Sviluppo, antropologia dello
L'incontro tra sviluppo e antropologia
La nozione di sviluppo è uno dei grandi miti della seconda metà del 20° sec., così come quella di progresso lo è stata nel secolo dei Lumi, e il concetto di evoluzione nella seconda metà del 19° secolo. L'idea di sviluppo, inteso come capacità di acquisire le condizioni della modernità sufficienti a generare crescita economica in presenza di incremento della produttività dei fattori di produzione, nonché come miglioramento delle condizioni di vita con innalzamento delle soglie di istruzione, salute, speranza di vita e partecipazione civile, ha dominato il processo di decolonizzazione dagli anni Quaranta del Novecento. Nei Paesi soggetti al controllo coloniale europeo, più tardi definiti il Sud del mondo, le forze politiche che lottavano per l'indipendenza avevano la convinzione di possedere una capacità autonoma di riscatto civile ed economico. Le potenze europee, dal canto loro, giungevano alla consapevolezza che la tutela cui soggiacevano quei Paesi, e attraverso la quale l'Europa riteneva di avere assolto al suo compito civilizzatore, aveva perduto ormai gran parte della sua ragion d'essere. Fu questo il quadro ideale in cui, in concomitanza con l'anno della decolonizzazione, il 1960, le Nazioni Unite proclamarono gli anni 1960-1970 come decennio dello sviluppo. Sviluppo quindi divenne una parola chiave e, al tempo stesso, un sistema di strutture organizzate e di pratiche. Fu presto chiaro che lo sviluppo non si sarebbe affermato in modo autonomo, ma avrebbe necessitato della messa a punto di politiche, strumenti e organizzazioni qualificate. Con il trascorrere del tempo finì anche per essere percepito in una prospettiva essenzialista: nel Sud del mondo, come una realtà che doveva essere importata, e, nel Nord del mondo, viceversa, come un complesso di saperi e di pratiche altamente specializzati. Nell'ambito del processo di specializzazione, l'antropologia finì per reclamare il proprio posto in quanto settore disciplinare e, insieme, complesso di pratiche scientifiche e professionali funzionali alla messa a punto, alla gestione e alla valutazione delle operazioni di sviluppo.
L'emergere di una a. dello s., contemporaneamente alla tendenza a una collaborazione tra antropologi e istituzioni deputate alla programmazione e gestione di interventi nei cosiddetti Paesi in via di sviluppo, o Paesi emergenti, è dovuto a molti fattori. Da una parte, il panorama dei fallimenti di grandi progetti ad alta intensità di capitale costringeva, già dai primi anni Settanta del Novecento, le istituzioni internazionali e quelle dei singoli Paesi industrializzati a rivedere le opzioni strategiche delle loro politiche, e a rivolgere maggiore attenzione allo sviluppo rurale e alla riduzione della povertà. Le nuove politiche di sviluppo cominciavano a far perno sull'idea della partecipazione delle comunità implicate nei processi indotti di sviluppo, e sulla necessità di elaborare progetti costruiti su una maggiore e migliore conoscenza dei contesti sociali e culturali. Questa tendenza favorì un atteggiamento pubblico volto alla conoscenza e alle capacità professionali degli antropologi. L'antropologia si propose quindi, in un primo momento, più o meno a partire dai primi anni Settanta, come uno strumento tecnico e scientifico per migliorare la qualità degli interventi di sviluppo e per contribuire a un radicale mutamento allo scopo di porre al centro dello sviluppo non i processi economici, secondo la logica cosiddetta top-down, ma le comunità umane, cioè partendo dal basso secondo un paradigma che si definisce bottom-up (Putting people first: sociological variables in rural development, ed. M.M. Cernea 1985, 19912). Afferma M. Tommasoli: "Il riconoscimento del peso delle variabili sociali nello sviluppo è un fatto relativamente recente nel mondo della cooperazione. L'impatto dei risultati di solide ricerche antropologiche sul paradigma predominante dello sviluppo inteso come mera crescita economica è ancora limitato" (2001, p. 28). E ancora, dal versante della critica postmoderna radicale, A. Escobar puntualizza: "Per quanti mutamenti strutturali siano intercorsi negli ultimi decenni, l'architettura della formazione discorsiva dello sviluppo costruita nel periodo 1945-1955 è rimasta sostanzialmente inalterata, adattando i discorsi alle mutevoli condizioni" (1994, p. 42). "Quel paradigma - continua Tommasoli - ha mostrato infatti una grande capacità di adattamento alle critiche