Antropologia dello sport
Fino a un'epoca molto recente, le attività sportive sono state prevalentemente ignorate dalle scienze sociali e dall'antropologia culturale. Questo atteggiamento è stato determinato dallo scarso spessore culturale dello sport, dal suo far parte degli aspetti ludici della vita, in opposizione al lavoro, nonché dal fatto che le percezioni dominanti riguardo agli sport in genere sono ispirate all'idea di attività fisica. Sono quindi ispirate a qualcosa che è legato al corpo e va visto come naturale e immutabile, e pertanto lontano dall'oggetto di studio dell'antropologia culturale. Un pregiudizio, questo, che è radicato nonostante rilevanti studi ne abbiano da tempo provato l'infondatezza (Hargreaves 1994). Fra questi studi si colloca, per es., l'articolo Les techniques du corps, che venne pubblicato nel 1936 da M. Mauss sulla rivista Journal de psychologie (XXXII, n. 3-4, ripubblicato nel 1950 nel saggio Sociologie et anthropologie), nel quale lo studio delle 'tecniche del corpo', volutamente definite al plurale in quanto espressione delle diverse culture, permette di rilevare come nelle varie società gli uomini imparino a utilizzare il corpo in maniera differente. Atti elementari, quali il camminare o il nuotare, sono, secondo Mauss, specifici delle singole realtà locali. In tal senso lo studioso poteva mettere in evidenza come le donne Maori della Nuova Zelanda avessero un'andatura oscillante che le contraddistingueva da quelle degli altri popoli, o che i Polinesiani nuotassero con uno stile diverso da quello degli occidentali, per concludere, sulla base di tali osservazioni, che l'uso del corpo non dipende soltanto dalle determinanti biologiche e psicologiche, ma anche da quelle sociali. Il comportamento dei soggetti impegnati in attività sportive riflette quello adottato dai medesimi soggetti in altre situazioni, e in tal senso lo sport è parte di una più ampia cultura. L'a. dello s., infatti, studia le attività sportive considerandole singoli tratti di vita sociale all'interno di una più ampia Gestalt culturale, permettendo, inoltre, di valutare l'impatto dell'occidentalizzazione mediante il confronto fra il ruolo assunto dallo sport nella società occidentale e quello che esso riveste nelle culture non occidentali (Anthropology, sport, and culture, 1999). Nel corso dell'ultimo decennio, grazie ad alcune ricerche etnografiche incentrate sul ruolo dello sport nel costruire e nel consolidare l'identità del singolo o della collettività, ha progressivamente preso forma un campo di indagine antropologica che studia l'influenza dello sport nelle relazioni familiari, nell'educazione della prole, nel multiculturalismo, nel nazionalismo, nel turismo, nel mondo degli affari e nelle politiche internazionali (Games, sports, and cultures, 2000).
La nascita di un'antropologia dello sport
Già all'inizio degli anni Trenta del Novecento, l'antropologo britannico R. Firth, nell'ambito dei suoi studi sulla società polinesiana di Tikopia, pubblicava sulla rivista Oceania un articolo, A dart match in Tikopia (1931), nel quale, descrivendo una gara di lancio di freccette, analizzava il rapporto che tale pratica aveva con le credenze religiose e l'organizzazione sociale degli isolani, per concludere che lo sport rappresentava un oggetto di studio in grado di gettare nuova luce su complessi aspetti della cultura delle società primitive. Fu tuttavia la pubblicazione sull'American anthropologist dell'articolo di J. Roberts, M. Arth e R. Bush intitolato Games in culture (1959) a rappresentare uno dei primi tentativi di definire alcuni parametri di studio, contribuendo a dar vita a un dibattito teorico sul ruolo occupato dallo sport nelle società umane. Nel corso degli anni successivi, il rapporto tra sport e società fu oggetto di diversi studi sociologici, mentre le indagini più propriamente antropologiche, meno numerose, furono incentrate sull'analisi degli effetti derivanti dall'ingresso di sport occidentali in differenti realtà culturali, come, per es., l'introduzione del baseball e del basket tra gli indiani Navajo, oppure del cricket nelle isole Trobriand (Anthropology, sport, and culture, 1999).
