Antropologia
L'antropologia (dal greco ἄνθρωπος, "uomo", e λόγος, "discorso, studio"), è, in generale, la disciplina che studia l'essere umano, considerato sia come soggetto o individuo, sia come membro di comunità. L'antropologia fisica, che si è andata distinguendo nettamente dall'antropologia culturale solo alla fine del 19° secolo, è quel settore delle scienze biologiche che studia l'uomo dal punto di vista naturalistico (come appartenente a un particolare gruppo zoologico, la specie Homo sapiens, dell'ordine dei Primati), prendendone in esame i caratteri fisici, variabili in relazione all'ambiente, all'eredità, all'età, al sesso, ai tipi costituzionali e razziali, alla distribuzione geografica, alle diverse epoche.
L'antropologia fisica è la disciplina che si occupa della storia naturale dell'uomo. Essa studia le modalità con cui la specie Homo sapiens, appartenente all'ordine dei Primati, si è evoluta a partire da forme di ominidi oggi estinte e si è diversificata in gruppi geografici, ai quali si dà il nome di razze. L'identificazione dell'antropologia come disciplina naturalistica risale a tempi piuttosto recenti rispetto a quanto si è verificato per discipline affini, in particolare la zoologia e l'anatomia comparata, delle quali essa ha adottato i metodi d'indagine. L'antropologia ha acquisito infatti dignità di disciplina autonoma nell'ambito delle facoltà scientifiche solo a partire dalla seconda metà dell'Ottocento, dapprima in Francia e poi nelle altre nazioni europee. Al suo sviluppo hanno contribuito, in tempi e misura diversi, settori di ricerca quali, in primo luogo, l'anatomia umana, la paleontologia, la genetica e, in questi ultimi anni, la biologia molecolare. Non diversamente da quanto è accaduto per le altre discipline biologiche, anche l'antropologia ha subito una radicale trasformazione nei suoi concetti fondamentali. Quello di razza, per es., ha rappresentato il nodo centrale dell'idea che della sua diversità biologica l'uomo si è costruita, adattandola all'avvicendarsi dei modelli culturali. Concepita per lungo tempo come un'entità essenziale (tipologica), la razza è intesa oggi su base nominalistica, è utilizzata cioè come un termine di pura convenienza.La storia dell'antropologia, sulla base delle periodizzazioni suggerite dagli storici delle scienze dell'uomo, può essere suddivisa in quattro fasi che abbracciano altrettanti periodi di diversa durata.
La prima - la più lunga - può essere considerata preparatoria alle indagini sull'uomo affrontate con metodi naturalistici; inizia con i filosofi greci della natura per arrivare ai philosophes del periodo illuminista alla fine del 18° secolo. In questo periodo, gli interessi degli studiosi sono rivolti soprattutto agli aspetti filosofici. L'uomo viene considerato al di sopra della natura e quindi si pone attenzione alle idee e al tipo di società che egli sviluppa, piuttosto che considerarlo come 'fenomeno' naturale. Il problema della diversità dell'uomo comincia a essere affrontato anche da un punto di vista fisico alla fine del 18° secolo, ed è quindi in questo periodo che vengono gettate le basi per una metodologia di studio di tipo naturalistico.La seconda fase è quella dell'affermazione dell'antropologia naturalistica (fisica); essa coincide con le prime indagini sistematiche sulla diversità dell'uomo. Le classificazioni che se ne traggono sono ancora su basi tipologiche: la diversità è osservata in riferimento a modelli ideali, fissi, rispetto ai quali essa è interpretata come un fenomeno accidentale. Nascono le prime società di antropologia, su iniziativa sia di scienziati sia di umanisti, che si prefiggono l'obiettivo comune di studiare la diversità tra gruppi umani quantificando le differenze, e si mettono a punto tecniche di misurazione che permettono di rendere confrontabili i risultati ottenuti dai ricercatori. È il grande momento dell'antropometria (v.).