antropologiche grazie all'elaborazione di un gergo di sviluppo umano sempre più popolare, malgrado la sua intrinseca ambiguità. L'uso di tale linguaggio sembra bilanciare, piuttosto che modificare, il paradigma di uno sviluppo definito secondo gli schemi di un neoliberismo che considera la crescita economica come un percorso inevitabile delle società moderne" (2001, p. 28). Tuttavia, il mutamento è ampiamente testimoniato proprio dalla più recente letteratura antropologica: R. Nolan formula una lapidaria definizione di sviluppo come "improvement, empowerment and participation. Improvement si riferisce al miglioramento delle modalità in cui le popolazioni locali comprendono, accettano e valutano. Empowerment significa costruire locali capacità di pianificazione e gestione dei mutamenti associati con il miglioramento. Participation significa il coinvolgimento di differenti membri, nonché gruppi e sottogruppi di una società nelle decisioni che incideranno sulle loro vite nel presente e nel futuro" (2002, pp. 20-21).
Antropologia applicata e antropologia dello sviluppo
Storicamente, l'a. dello s. trae origine da una più generica 'antropologia applicata' (A.M. Ervin; J. van Willigen; R. Malighetti) che, a partire dagli anni Sessanta, sia in Europa sia negli Stati Uniti, mirava a una certa professionalizzazione degli studenti di antropologia. Particolarmente negli Stati Uniti l'antropologia applicata si fonda su una lunga tradizione di domanda sociale, legata soprattutto alle riserve indiane e alle bande giovanili nelle metropoli. L'applicazione alla sfera sociale ed economica delle conoscenze antropologiche si è sempre prospettata comunque ad ampio raggio: dall'assistenza sociale alla museologia etnografica, dal mondo scolastico a quello sanitario. La sfida dello sviluppo, non solo nel cosiddetto Terzo mondo, e soprattutto dopo l'affermarsi della consapevolezza dell'insufficienza di un approccio puramente economicistico, ha offerto agli antropologi uno straordinario campo di applicazione. Come sostiene van Willigen: "Il numero degli antropologi che professionalmente sono impiegati per risolvere problemi pratici è cresciuto enormemente. Nei loro posti di lavoro, queste persone possono svolgere molte funzioni, come quella di ricercatore per la formulazione di politiche per i più svariati settori della vita sociale, oppure le funzioni di valutatore (di bisogni sociali, o dell'impatto sociale di interventi), formatore, mediatore culturale, agente del cambiamento sociale e, persino, di terapista" (1993, 20023, p. 3 e segg.). Questi ruoli si identificano in una serie di declinazioni inedite dell'antropologia che vanno dalla policy alla advocacy anthropology (Ervin 2000). Il ruolo di agente del cambiamento sociale può riferirsi a varie funzioni in campi differenziati, ma, secondo le parole dello stesso van Willigen, "in alcuni casi, questo ruolo è svolto come parte di una specifica strategia di cambiamento, come nel caso dell'antropologia dello sviluppo" (1993, 20023, p. 3 e segg.). È questa la visione che si può definire pragmatica e funzionalista dell'antropologia e dell'antropologo dello sviluppo. Una visione che risulta ampiamente documentata in una parte considerevole della recente letteratura statunitense ed europea.
Dalla metà degli anni Settanta, sull'onda della critica neomarxista del sottosviluppo, l'a. dello s., negli Stati Uniti, si affermò come subdisciplina relativamente autonoma (development anthropology). Non si è mai trattato di un campo di studi e ricerche particolarmente omogeneo, innanzi tutto perché coloro che si identificavano come antropologi dello sviluppo non mostravano di condividere approcci teorici e metodologici comuni e coerenti. Fu a partire dagli anni Ottanta che si affermò la tendenza a riconoscere nella subdisciplina un campo di ricerca comune sia per raffinare i concetti e i metodi di applicazione dei saperi antropologici alle politiche e ai progetti di sviluppo, sia per migliorare la teoria e le pratiche stesse dello sviluppo. Da allora, negli Stati Uniti, la development anthropology viene insegnata in un numero crescente di università e si è sviluppata un'ampia letteratura scientifica e divulgativa. Sono state create associazioni e strutture autonome di ricerca e di consulenza: per es., SFAA (The Society for Applied Anthropology); NAPA (The National Association for the Practice of Anthropology); BARA (The Bureau of Applied Research in Anthropology); ANTHAP (The Applied Anthropology Computer Network).