Nel 1978 il sociologo A. Guttmann precisa quali siano le caratteristiche che distinguono gli sport moderni da quelli del passato e di molte società di interesse etnologico. In particolare Guttmann segnala come lo sport in epoca contemporanea abbia assunto una natura laica, come abbia perduto i rapporti con il rituale e con la religione che aveva in passato. Nella nostra epoca lo sport è incentrato su una specializzazione dei ruoli che conduce a una sempre più accentuata professionalizzazione e si basa, inoltre, su regole standardizzate, sulla quantificazione dei risultati e, infine, sull'idea di 'record', che rappresenta la logica conseguenza del processo di quantificazione cui le discipline sportive sottostanno. Come osserva Guttmann, non si corre più per placare gli dèi o per salvarsi l'anima, bensì per stabilire un nuovo record, adottando un atteggiamento che può essere visto come una forma tipicamente moderna di ricerca dell'immortalità (Guttmann 1978). Pochi anni prima, nel 1973, un impulso a considerare lo sport come un argomento di ricerca era giunto all'antropologia dalla creazione dell'Anthropological association for the study of play. Soltanto nel 1985, con la pubblicazione del volume di K. Blanchard e A. Cheska, The anthropology of sport, prendeva timidamente ma definitivamente forma un approccio allo studio dello sport basato sui presupposti scientifici dell'antropologia. Questo approccio, imperniato innanzi tutto sul metodo dell'osservazione partecipante, attraverso la raccolta di dati etnografici da confrontare nelle diverse realtà culturali del presente e del passato, metteva in luce come lo studio delle culture non si dovesse semplicemente limitare alla loro struttura sociale, ai rapporti di parentela, ai sistemi religiosi e politici, ma potesse proficuamente includere anche l'esame degli sport.
Probabilmente tra i diversi ostacoli che hanno a lungo impedito che si sviluppassero seri studi di a. dello s. vanno menzionati il fatto che tali studi fossero percepiti dagli antropologi come prodotti della modernità e quindi poco adatti all'indagine etnografica e una certa mancanza di chiarezza sul rilievo che tali analisi avrebbero potuto assumere nell'ambito della disciplina antropologica in generale. Queste difficoltà sembrano essere state superate successivamente anche grazie al fatto che le teorie maggiormente in voga, vale a dire quelle che indagano le realtà postcoloniali, gli studi femministi, la globalizzazione, gli studi dedicati alle pratiche quotidiane, sono adatte a includere anche l'analisi degli sport.
Lo studio antropologico dello sport si distingue da quello delle altre scienze sociali nel metodo, nel tipo di dato che mira a ottenere e nella sua interpretazione in chiave comparativa. Il metodo è quello classico del lavoro sul campo attraverso una forma di partecipazione attiva che implica l''immersione', più o meno completa, dello studioso nella pratica sportiva o nelle attività a essa correlate (per es. in qualità di allenatore o di manager). I dati che l'antropologo ricerca sono diversi da quelli che interessano il sociologo o lo storico dello sport, infatti gli aspetti quantitativi della pratica sportiva in quanto tali (per es. le dimensioni del campo, le precise caratteristiche degli strumenti utilizzati o le regole che la disciplinano) sono considerati irrilevanti, mentre viene analizzato il valore che essi rivestono per i praticanti sia nella costruzione dell'identità del singolo sia, soprattutto, nel precisare e nel determinare l'identità della comunità.