La terza fase coincide con la rivoluzione darwiniana e porta con sé il ripensamento e il rinnovamento degli schemi mentali costruiti dall'uomo intorno alla propria natura. Ridefinita la posizione dell'essere umano alla luce della teoria dell'evoluzione, l'antropologia nell'età positivistica si libera da ipoteche di carattere metafisico, distinguendosi dalle scienze dell'uomo più attente agli aspetti morali e sociali. Abbandonato l'antropocentrismo e riconosciuta anche all'uomo una dimensione temporale, la forma umana è considerata nel grande quadro dell'evoluzione organica: la conquista della nozione dell'antichità dell'uomo permette di considerarne le 'trasformazioni', chiamando in causa i fenomeni di adattamento secondo il modello darwiniano. In questo contesto, gli aspetti paleontologici dell'antropologia vengono ad assumere un ruolo di primaria importanza per la comprensione dell'evoluzione umana, tanto da costituire i contenuti specifici sufficienti alla fondazione di una disciplina autonoma: la paleontologia umana o paleoantropologia. Questa fase di rinnovamento, caratterizzata dall'affermazione dell'antropologia nella sua dimensione naturalistica, è tuttavia contrassegnata anche dal periodo più oscuro che la nuova scienza abbia vissuto.
Nell'arco del 19° secolo e fino alla prima metà dell'attuale si assiste, infatti, a una mistificazione degli studi sulla diversità dell'uomo, in cui alla nozione di diversità fisica viene sovrapposta la concezione di una gerarchia di valori. Diversità diviene così sinonimo di disuguaglianza e l'ideologia razzista entra in scena recando con sé nefaste conseguenze.L'ultimo periodo della storia dell'antropologia si sviluppa a partire dalla metà di questo secolo, grazie alle conoscenze della genetica di popolazioni, che hanno permesso di affrontare lo studio della variabilità inter- e intrapopolazione in base a modelli teorici statistico-matematici. Questa fase, che stiamo tuttora vivendo, può essere definita la fase dell'antropologia evoluzionistica che fa ricorso in maniera pressoché esclusiva a quei settori specifici di ricerca, l'antropogenetica e l'antropologia molecolare, fondati rispettivamente sullo studio dei caratteri a variabilità genetica assoluta (le proteine) e sulla variabilità a livello del DNA.
Questa prima fase si è caratterizzata come un periodo di grande confusione nella storia degli studi sull'uomo. L'approccio è infatti prevalentemente di tipo speculativo, ma nello stesso tempo i 'filosofi della natura' cominciano a interessarsi all'uomo come fenomeno naturale, ne osservano la forma e cercano di interpretarne la diversità geografica su base ambientale.La filosofia naturalistica dell'antica Grecia culminante nella scuola ionica (6° sec. a.C.) adotta un approccio naturalistico: si cercano le cause dei fenomeni naturali e anche il fatto che l'uomo sia osservato nella sua diversità biologica e culturale rientra in questa visione.
Lo storico Erodoto (484-425 a.C.) può essere considerato il primo antropologo in senso moderno, poiché le sue osservazioni e descrizioni di caratteri antropologici 'esterni' (colore della pelle, forma del naso, tipo di capelli, statura ecc.) dei popoli che compaiono nelle sue Storie sono precise e condotte con spirito 'scientifico', e sono ancora attuali le domande che egli si pone sulla variabilità antropologica: quanto tempo è occorso perché le 'varietà' dei popoli descritti (ivi compresi i pigmei, gli etiopi, gli sciti ecc.) si sviluppassero e si diffondessero sulla terra? Il clima può essere chiamato in causa come spiegazione, oltre che della diversità delle forme, anche di quella dei costumi umani?Ippocrate (460-377 a.C.), il padre della medicina, è anch'egli alla ricerca delle cause naturali della diversità umana, ma con Platone (428 ca.-348 a.C.) e con Aristotele (384-322 a.C.) la visione del mondo si carica di significati metafisici. Gli esseri viventi sono concepiti come forme materializzate di un''idea' (tipo), un modello divino universale e, come tale, immodificabile. Questa concezione creazionista e fissista del mondo dominerà a lungo pressoché incontrastata, fino all'affermazione definitiva dell'evoluzionismo. Con Aristotele assistiamo alla fusione di osservazione scientifica e speculazione filosofica. Considerando la natura fisica dell'uomo, Aristotele ne confronta i caratteri biologici con quelli degli altri animali e costruisce così il primo sistema di classificazione zoologica; nello stesso tempo, tuttavia, in virtù della sua specifica natura 'intellettiva', l'uomo viene collocato al di sopra della natura.Lo studio dell'anatomia umana, fondamentale per lo sviluppo dell'antropologia, è introdotto da Galeno (130-200 d.C.) sulla base della dissezione di scimmie, ma è con Vesalio nel 16° secolo che si ha la prima descrizione del corpo umano basata sull'osservazione diretta. Intanto, con l'epoca delle grandi esplorazioni geografiche inaugurata dal viaggio nel Cathai di Marco Polo (13° sec.), si apre un periodo fertilissimo per le conoscenze antropologiche, anche se le descrizioni non sempre sono fedeli e accurate come quelle del veneziano.