Contemporaneamente, gli sviluppi del dibattito all'interno delle correnti marxiste statunitensi di political economy, E.R. Wolf (Europe and the people without history, 1982; trad. it. 1990) per l'antropologia, e I. Wallerstein (The modern world-system, 1974-1980-1988, 3 voll.; trad. it. Il sistema mondiale dell'economia moderna, 1978-1982, 2 voll.) in un ambito più ampio di scienze sociali, confermarono la percezione di un'antropologia marxista maggiormente adatta a impegnarsi nelle questioni dello sviluppo di quanto potesse fare la vecchia antropologia funzionalista europea.
In Europa, e particolarmente in Francia, sulla scorta di due tradizioni intellettuali assai diverse, ma per certi aspetti convergenti, l'antropologia dinamista di G. Balandier, e l'antropologia marxista di C. Meillassoux e E. Terray, si è sviluppato un dibattito teorico molto interessante. Balandier, in un'epoca in cui lo strutturalismo lévistraussiano dominava la scena antropologica in Francia, fu lo studioso che "mise l'accento sulle dinamiche locali, la diacronia, le rotture e le contraddizioni. Fu lui a introdurre in Francia la scuola di Manchester e l'antropologia politica angloamericana" (Olivier de Sardan 1995, p. 39). L'antropologia marxista francese, largamente debitrice alle posizioni di P.-Ph. Rey (Les sociétés civiles face au marché. Le changement social dans le monde postcolonial, in collaborazione con M. Haubert, 2000), ha svolto un ruolo fondante nei confronti del dibattito europeo, e non solo, sulle dinamiche sviluppo-sottosviluppo, nonché sulla natura e il ruolo dell'antropologia dello sviluppo. La posizione di J.-P. Olivier de Sardan (1995) costituisce una svolta e una mediazione nel dibattito europeo in cui si confrontano un punto di vista pragmatico e interventista, nel senso di una teoria dell'intervento dell'antropologo nel cambiamento sociale, rappresentato in Italia, per es., da A. Colajanni (1994), e un punto di vista radicalmente critico nei confronti della legittimità dell'a. dello s. rappresentato dallo svizzero di origine maghrebina M. Kilani (1994). Egli tenta di contestare la legittimità antropologica della nozione di sviluppo, che, a suo avviso, denota una realtà esterna all'antropologia priva di coerenza e quindi incapace di costituire un autentico oggetto antropologico. Olivier de Sardan sviluppa una prospettiva interazionista che pone in primo piano le interrelazioni tra attori e gruppi di attori sociali e i loro effetti, programmati o inattesi, "l'antropologia del cambiamento sociale è actor-oriented, privilegia i punti di vista e le pratiche degli attori di base e dei 'consumatori' di sviluppo" (Olivier de Sardan 1995, p. 50). È una prospettiva che lo studioso francese propone nel quadro di una socioantropologia del mutamento sociale che combina la tradizione antropologica dello sviluppo con quella più schiettamente sociologica nell'impiego sia di concetti e teorie, sia di metodi di ricerca e di intervento.