Analisi comparativa e identità collettiva
Per l'antropologia uno degli aspetti che rivestono maggiore interesse è quello costituito dalle modifiche che uno sport internazionale subisce a livello locale; quel che attiene al modo in cui viene praticato, in un luogo preciso, un gioco che ha un rilievo globale. Per es., il calcio, considerato il più diffuso sport del mondo, viene giocato in comunità locali seguendo tradizioni che implicano differenti stili di gioco; oppure il football americano, diffusissimo in tutto il territorio degli Stati Uniti, ma che in Texas viene praticato con un'enfasi sulla forza e sulla velocità che non trova riscontro negli altri Stati. Il cricket è stato molto studiato poiché è un gioco diffusissimo nelle ex colonie britanniche. Gli studi di A. Appadurai (1995) hanno messo in luce come il modo in cui gli abitanti dell'India pur avendo adottato il cricket, in epoca coloniale, lo abbiano però svuotato dei significati che esso rivestiva in origine, in Gran Bretagna, attribuendogli invece dei valori funzionali alla formazione di una nuova identità nazionale indiana. È opinione diffusa, tra gli sportivi indiani, che il cricket, così come altri sport di importazione occidentale, quali il calcio e l'hockey, abbia in un certo senso 'corrotto' la gioventù del Paese rendendola schiava di uno sport che non può servire a promuovere il tipo di etica che è adatta all'identità indiana, basata sull'incorporazione di importanti virtù virili. Al contrario la forma tradizionale di lotta kabaddi è diventata uno sport nazionale indiano perché è in grado di rappresentare un tipo di 'indianità' che si distingue da quella legata all'esperienza coloniale rappresentata dal cricket. Eppure, paradossalmente il kabaddi ha potuto costituirsi come sport nazionale proprio in quanto esso è stato adeguato al modello straniero di sport moderno (adottando per es. una serie di regole codificate), relegando i suoi aspetti etnici a documento di valore storico (Alter 2000).
Nelle isole Trobriand, a est della Nuova Guinea, dove il cricket fu imposto dai colonizzatori inglesi alle popolazioni che in un'epoca precedente erano soliti assalire i villaggi vicini e in alcuni casi erano cacciatori di teste e cannibali (quelle stesse popolazioni descritte da B. Malinowski in Argonauts of the Western Pacific del 1922), gli indigeni furono capaci di riconoscere, al di là del ritmo lento del gioco, il duello che si sviluppa tra il lanciatore e i battitori. Il cricket fu in tal modo trasformato dagli isolani in un surrogato della perduta cultura di guerra, divenendo parte integrante dello 'spirito' delle isole Trobriand (Anthropology, sport, and culture, 1999).
Un processo analogo si è verificato in Cina, dove gli sport di importazione occidentale sono stati progressivamente svuotati dell'enfasi originale per assumere nuovi significati. Così il concetto di fair play, vale a dire di comportamento sportivo che caratterizza gli sport nati o codificati in Gran Bretagna, come, soltanto per fare un esempio, il tennis, non trova un equivalente in Cina. Appropriandosi degli sport di derivazione occidentale, i cinesi li hanno dotati di significati morali che sono più consoni alla loro cultura. Il fair play è stato sostituito dalla nozione tipicamente cinese di 'faccia' ("perdere la faccia") che costituisce uno dei motivi dominanti dei discorsi popolari sullo sport (Brownell 2000).
Come appare già evidente dalle esemplificazioni che si sono considerate, anche lo sport può avere un ruolo nel processo di formazione dell'identità nazionale. Un esempio classico, antesignano degli studi sul modo in cui gli sport contribuiscono a definire le comunità morali e politiche, è il caso del buzkashi al quale G.W. Azoy ha consacrato una delle prime monografie di carattere etnografico dedicate a uno sport (Buzkashi: game and power in Afghanistan, 1982). Il buzkashi è una competizione sportiva, nata in un'epoca remota tra i popoli dell'Asia centrale e oggi praticata in Afghānistān, che vede due squadre di cavalieri contendersi la carcassa di un vitello. Il gioco serve al tempo stesso a commemorare la passata cultura equestre dell'Afghānistān e a mettere in scena, in maniera estremamente spettacolare, valori legati all'idea locale di virilità, come il coraggio e la forza.