Tra il 14° e il 18° secolo la figura dell'antropologo non è ancora ben definita e ai primi resoconti oggettivi si mescolano dati fantasiosi riportati nelle cronache di viaggio da una moltitudine eterogenea di personaggi: commercianti, marinai, capitani di ventura. Si stenta addirittura a credere che i 'selvaggi' possano far parte della stessa umanità espressa dall'europeo 'civilizzato'. Al centro del dibattito sulla diversità è la relazione tra l'aspetto fisico e il grado di civilizzazione e, ancora nella seconda metà del 18° secolo, naturalisti di grande valore, come G.-L. Leclerc de Buffon, si attengono a questa regola. Buffon, in verità, cerca di spiegare il fenomeno su base ambientalista, elaborando una teoria, che può dirsi evoluzionista ante litteram, per cui la 'razza' umana, termine da lui introdotto per designare un gruppo di individui simili morfologicamente tra loro e dissimili da quelli appartenenti a un altro gruppo, non ha un significato categorico, essendo prevista la possibilità di trasformazioni a causa dell'influenza 'culturale', oltre che fisica, dell'ambiente.
I contenuti dell'antropologia non sono ancora ben definiti; tuttavia, l'esigenza di mettere ordine nel ricchissimo ed eterogeneo materiale raccolto fino a quel momento, liberandolo dalle 'mostruosità' e dalle notizie sugli 'uomini con la coda' e sugli 'uomini scimmia' descritti dai primi esploratori dell'Africa centrale (in realtà si trattava di scimmie antropomorfe), insieme alla messa a punto di tecniche di osservazione e di misurazione dei caratteri somatici gettano le basi, nel 18° secolo, di una moderna metodologia di studio.
Alla fine del Settecento, quella dell'antropologo è comunque ancora una figura piuttosto eclettica, nel senso che l'interesse per gli aspetti più propriamente naturalistici dell'uomo è sempre connesso all'attenzione per la peculiarità della sua intelligenza. Si privilegia dunque come oggetto di studio la mente rispetto al corpo in sé, considerato soltanto una 'macchina'; tra i caratteri somatici, non a caso, si dà particolare rilievo a quelli relativi al cranio, in quanto contenitore del cervello, od organo del pensiero.
In questo contesto, il naturalista tedesco J.F. Blumenbach sperimenta, nel 1795, il metodo craniologico, basato sull'osservazione della forma cranica, che gli consente di distinguere cinque varietà. L'antropometria nasce in questa fase per soddisfare l'esigenza di quantificare la diversità grazie alla misurazione del cranio nelle sue dimensioni assolute di altezza, larghezza e lunghezza, e si rivolgerà in un secondo tempo anche allo studio dello scheletro postcraniale. A tal fine viene messo a punto lo strumentario antropometrico, un insieme di compassi atti a rilevare le dimensioni fra particolari punti di riferimento detti punti antropometrici. L'uso degli indici antropometrici, cioè dei rapporti tra dimensioni assolute, è introdotto nella pratica antropologica dall'anatomista svedese A. A. Retzius nel 1842. Mettendo in relazione la larghezza e la lunghezza massime del cranio ed esprimendo il rapporto in millesimi (oggi lo si fa in centesimi), Retzius elaborò l'indice cefalico, di larghissimo impiego nella moderna antropologia nello studio sia di resti scheletrici (indice cranico), sia di viventi.
Anche lo scheletro facciale (splancnocranio) è oggetto di misurazioni, soprattutto per valutarne lo sviluppo rispetto al neurocranio. L'angolo facciale, determinato per la prima volta dal naturalista olandese P. Camper già alla fine del Settecento, viene utilizzato per mettere in evidenza le differenze tra l'uomo e gli altri Primati (scimmie e proscimmie) e tra i differenti gruppi umani.