Le critiche all'antropologia dello sviluppo
Sin dagli ultimi decenni del 20° sec., a partire da posizioni marxiste radicali (per es., P.C.W. Gutkind), si è aperto un grande dibattito sulla legittimità dell'antropologia dello sviluppo. La critica si è successivamente inasprita da posizioni che fanno esplicito riferimento alla cosiddetta sfida postmoderna (Escobar 1994) e al complesso dei postcolonial studies (per es., R.J.C. Young). La svolta postmoderna nasce negli Stati Uniti dall'antropologia simbolica di C. Geertz, e soprattutto dalle opere di J. Clifford e G.E. Marcus (Writing culture, 1986; trad. it. 1997), Marcus e M.M.J. Fischer (Anthropology as cultural critique, 1986; trad. it. 1998) e Clifford (The predicament of culture, 1988; trad. it. 1999), mentre, maggiormente radicata in Europa e in Gran Bretagna, risale a F. Fanon la genealogia intellettuale dei postcolonial studies. Questi ultimi hanno assunto, come elemento determinante del loro oggetto di studio, la discriminazione e la disuguaglianza (di genere, classe, colore, religione ecc.) create dalle forme di dominazione sia coloniale e capitalistica, sia sessuale e personale. Su un comune impianto teorico foucaultiano, la critica postmoderna e quella postcoloniale hanno messo a nudo le profonde contraddizioni epistemologiche, teoriche e pratiche dei comuni modi di conoscenza e di controllo di tali forme di dominazione in cui viene fatto rientrare l'apparato internazionale di aiuto allo sviluppo. In questa prospettiva, da una parte l'analisi postcoloniale si muove nella direzione di produrre costrutti teorici fondativi di pratiche finalizzate alla trasformazione delle condizioni di sfruttamento dei popoli del Terzo mondo. Dall'altra parte, l'analisi postmoderna si muove nella direzione di una critica dei "fondamenti stessi del modo di conoscere che è alla base di un'azione di sviluppo e delle sue espressioni istituzionali" (Tommasoli 2001, p. 81). In ogni caso, la vecchia pretesa antropologica di rappresentare oggettivamente le differenti società ha dimostrato di essere un troppo facile bersaglio per la critica postmoderna. Le rappresentazioni etnografiche, infatti, non sono neutrali: esse incorporano rapporti ineguali di potere tra Nord e Sud del mondo e rispondono alle logiche degli osservatori che scrivono per le comunità scientifiche cui appartengono. L'oggettività della rappresentazione etnografica è quindi un mito che spinge la critica più radicale ad affermare che l'antropologo non è legittimato a parlare in nome di società diverse dalla sua. La critica postmoderna ha prodotto reazioni assai diverse: alcuni antropologi hanno scelto di abbandonare la ricerca etnologica e si sono dedicati a forme letterarie di analisi e decostruzione; altri hanno preferito orientare i loro studi sulle società del Nord del mondo; altri ancora hanno optato per una a. dello s. intesa come analisi critica degli apparati nazionali e del sistema internazionale della cooperazione, nonché delle pratiche e politiche dello sviluppo. Così è nata la distinzione tra a. dello s. (anthropology of development) come analisi critica del sistema di aiuto allo sviluppo, e antropologia nello sviluppo (development anthropology) come insieme di pratiche scientifiche e professionali di antropologia applicata alle azioni di sviluppo (Gardner, Lewis 1996; Tommasoli 2001).
Negli Stati Uniti studiosi di taglio poststrutturalista e postmoderno hanno proposto, sulla scorta di Escobar (1995), alcune critiche alla development anthropology, accusando questo settore disciplinare di non avere reagito in modo sufficientemente perspicuo e coerente ai mutamenti intervenuti nel più vasto campo dell'antropologia e di aver continuato a condividere i discorsi della modernizzazione e dello sviluppo in maniera acritica. Per molti di questi studiosi il futuro dell'a. dello s. risiede in un disimpegno dalle istituzioni e nell'adozione di un atteggiamento critico nei confronti dei modelli dominanti delle pratiche di sviluppo. Questa critica è stata riferita al concetto di post-development (Rahnema, Bawtree 1997), cioè all'idea che il mito dello sviluppo è fallito e deve essere sostituito da nuove priorità. Molti antropologi, tuttavia, perseguono comunque obiettivi di coinvolgimento, teorico e pratico, dell'antropologia nello sviluppo, e mentre riconoscono l'importanza di una critica etnografica istituzionale, sottolineano che le critiche più radicali hanno spesso sottovalutato i contributi positivi della disciplina. Altri hanno anche messo in evidenza come la development anthropology sia sempre stata impegnata nella critica sistematica dei processi di sviluppo, nell'analisi critica di interventi che si rivelavano distruttivi, nella messa a fuoco delle complessità interne e delle differenze socioeconomiche nelle comunità oggetto di interventi, nonché nel continuo porre in discussione le assunzioni di principio, i concetti portanti e le teorie dello sviluppo. K. Gardner e D. Lewis, nel libro Anthropology, development, and the post-modern challenge (1996), discutono il ruolo positivo dell'antropologia nella sfida del postsviluppo in termini di una capacità di sovvertire il discorso e le pratiche dello sviluppo dall'interno.