Il calcio che, per la sua ampia diffusione, si presta alle analisi comparative che caratterizzano l'antropologia, è tra gli sport più studiati come mezzi per l'elaborazione di un'identità nazionale. W. Krauss (2003) ha studiato il modo in cui il senso di identità negativa che i tedeschi sperimentavano come eredità della Seconda guerra mondiale fu in grado di trasformarsi in un'identificazione positiva con la nazione proprio grazie al calcio. La rinascita della Germania come Paese capace di credere in sé stesso viene fatta coincidere con il cosiddetto miracolo di Berna. Nel 1954, vincendo a sorpresa la finale contro l'Ungheria, la squadra della Germania divenne campione mondiale di calcio. Quel momento segnò il ritorno a un'identificazione collettiva con i valori nazionali, libera dalla dura eredità del nazismo, ma caratterizzata come un tempo da una forte componente emotiva. La partita di calcio viene paragonata a un rituale che consente ai tifosi di sperimentare identità 'immaginate' soprattutto nei casi, paradossali, ma non infrequenti, in cui il tifo è indirizzato verso squadre lontane, che appartengono a un mondo che non necessariamente si conforma alle norme sperimentate nella vita quotidiana.
Questa caratteristica è stata messa in evidenza da H. Hognestad (2003) il quale ha studiato il diffuso e, al tempo stesso, misterioso fenomeno del tifo a distanza per squadre britanniche da parte di fan norvegesi. Lo sport nazionale in Norvegia è sempre stato lo sci e il successo del calcio è sentito come estraneo alla cultura locale.
L'adozione di un'identità immaginaria, basata nel caso della Norvegia, sul tifo calcistico per una squadra della Gran Bretagna, consente di entrare in una di quelle realtà che l'antropologo britannico V. Turner definiva liminali (relative al rito e, conseguentemente, separate dalla realtà quotidiana e aperte invece al cambiamento) in cui i norvegesi possono attenuare alcune ristrettezze imposte loro dai simboli della propria identità nazionale.
La forma tradizionale di lotta libera praticata in Turchia è uno sport utilizzato sistematicamente per la costruzione del mito nazionale della forza, ma essa veicola anche una forma di educazione morale a un'idea di competizione cavalleresca. La lotta libera costituisce una sorta di messa in scena teatrale delle lotte e dei contrasti della vita di tutti i giorni. Essa assume i materiali sociali della vita quotidiana, ma li elabora mediante una serie di regole che richiedono quella trasparenza e quel fair play che così evidentemente mancano nella vita 'reale' (Stokes 1996). Gli spazi liminali resi possibili dalle attività sportive diventano in tal modo luoghi nei quali le vecchie regole non hanno più validità, dove le identità sono fluide, e dove possono venire negoziati nuovi significati individuali e collettivi.
bibliografia
A. Guttmann, From ritual to record. The nature of modern sports, New York 1978.
K. Blanchard, A. Cheska, The anthropology of sport, S. Hadley (Mass.) 1985, 19952.
J. Hargreaves, Sporting females, London 1994.
A. Appadurai, Playing with modernity, in Consuming modernity, ed. C.A. Breckenridge, Minneapolis-London 1995.
M. Stokes, 'Strong as a Turk'. Power, performance and representation in Turkish wrestling, in Sport, identity and ethnicity, ed. J. MacClancy, Oxford-Herndon 1996, pp. 21-42.
Anthropology, sport, and culture, ed. R.R. Sands, Westport-London 1999.
Games, sports, and cultures, ed. N. Dyck, Oxford-New York 2000 (in partic. J.S. Alter, Kabaddi. A national sport in India, pp. 81-116; S. Brownell, Why should an anthropologist study sports in China?, pp. 43-64; N. Dyck, Games, bodies, celebrations and boundaries, pp. 13-42).
H. Hognestad, Long-distance football support and liminal identities among Norwegian fans, in Sport, dance and embodied identities, ed. N. Dyck, E.P. Archetti, Oxford-New York 2003, pp. 97-114.
W. Krauss, Football, nation and identity, in Sport, dance and embodied identities, ed. N. Dyck, E.P. Archetti, Oxford-New York 2003, pp. 197-216.