Nei primi anni dell'Ottocento nasce in Francia la Società degli osservatori, che può essere definita una società antropologica ante litteram. A essa aderiscono scienziati di varia estrazione, tra i quali G. Cuvier e J.-B. Lamarck, ma tutti accomunati dallo stesso interesse per l'uomo come specie, considerata in riferimento non solo alle altre specie animali (variabilità interspecifica), ma anche nella straordinaria diversità che sussiste tra gruppi umani sia nei caratteri fisici sia in quelli culturali (variabilità intraspecifica). A tale scopo si fissano norme precise per i viaggiatori, in modo che i dati antropologici raccolti sul campo (ormai quasi tutte le terre e i popoli che vi abitano sono conosciuti) siano oggettivamente confrontabili tra loro.
L'enorme quantità di materiale raccolto diventa il banco di prova per l'antropologo, che si avvia ad acquisire una sua specifica professionalità: P.-P. Broca fonda a Parigi la prima Società di antropologia (1859); anatomista di formazione, egli si dedica a osservare, misurare e catalogare il materiale antropologico, arricchendo lo strumentario antropometrico di nuovi apparecchi di misura.La misurazione del corpo umano e delle sue parti diventa il compito precipuo dell'antropologia, che così abbandona poco per volta gli aspetti etnologici della ricerca, sui quali aveva puntato molto, in Inghilterra, la Società di etnologia fondata da J. Prichard, nel cui ambito, secondo una metodologia comune alla maggior parte degli antropologi dell'epoca, più che la caratterizzazione fisica dell'uomo, si ponevano in risalto gli aspetti della diversità culturale e del grado di civilizzazione raggiunto dai vari popoli.
Sulla scia degli insegnamenti di Broca e della sua fiorente scuola, l'antropologia fisica conquista un proprio spazio, distinguendosi progressivamente dall'etnologia. A conferma di questa tendenza, dal seno della Società di etnologia londinese si distacca la Società di antropologia, marcando la separazione tra i due settori delle scienze dell'uomo, che da allora seguiranno un cammino diverso: allo sviluppo dell'antropologia contribuiranno cultori di discipline scientifiche, medici con interessi naturalistici e naturalisti in senso stretto, mentre gli studi di etnologia saranno portati avanti da studiosi di estrazione umanistica che utilizzeranno metodologie proprie per studiare le diversità tra popoli.È da ricordare infine che in questa fase l'interesse per gli studi antropologici si sviluppa anche negli Stati Uniti; qui, però, l'affermarsi della scuola di S. Morton segna una battuta d'arresto nel processo di evoluzione della nuova scienza. Morton, infatti, parte dall'assunto che la diversità umana sia un fenomeno originario: non esisterebbe un'unica specie umana in seguito diversificatasi in razze diverse, ma fin dall'inizio sarebbero state create tante specie, o tipi, o razze immodificabili. Questa concezione poligenista, peraltro già espressa nel Cinquecento da Paracelso, con Morton, e soprattutto con i suoi allievi J. Gliddon e G. Nott, si radicalizza al punto che anche Broca e la scuola francese ne adottano i principi essenziali.
Alla metà del 19° secolo si può dire che l'antropologia sia ormai una disciplina autonoma, il cui scopo specifico è quello di studiare i caratteri fisici delle razze cui si assegna il significato di 'tipo'.
a) La 'rivoluzione' darwiniana. Perché sia superata la concezione tipologica delle razze sarà necessario che C. Darwin proponga la sua teoria dell'evoluzione (1859): la diversità dell'uomo non è il risultato di un singolo o di molteplici atti creativi (monogenismo o poligenismo), ma il frutto di una serie di adattamenti ambientali che da una forma ancestrale hanno condotto, per trasformazioni divergenti, alla linea dell'uomo e a quella delle forme a lui più vicine (scimmie antropomorfe africane, scimpanzé e gorilla).
La teoria di Darwin modifica profondamente l'idea che l'uomo ha di sé e del mondo che lo circonda e l'antropologia, così come le altre scienze biologiche, subisce un radicale processo di rinnovamento. Abbandonata definitivamente la visione antropocentrica, si considera la diversità umana alla luce dei fenomeni di adattamento all'ambiente: il clima, il tipo di alimentazione, l'altitudine, le fonti di sussistenza, la natura del suolo ecc. sono di volta in volta chiamati in causa per interpretare la diversità quale fenomeno naturale.