Mutamento sociale e sviluppo di fronte alla sfida postmoderna
Escobar sostiene che il sistema di aiuto allo sviluppo istituzionalizza, esattamente come nel colonialismo, lo scarto di potere esistente tra i nativi e gli antropologi, e questi ultimi rischiano di perdere di vista il modo in cui l'aiuto allo sviluppo diviene un campo di contestazione culturale e di costruzione di identità (Escobar 1994, p. 15). "Se accettiamo - si chiedono Gardner e Lewis - che lo sviluppo operi come discorso egemone attraverso il quale il mondo è rappresentato, ordinato e controllato secondo modalità particolari, come possono non essere moralmente compromessi coloro che lavorano nel suo ambito?" (Gardner, Lewis 1996, p. 24). Concludono, tuttavia, che, malgrado la relazione altamente problematica tra antropologia e sviluppo, gli antropologi dovrebbero comunque esservi implicati con l'obiettivo preciso di contribuire al mutamento del paradigma su cui è fondato il discorso egemonico dello sviluppo. Per costruire il loro argomento, i due autori propongono di usare il termine sviluppo per riferirsi ai processi di cambiamento sociale ed economico indotti dalla crescita economica, ossia da specifiche politiche e azioni sia a livello dello Stato, di agenzie donatrici o di movimenti sociopolitici indigeni. Lo sviluppo è quindi per Gardner e Lewis una serie di eventi e azioni, nonché di discorsi e costrutti ideologici, che possono, nell'insieme, avere effetti positivi o negativi sulle comunità locali che ne sperimentano concretamente gli esiti, mentre non si può escludere che alcuni aspetti dello sviluppo abbiano comunque conseguenze distruttive sull'ambiente sociale e culturale, e di grave indebolimento delle capacità delle società locali a governare il proprio presente e il proprio futuro. La nuova prospettiva dell'a. dello s. è perciò delineata come capacità scientifica e professionale a mettere in discussione il teorema dello sviluppo come valore per sé, e a decostruire le relazioni sociali e politiche della povertà, intesa come una condizione di difficoltà o impossibilità all'accesso alle risorse necessarie per la vita (p. 25). Per costruire questa prospettiva, già peraltro abbondantemente anticipata nella letteratura antropologica degli anni Ottanta e dei primi anni Novanta, i due autori mettono a fuoco la proposta che la distinzione tra knowledge for understanding (lett. "conoscenza per capire") e knowledge for action (lett. "conoscenza per agire"), propugnata da alcuni studiosi sulla scia della separazione dell'a. dello s. dall'antropologia nello sviluppo, sia fondamentalmente falsa perché la conoscenza antropologica non può prescindere dalla combinazione di entrambe le modalità del sapere. Su questa base Gardner e Lewis sostengono che gli obiettivi primari della ricerca antropologica nel quadro delle politiche e delle pratiche dello sviluppo si debbano articolare come obiettivi di critica centrata sui fenomeni locali di resistenza alle attività di sviluppo, nonché sulla decostruzione della dicotomia tradizionale/moderno (pp. 50-51). I concetti di riferimento per un'azione di sviluppo antropologicamente orientata vengono identificati dai due studiosi nella logica della riduzione della povertà e della creazione di cosiddette income-generating activities (lett. "attività generatrici di reddito"), con particolare riferimento alle questioni di genere, del microcredito e della formazione all'associazionismo e alla gestione della microimpresa. Il ruolo dell'antropologia, in questo quadro, è indubbiamente quello di reperire le informazioni necessarie per la valutazione dei bisogni e delle risorse locali, nonché per l'identificazione dei gruppi sociali suscettibili di entrare in gioco (target groups) e delle relazioni di potere all'interno delle comunità locali, allo scopo di costruire una piattaforma di buona percezione reciproca e contribuire così alla formazione di un consenso diffuso e di un reale processo di empowerment (lett. "mettere in grado di controllare le proprie risorse e potenzialità"). Due ulteriori quadri teorici di riferimento arricchiscono il panorama