato su tre piuoli, con le braccia e le gambe divaricate, il colpevole, ad un dato segnale, è assalito dalla folla degl'intervenuti al supplizio, e fatto a pezzi con scuri e coltelli, ovvero sbranato con le unghie e coi denti. Nel caso dell'esecuzione di un'adultera, il marito ha il diritto di scegliere la parte migliore.
Cannibalismo familiare o per pietà o tenerezza di parenti si chiama il cibarsi dei vecchi della propria tribù, resi invalidi o inabili alle fatiche. In Erodoto (I, 216; IV, 26) si legge che i Massageti usavano accoppare e mangiare per pietà i loro vecchi; giacché consideravano empî quelli che finivano di morte naturale ed erano perciò destinati in pasto alle fiere. Il caso dei Massageti, comune, forse, agli Issedoni, che abitavano all'oriente della Scizia, ricorre in molte leggende popolari, e trova la conferma in varie costumanze dell'Africa e dell'America meridionale; ma l'esempio più tipico è quello dei Batta di Sumatra, i quali si radunano in un giorno stabilito ai piedi di un albero su cui sta il vecchio da sacrificare, e cantando un ritornello funebre attendono che il vegliardo si stanchi e discenda, mettendosi nelle mani dei parenti, che l'immolano e ne ripartiscono fra di loro il cadavere.
Dando un sommario sguardo alle differenti forme e tentando di raggrupparle secondo le loro caratteristiche, si può dire che il cannibalismo risponda, presso i popoli che lo praticano, al regime di vita, e cioè della raccolta, della caccia, della pastorizia. Alcuni popoli non uccidono i vivi per mangiarne la carne, ma si servono della "carne trovata", cioè dei morti; altri, per procurarsi tale alimento, in determinate occasioni, muovono alla caccia del proprio simile, provocando zuffe o disponendo lacci e trabocchetti contro i vicini o i nemici; altri acquistano schiavi e individui catturati dai razziatori per ingrassarli e macellarli al momento opportuno.
Nelle tradizioni popolari il cannibalismo ricorre spesso in forma di credenze e pratiche magiche e magico-animistiche, ed in forma di racconti. Fra le prime ricordiamo quelle relative alle supposte proprietà terapeutiche della carne umana, specialmente di quella dei giustiziati, tipica antropofagia tuttora in uso in Cina. Nel medioevo essa era largamente usata nell'Europa, tanto che i frammenti del cranio di un impiccato comparivano tra i rimedî consigliati nei trattati di farmacologia. Fra i secondi vanno ricordati i conti (v.), i quali, sotto la forma di narrazioni immaginarie e meravigliose, ritraggono le costumanze e gl'istinti dei lontanissimi antenati che avrebbero praticato il cannibalismo nelle spelonche e nelle grotte. Per lo più, tali antenati si mostrano nell'orribile aspetto di Ciclopi, dall'unico occhio in mezzo alla fronte, di Draghi corpulenti e voraci, che immagazzinano le spoglie dei migliori giovani catturati o allevano i fanciulli carpiti alle madri con inganno o per timore; diOrchi bestiali, di demoni, di stregoni, di fattucchiere. Orchi nei racconti della Francia sono i Saraceni, in quelli dei Baschi i Tartari, in quelli orientali i Rākşas. In Italia il nome orco probabilmente deriva dal latino Orcus, nome del regno dei morti e della divinîtà che vi presiede. Secondo altri, ricorda gli Ugri o Tartari invasori.
Sopravvivenze di cannibalismo sono anche nei riti stregonici, ai quali ricorre il popolino, in casi eccezionali, per consiglio o per arte delle streghe; come pure nell'esercizio della vendetta, per l'odio che spinge a far mostra di divorare il corpo del nemico o di berne il sangue. Ma si tratta di vere sopravvivenze, che generalmente s'arrestano all'espressione verbale, senza prove o conseguenze di fatto, come nel vócero di una donna della Corsica, che mentre piange l'ucciso consorte, impreca al delinquente, immaginando di sbranarne il cuore e gli altri visceri.
Anche la tradizione letteraria e storica di tutti i popoli e di tutti i tempi, attingendo sia al folklore sia a ricordi di fatti realmente avvenuti, è ricca di accenni a scene di cannibalismo. Basterà citare i racconti greci di Tantalo, di Tieste, di Tideo e Menalippo; l'episodio della donna della Mecca (Hind figlia di ‛Utbah) che addentò il fegato del musulmano Ḥamzah, zio di Maometto, ucciso in battaglia, la novella del Decameron (IV, 9) che, seguendo una fonte provenzale, narra come un marito tradito dia da mangiare alla propria moglie il cuore dell'amante ucciso da lui.
Così la preistoria, l'etnografia e il folklore, ciascuno con gli elementi raccolti nel proprio campo, concorrono alla ricostruzione del fosco quadro dei costumi e dei gusti di quegli uomini primitivi, i quali, sotto l'impero della dura necessità o per morbosa brama o per superstizione, si cibano della carne dei proprî simili.
Bibl.: Per quanto riguarda la parte preistorica e le discussioni nei congressi di antropologia e preistoria di Parigi (1867), di Bruxelles (1872), di Lisbona (1880), di Bologna (1871), rimandiamo all'articolo di G. De Mortillet, Anthropophagie, nel Dictionn. des Sciences anthropologiques, ed ai lavori del Rutot, Le cannibalisme à l'époque des cavernes en Belgique, Le Mans 1907; del Sartori, Die Sitte der Alten u. Krankentötung, in Globus, I (1895). Sul cannibalismo, dal punto di vista etnografico, si vedano gli studî di R. Andree, Die Anthropophagie, Lipsia 1887; G. B. Tylor, Cannibalism, in Encycl. Britann., IX; P. Bergemann, Die Verbreitung der Anthropoph. über die Erde, Breslavia 1893; Letourneau, De l'anthropophagie, nel vol. La sociologie d'après l'ethnographie, 3ª edizione, Parigi 1892, pp. 200-215; G. Steinmetz, Endokannibalismus, in Mittheilung. d. anthrop. Gesells. in Wien, XXVI (1896). Per quanto si attiene alla materia delle tradizioni popolari, oltre il citato articolo del Sartori, si vedano gli studî di E. G. Hartland, English Folk and Fairy Tales, Londra 1890; J. A. Macculloch, The childhood of Fiction (cap. X, Cannibalism in "Maerchen"), Londra 1909; id., art. Cannibalism, in Hastings, Encyclopaedia of Religion and Ethics, III, pp. 194-209; M. Yearsey, The folklore of Fairy-Tale (cap. II, § 3: Cannibalism); Londra 1924: nonché gli articoli di H. Gaidoz, in Mélusine, III (1886-1887).