Così, i manufatti litici, chiamati nell'antichità e fino al 18° secolo 'pietre del fulmine' (keraunia), cominciano a essere visti come testimonianze dell'attività di un'umanità 'antidiluviana' (l'epoca del diluvio universale era fissata tradizionalmente, sulla base della narrazione biblica, a 6000 anni a.C.) e l'ipotesi della presenza dell'uomo in tempi assai antichi, che era già stata sostenuta da Buffon nella sua Histoire naturelle générale et particulière, ne esce rafforzata.
Nel 1856 erano stati rinvenuti presso il fiume Neander (Düsseldorf, Germania) i resti scheletrici di un individuo, in particolare la calotta cranica. Alla luce della teoria evolutiva, questi resti vengono considerati appartenenti a un uomo fossile al quale è assegnato l'attributo specifico di neanderthalensis, riconoscendogli l'appartenenza al nostro stesso genere Homo, ma di una specie più antica e morfologicamente dissimile dal sapiens.
Da allora le ricerche paleontologiche hanno condotto alla scoperta di materiale sempre più ricco e diversificato, tra cui resti di industrie litiche di differente tecnica che testimoniano le successive tappe del cammino, culturale oltre che biologico, dell'uomo. Nel campo dell'antropologia vengono così a delinearsi due filoni di ricerca: uno più specialmente volto allo studio dell'evoluzione temporale dell'uomo attraverso le ricerche sull''uomo fossile' (paleontologia umana o paleoantropologia), l'altro allo studio della diversità 'spaziale' dell''uomo attuale' (antropologia 'razziale').
In questa fase, ancora prevalentemente descrittiva, le Società di antropologia diventano più numerose e anche in Italia l'antropologia fa il suo ingresso nelle facoltà scientifiche.
b) La nascita dell'antropologia in Italia. Il merito di aver introdotto l'antropologia naturalistica in Italia si deve a due grandi esponenti della cultura positivista della seconda metà dell'Ottocento: P. Mantegazza, a Firenze, e G. Sergi, a Roma. Pur essendo di formazione culturale diversa (il primo era medico e il secondo si era dedicato a studi di filologia, filosofia e psicologia), essi erano accomunati dall'impostazione positivista e dallo spirito fortemente critico con cui affrontarono i grandi temi della natura e delle attività sociali dell'uomo.Tra il 1860 e il 1871 l'insegnamento accademico dell'antropologia era ancora impartito presso le Facoltà di lettere e filosofia, in linea con l'approccio prevalentemente umanistico adottato al tempo negli studi sull'uomo, di cui si privilegiava la dimensione etico-filosofica rispetto a quella fisica: i corsi universitari di antropologia avevano la denominazione di 'antropologia e pedagogia' (Torino e Firenze), 'antropologia e psicologia comparata' (Milano). Nel 1869 il corso di Mantegazza a Firenze assume significativamente il titolo di 'antropologia positiva', e nel 1884 Sergi viene chiamato dalla Facoltà di scienze dell'Università di Roma a ricoprire la cattedra di 'antropologia'. Con Mantegazza e Sergi, come era già accaduto nella tradizione della scuola francese di A. de Quatrefages e di Broca, antropologia diventa sinonimo di storia naturale dell'uomo, nello spirito e con l'impostazione metodologica che quella scuola aveva introdotto. Tuttavia, grazie ai lori vasti interessi per gli aspetti non solo biologici ma anche sociali, che entrambi inquadrano in una visione darwiniana, i due studiosi considerano l'uomo in modo onnicomprensivo: l'antropologia è per loro una vera 'scienza dell'uomo'.