della prospettiva innovativa sintetizzata da Gardner e Lewis. Si tratta delle nozioni di community development (letteralmente "sviluppo comunitario") e di empowerment. Quella di sviluppo comunitario è un'idea strettamente legata all'approccio cosiddetto integrato allo sviluppo in cui viene posta enfasi sulla necessità di collegare tra loro le differenti variabili sociologiche. È inseparabile dal concetto di empowerment, dal momento che un approccio integrato non può fare a meno di garantire il controllo sulle variabili da parte della stessa comunità soggetta a mutamenti pianificati. L'altro grande concetto di base, infine, è quello di partecipazione, che rappresenta uno dei pilastri del discorso istituzionale sullo sviluppo (Tommasoli 2001). La partecipazione, o come spesso si preferisce dire, lo sviluppo partecipativo, implica il rovesciamento di prospettiva sia teorica sia pratica per cui quei gruppi che venivano percepiti esclusivamente come beneficiari degli aiuti che scaturivano dalle azioni di cooperazione (donne, giovani, gruppi minoritari ecc.) sono ormai diventati i soggetti attivi e i protagonisti dei processi di empowerment e di sviluppo. Il lavoro di R. Chambers è, in questa prospettiva, assolutamente centrale. Le tecniche di PRA (Participatory Rural Appraisal), definite ed elaborate dallo studioso inglese, hanno lo scopo di abilitare le popolazioni rurali a pianificare e rendere esecutive possibili soluzioni ai loro problemi attraverso l'analisi del loro stesso sapere e della loro consapevolezza delle condizioni locali. In questo contesto, l'estraneo, antropologo o semplice operatore della cooperazione allo sviluppo, ha solo la funzione di 'facilitatore' (Chambers 1992). I parametri essenziali di questo approccio partecipativo scaturiscono dall'esperienza scientifica e pratica dell'antropologia sociale, come, per es., l'idea che l'apprendimento sul campo è più una performance artistica flessibile che una scienza rigida, e l'importanza attribuita all'atteggiamento, ai comportamenti e alla capacità di relazione del ricercatore, più che a qualsiasi metodologia di inchiesta strutturata. Nonostante la persistenza di forti critiche che dal versante antropologico più radicale hanno tentato di screditare la nozione di partecipazione, vista piuttosto come un espediente retorico, non si può non riconoscere - sostengono Gardner e Lewis - che questo concetto e le sue implicazioni metodologiche e pratiche hanno sostanzialmente indebolito l'approccio top-down arrivando spesso a sostituirlo con un paradigma bottom-up che sta guadagnando terreno anche sul piano istituzionale.
La socioantropologia del cambiamento sociale
L'approccio proposto da Gardner e Lewis, pur caratterizzato da un impianto critico e analitico, non si discosta in modo sostanziale dalla tradizione pragmatica dell'antropologia sociale di matrice anglosassone. Inoltre, la development anthropology americana non rinuncia alla sua vocazione di antropologia applicata. Di segno assai diverso è l'ultimo contributo di Olivier de Sardan, in cui l'antropologo francese tenta la costruzione di un approccio e di un metodo caratterizzati da una particolare prospettiva di integrazione tra antropologia e sociologia. Egli infatti afferma che "le frontiere con la sociologia devono essere trasgredite" (Olivier de Sardan 1995, p. 52). Si tratta essenzialmente di un metodo che lascia soltanto un minimo spazio alla prospettiva di un'applicazione, e quindi di un'implicazione diretta dei saperi antropologici nelle pratiche dello sviluppo, ma si dirige piuttosto verso forme di analisi di assoluta importanza per la valutazione e il monitoraggio di quelle pratiche. La socioantropologia del cambiamento sociale e dello sviluppo, come Olivier de Sardan definisce il suo campo di ricerca, è focalizzata "sull'analisi delle interazioni tra attori sociali appartenenti a diverse culture o subculture; mira a costruire l'inventario dei vincoli cui rispettivamente gli uni e gli altri sono soggetti, e alla decodifica delle strategie che gli attori dispiegano all'interno dei loro margini di manovra" (p. 6). Vi si