antropologia filosofica
Parte della filosofia che indaga le caratteristiche essenziali dell’uomo, che lo distinguono da tutti gli altri esseri.
L’a. f. ha le sue radici nella filosofia tedesca del tardo Settecento e in particolare nell’opera di Kant e di Herder. Kant distingue due tipi di antropologia: quella fisiologica, che studia l’uomo in quanto essere appartenente al mondo della natura; quella pragmatica, che si occupa dell’uomo in quanto distinto e autonomo dalla natura, cioè in quanto essere libero (cfr. Kant, Antropologia dal punto di vista pragmatico, 1798). Per parte sua Herder ravvisa il carattere specifico dell’uomo proprio nella sua debolezza: mancando di tutta una serie di istinti che regolano la vita degli altri animali, egli, proprio in tale mancanza, trova la radice della propria libertà e costruisce razionalmente e consapevolmente il proprio mondo. Nel 19° sec. Feuerbach e Marx, riprendendo l’impostazione di Kant e Herder, oltre che aspetti di quella di Hegel, concepiscono l’essenza umana come universale e attiva. Il giovane Marx, in particolare, nei Manoscritti economico-filosofici del 1844, vede nella progressiva attuazione di tale essenza la prospettiva della storia futura, che si svilupperà come un’antropologizzazione della natura, un totale dominio tecnico e collettivo dell’uomo su di essa.
La vera e propria fondazione dell’a. f. si ha nel Novecento, in particolare con Scheler, dopo che, nel corso del secolo precedente, sia l’antropologia in senso naturalistico sia il complesso delle scienze umane (specialmente l’antropologia culturale o etnologia, la linguistica, la psicologia sperimentale) erano venute frantumando secondo prospettive particolari il concetto unitario di uomo. Con Scheler e la sua opera La posizione dell’uomo nel cosmo (1928), la filosofia torna a riproporsi come necessario momento sintetico rispetto a tale dispersione disciplinare. Al dualismo cartesiano Scheler attribuisce in particolare la responsabilità di aver ostacolato il progresso della dottrina antropologica, rompendo i ponti fra la componente corporea e quella spirituale dell’uomo. Tuttavia, seppure su diverse basi, anche Scheler finisce per riapprodare al dualismo e allo spiritualismo. Fondandosi soprattutto sulle ricerche del biologo tedesco J. von Üxküll, punto di riferimento fondamentale per tutti gli autori che negli anni fra le due guerre si sono occupati di antropologia, egli sottolinea che, mentre gli animali sono limitati ad ambienti particolari, l’uomo è essenzialmente aperto al mondo nella sua globalità. Correlato di questa apertura globale è la sua capacità di costituire un mondo oggettivo e quindi di essere libero dal determinismo dell’ambiente circostante: in ciò, secondo Scheler, l’uomo manifesta la sua natura spirituale, che lo stacca da tutti gli altri esseri. In questo modo all’a. f. viene conferita di nuovo una superiorità rispetto a tutti gli studi antropologici particolari cui sopra si accennava.
L’esigenza di Scheler di superare il dualismo cartesiano viene ripresa da H. Plessner, che tuttavia dà un rilievo molto maggiore, nella sua a. f., al nesso dell’uomo con il vivente e con la sua corporeità. Nell’opera I gradi dell’organico e l’uomo. Introduzione all’antropologia filosofica (1928), Plessner parte dalla «plasticità» del vivente rispetto ai corpi inanimati, ossia dal fatto che la sua forma non è fissa e determinata, ma è sempre «in via di attuazione», in un processo dinamico di interscambio con l’ambiente. Risulta centrale allora il concetto di «posizionalità», che contraddistingue il vivente rispetto all’inorganico proprio riguardo al rapporto con l’ambiente. Mentre fra un corpo inanimato e l’ambiente il limite è un semplice e statico confine esterno (per es., i confini di un campo sono posti tra esso e i campi circostanti e non appartengono a nessuno dei due enti messi in relazione), un corpo vivente ha i suoi limiti come qualcosa di proprio e non come qualcosa che gli è imposto dall’esterno: esso «si attua» come delimitato rispetto all’esterno. Plessner definisce «posizionalità» questa relazione essenziale con i propri confini, che fa del vivente un’entità essenzialmente dialettica: un rapporto contraddittorio e dinamico di interno ed esterno. Tale rapporto diventa sempre più complesso man mano che si sale nella scala degli esseri viventi, cioè lungo «i gradi dell’organico»: se l’animale è ancora «centrico», ossia, dal punto di vista del rapporto interno-esterno, «chiuso» nella vita del proprio corpo, ma incapace di riflettere coscientemente tale posizione («L’animale esiste a partire dal suo centro, vive nel suo centro, ma non vive come centro»), l’uomo è anche «eccentrico»: ha cioè sia la «centricità» dell’animale, la consapevolezza animale del proprio corpo, sia la capacità di proiettarsi fuori di sé, nell’ambiente esterno, prendendo distanza da sé stesso, fino al punto di vedersi dal di fuori, di essere come spettatore di sé stesso. In tale eccentricità si radicano tutte le qualità che rendono l’uomo superiore all’animale: in particolare, il linguaggio e la ragione come capacità di creare concetti universali si fondano in questa condizione di vuoto in cui l’uomo viene a trovarsi, volta a volta coinvolto nel mondo che lo circonda e ritirato in sé stesso. Poiché il dentro e il fuori sono due centri fra cui l’uomo oscilla senza riuscire mai a effetttuare una sintesi definitiva, egli viene a essere caratterizzato da una drammatica scissione: riflettendo l’angosciosa situazione storico-politica dell’Europa e della Germania fra le due guerre, l’a. f. di Plessner approda, a differenza di quella di Scheler, a una visione aporetica e drammatica dell’uomo, che è strutturalmente esposto a una situazione di crisi e smarrimento permanenti. Nell’opera, scritta durante la seconda guerra mondiale, Il riso e il pianto. Una ricerca sui limiti del comportamento umano (1941), questi caratteri di drammaticità, che danno un tono nettamente esistenzialistico all’opera di Plessner, si accentuano ulteriormente.