Per Sergi, in particolare, l'antropologia, in quanto 'consorella della zoologia', studia l'uomo come specie animale nel passato e nel presente, ma, nello stesso tempo, assorbe i contenuti di altre discipline, quali l'etnologia, la paleoantropologia, la paletnologia, ma anche la psicologia, la sociologia, la pedagogia e l'etnografia, quest'ultima considerata, in un'accezione molto personale, lo studio dei 'caratteri differenziali delle razze umane'. Questa ampiezza di interessi si riflette nelle pubblicazioni della Società romana di antropologia, fondata da Sergi nel 1893, che vengono ad aggiungersi a quelle della Società italiana di antropologia ed etnologia, fondata vent'anni prima a Firenze da Mantegazza.Nei decenni successivi, sull'esempio di Firenze e Roma, altre sedi universitarie in Italia attivano cattedre di antropologia. Alla fine del secolo, l'antropologia come disciplina universitaria è presente in tutte le nazioni europee, dove essa, senza aggettivi, è sinonimo di antropologia fisica, mentre negli Stati Uniti è in vigore la distinzione tra antropologia fisica (physical anthropology) e antropologia culturale (cultural anthropology).
c) Il periodo oscuro del 'razzismo scientifico'. Alla fine del 19° secolo, le classificazioni razziali che gli antropologi costruiscono sulla base di differenze morfologiche obiettivamente misurabili offrono il pretesto a speculazioni che snaturano il significato scientifico delle ricerche antropologiche. Anziché utilizzare i dati sistematici per analizzare il fenomeno della diversità e ricercarne le cause, si considerano le classificazioni partendo dall'assunto che la differenza razziale sia innata e immodificabile secondo una concezione tipologica chiaramente antievoluzionistica: ogni razza costituirebbe una realtà oggettiva, discretamente separata dalle altre; le razze, inoltre, differirebbero anche rispetto ai caratteri comportamentali, considerati innati come quelli fisici.
Come conseguenza di tale fede nell'innatismo, e quindi nell'ineluttabilità delle differenze biologiche e socioculturali, si afferma la credenza in una gerarchia 'naturale' delle razze umane, con razze superiori e razze 'naturalmente' inferiori.
A questo esasperato determinismo biologico è collegata, alla fine del secolo scorso, la nascita in Francia (1895) e in Germania (1899) dell'antroposociologia, movimento ideologico che utilizza i dati forniti dall'antropologia per stabilire una presunta quanto falsa gerarchia di caratteri. In particolare, in base all'indice cefalico, la categoria della dolicocefalia, che riunisce gli individui con la testa relativamente stretta e lunga, è considerata un segno di superiorità intellettiva: gli 'ariani' (i nordici alti, biondi e con gli occhi azzurri) sono dolicocefali, come lo sono gli individui appartenenti ai ceti elevati. Ne consegue che tali categorie, costruite su base razziale o anche semplicemente sociale, sono le categorie superiori, vincenti.
La contrapposizione gerarchica tra il 'bianco' e il 'nero' o il 'giallo', comune nella prospettiva eurocentrica dei secoli precedenti, non è più soddisfacente per il razzismo scientifico del 19° secolo e della prima metà del 20°; il criterio gerarchico viene ora applicato anche all'interno della categoria dei 'bianchi': i nordici, identificati nella razza 'teutonica' sull'onda del pangermanesimo che investe l'Europa occidentale e che affonda le radici nel Saggio sull'ineguaglianza delle razze umane (1853) di J.-A. de Gobineau, stanno a rappresentare la purezza del modello. Una purezza che va preservata evitando gli incroci con altre razze (eugenismo negativo) ed esaltata favorendo, all'interno della razza, gli incroci fra i 'migliori' (eugenismo positivo): tale dottrina venne significativamente battezzata in Germania 'igiene della razza'.A questa ideologia si sottrae la stragrande maggioranza degli antropologi; tuttavia, in Germania non mancano casi di scienziati di valore che accettano le regole del gioco imposte dal regime nazionalsocialista, in primo luogo gli antropologi E. Fischer e O. von Verschuer. In Italia, durante il ventennio fascista, gli antropologi di professione o gli studiosi con interessi antropologici che aderiscono all'ideologia razzista sono in genere figure marginali, ma certamente gettano delle ombre sull'antropologia italiana di quegli anni; nel 1938 fondano una rivista, intitolata La difesa della razza, allo scopo di 'volgarizzare' i principi del razzismo scientifico, esaltando l'essenza della 'romanità' e i valori della 'pura razza italica', definita in dieci punti nel Manifesto della razza (1938). Non aderisce al movimento, né firma il 'manifesto', S. Sergi, antropologo di spicco nel panorama internazionale, figlio di G. Sergi e suo successore nella cattedra dell'Università di Roma.