avverte distintamente l'eredità intellettuale di Balandier insieme all'influenza dominante del quadro teorico di P. Bourdieu. Olivier de Sardan definisce essenzialmente "metodologica" la sua prospettiva, e parte dalla constatazione che la maggior parte degli errori che si riscontrano nelle pratiche del cosiddetto aiuto allo sviluppo sono connessi a quello che egli individua come "uno choc inferto dalla realtà agli operatori di sviluppo" (p. 55). Gli agenti della cooperazione, qualunque sia la loro origine e il settore di competenza, quando devono eseguire i compiti tecnici che sono stati loro affidati sul terreno, scoprono che i comportamenti degli attori locali sono spesso divergenti rispetto agli obiettivi che tecnicamente devono essere perseguiti. Inevitabilmente questo schock produce delle "false spiegazioni del tipo "abbiamo a che fare con un ritardo culturale", oppure "è la loro cultura che lo impone", spiegazioni che troppo spesso legittimano la routinizzazione delle pratiche degli agenti della cooperazione, le loro rinunce di fronte a realtà che appaiono loro troppo complesse, la loro paradossale perseveranza negli errori, o le loro scarse attitudini all'innovazione e all'adattamento" (pp. 55-56). Si rivela perciò della massima importanza l'analisi delle metaideologie dello sviluppo che sostanziano quello che Olivier de Sardan definisce il "populismo sviluppista" degli attori della cooperazione internazionale. In particolare, è necessario smascherare quegli orientamenti morali o politici per cui lo sviluppo è inteso come inerente il "bene" degli altri ("paradigma altruista"), oppure inerente il "progresso tecnico ed economico" ("paradigma modernizzatore"). Entrambi questi paradigmi fondano metaideologie dello sviluppo che determinano e legittimano gli obiettivi e i comportamenti politico-morali degli agenti della cooperazione. Con queste metaideologie, vanno di pari passo quelle che Olivier de Sardan 'bolla' come infraideologie degli operatori dello sviluppo che si fondano generalmente su stereotipi. Uno di questi è, per es., l'idea che "l'Africa dei villaggi sarebbe il continente del "collettivo", il regno del consenso in cui l'individuo si fonde e si dissolve nella comunità. Questo mito tenace e largamente diffuso del "collettivismo tradizionale" perdura ancora oggi e informa spesso le azioni di aiuto allo sviluppo" (p. 60). Un altro stereotipo, opposto al primo e spesso utilizzato proprio in contrapposizione, è quello del "contadino piccolo imprenditore individuale" il cui comportamento deve quindi essere analizzato attraverso i modelli di costo-beneficio e di scelta razionale. "Sul piano generale - afferma Olivier de Sardan - la credenza che l'integrazione in una economia moderna dominata dalla logica della produttività e del profitto implichi necessariamente un profilo di imprenditore capace di abbandonare le vecchie reti di solidarietà tradizionale è ampiamente smentita dai fatti. È questa una conseguenza di quel grand partage tra società precapitaliste e capitaliste, tra economie tradizionali ed economia moderna che finisce per mascherare da teorie scientifiche le rappresentazioni correnti del Terzo Mondo" (p. 63). Di qui l'importanza della socioantropologia del cambiamento sociale che si propone come fondamentale oggetto di studio proprio le "rappresentazione degli attori stessi su tutti gli altri attori coinvolti nelle operazioni di sviluppo" (p. 63). L'obiettivo è quindi costruire una grande mappa delle rappresentazioni incrociate capace di rendere comprensibili le poste in gioco di ciascuno. L'approccio di Olivier de Sardan si rivela, quindi, metodologicamente persuasivo in quanto, da una parte, consiste nell'identificare e smantellare i costrutti meta e infraideologici, dall'altra consente di pervenire a un piano di analisi delle reali dinamiche di interazione tra gli attori dello sviluppo, che si propone come indispensabile strumento propedeutico alla valutazione degli effetti sociali di qualunque azione pianificata di modificazione di un ambiente sociale.
bibliografia
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