Pur fondandosi sui risultati di Scheler e Plessner, Gehlen si riallaccia decisamente, nel suo progetto antropologico, alla linea di Herder, cioè alla sua concezione dell’uomo come essere debole e mancante, la arricchisce di nuovi concetti tratti dalla ricerca biologica e perviene a un quadro radicalmente più pessimistico rispetto agli autori che si sono fin qui esaminati. In L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo (1940), che è l’opera più sistematica che Gehlen ha dedicato all’a. f., l’uomo è visto come un «problema biologico particolare», radicalmente contraddittorio: da un lato egli è «incompiuto», carente, indefinito e di conseguenza è «l’essere che agisce», che si produce per poter sopperire a tali mancanze; dall’altro, proprio a causa di questa incompiutezza, invece di avere energie istintuali determinate e finalizzate a fini precisi, come gli animali, egli è dotato di un’energia pulsionale indeterminata e con ciò stesso costituzionalmente in eccesso. Sia l’aspetto di mancanza (in cui la lezione di Herder è evidentissima) sia quello di eccesso pulsionale comportano una essenziale precarietà e instabilità dell’uomo. Ma proprio queste carenze rappresentano la base per una via d’uscita: in quanto carente, l’uomo possiede sempre «uno ‘iato’, un’interna distanza delle pulsioni dall’azione»: congiungendo l’attivismo di Fichte alla tematica del superuomo e della trasvalutazione di tutti i valori di Nietzsche, Gehlen vede nel disciplinamento e nell’etica quei momenti di radicale costruttivismo che valgono a irregimentare l’infinità degli stimoli vitali in schemi stabili. La plasticità che caratterizza il corredo istintuale dell’uomo permette di creare tutta una serie di strumenti che portano al suo controllo: linguaggio, educazione, istituzioni sociali in generale sono quelli a cui Gehlen conferisce l’importanza maggiore, in quanto sono in grado di «selezionare» e «ridurre» l’infinità degli stimoli naturali. In tal modo, l’antropologia di Gehlen ha un esito pessimistico e fortemente autoritario: la mancanza e l’eccesso fondano la libertà dell’uomo, ma questa non può attuarsi che come radicale disciplinamento, come creazione di un ferreo apparato istituzionale a cui l’uomo deve sottomettersi.
L’a. f. di Cassirer è frutto dell’ultima parte della sua attività filosofica, ma ha i suoi presupposti nella riflessione precedente dell’autore, che è una forma originale di neokantismo, in cui la lezione di Herder, di Goethe, di Schelling e di Humboldt è fondamentale. Nella Filosofia delle forme simboliche (3° voll., 1923-29), Cassirer elabora un’articolata analisi dei vari modi di sintetizzare il materiale sensibile (modi che egli definisce «forme simboliche»), i quali sono tipici della cultura umana e segnano una discontinuità di essa rispetto al regno naturale: il linguaggio, il mito, il concetto, su cui si basa la scienza. Carattere centrale di questa concezione è la sostituzione di ogni visione sostanziale con un punto di vista prettamente funzionale: così quel che distingue la cultura umana dalla natura sono le forme simboliche in quanto modalità costruttive della conoscenza e della realtà che sono specifiche della specie umana. Da un lato, Cassirer pone uno sviluppo teleologico dalle forme simboliche più elementari a quella più complessa (la razionalità scientifica) e non mette in discussione il carattere di verità conoscitiva di quest’ultima, dall’altro, egli cerca un equilibrio fra la scienza e le altre forme simboliche, sulla strada della kantiana Critica del giudizio (➔) (1790). Un ulteriore approfondimento del tema del linguaggio, di cui Cassirer conobbe precocemente le interpretazioni strutturalistiche, e una maggiore centralità conferita all’antropologia culturale, oltreché la drammatica esperienza dell’avvento del nazismo in Germania e della seconda guerra mondiale, con il suo conseguente esilio, condussero Cassirer all’elaborazione definitiva della sua antropologia contenuta nel Saggio sull’uomo: introduzione a una filosofia della cultura (1944). In essa il tema delle forme simboliche come caratteristica specifica e distintiva dell’uomo continua a essere centrale, tuttavia la posizione di Cassirer appare più pessimistica: lo sviluppo di una razionalità sempre più dispiegata è tutt’altro che garantito, poiché la possibilità di una regressione verso forme mitico-totalitarie rimane aperta e la cultura è dunque sempre tragicamente minacciata dalla possibilità di una ricaduta nella barbarie.