Il termine antropogenetica compare nella voce 'antropologia' scritta da S. Sergi per l'Enciclopedia medica italiana (1950) in riferimento agli studi di eugenica e a quelli sull'eredità mendeliana dei caratteri ereditari normali e patologici. Negli ultimi decenni questo settore dell'antropologia ha assunto un ruolo fondamentale nell'avanzamento degli studi sull'evoluzione dell'uomo, sia a livello interspecifico (uomo/altri Primati) che intraspecifico (variabilità tra popolazioni).Ai caratteri tradizionalmente utilizzati dagli antropologi per studiare la variabilità biologica (caratteri 'esterni', morfologici, morfometrici, pigmentari) si sono aggiunti i caratteri 'nascosti', ovvero le molecole proteiche. Mentre, in generale, la variabilità dei caratteri esterni, espressa da attributi o da valori numerici, è frutto dell'interazione di molti geni (caratteri poligenici) con l'ambiente, quella di ciascuna catena proteica è controllata da un singolo gene (caratteri monogenici), che, avendo subito dei cambiamenti chimici casuali, si può presentare in forme molecolari alternative nei diversi individui: si parla pertanto di polimorfismi genetici, di cui i gruppi sanguigni AB0 sono un esempio.Il vantaggio di utilizzare i caratteri monogenici consiste nel fatto che la loro variabiltà è indipendente dall'ambiente: essi sono pertanto in grado di fornire una misura oggettiva del grado di affinità tra popolazioni.
Riguardo ai caratteri esterni, invece, due popolazioni possono essere molto simili tra di loro solo in apparenza, per effetto di fattori ambientali: per es., il colore molto scuro della pelle è proprio delle popolazioni subsahariane, ma anche degli aborigeni del deserto occidentale dell'Australia e di alcune popolazioni dell'India meridionale. Due pionieri in questo genere di studi, L.L. Cavalli Sforza e A. Edwards, sulla base di decine di polimorfismi genetici, hanno scritto un'attendibile storia dell'uomo costruendo un albero filogenetico in cui molte popolazioni assumono una posizione reciproca diversa da quella loro assegnata su base morfologica e morfometrica.
Nell'ultimo decennio si è aperto un nuovo capitolo dell'antropologia, quello dell'antropologia molecolare, che studia la variabilità direttamente a livello dei polimorfismi del DNA nucleare e di quello mitocondriale, grazie a tecniche sempre più selettive. Il tasso di variabilità genetica nell'umanità rilevato a tale livello è elevatissimo: il che rende difficile, per il momento, l'interpretazione dei risultati del confronto tra popolazioni, ma riveste già ora un notevole interesse antropologico.Misurando la distanza genetica a partire dalla variabilità del DNA mitocondriale, R. Cann e A.C. Wilson sono giunti per primi alla conclusione che l'uomo nella sua forma moderna (Homo sapiens) avrebbe fatto la sua comparsa in Africa più di centomila anni fa, diversificandosi in seguito nelle grandi 'razze' geografiche: dal ramo degli africani, il più antico, si sarebbero diversificati gli europei, gli asiatici, gli australiani e le popolazioni del Pacifico. Applicati a livello interspecifico, questi studi hanno evidenziato che, nell'ambito degli Ominoidei, il gruppo che riunisce uomo e scimmie antropomorfe, l'uomo presenta una minore distanza genetica dallo scimpanzé e dal gorilla africani rispetto all'orango e ai gibboni.
Tecniche sempre più avanzate consentono attualmente di analizzare il DNA ricavato da frammenti scheletrici anche molto antichi, aprendo così all'antropologia un campo di ricerca che si delinea come uno dei più promettenti nello studio dell'evoluzione umana e che si basa sull'integrazione delle conoscenze di paleontologia umana con quelle di biologia molecolare.Due settori dell'antropologia attualmente in pieno sviluppo sono la paleopatologia e la paleodemografia, che si avvalgono delle nuove tecniche di laboratorio per lo studio di materiali di epoca antica e antichissima.
La paleopatologia (v.) si basa sullo studio di resti umani (principalmente denti e ossa) di epoca preistorica, protostorica e antica, allo scopo di evidenziare le malattie da cui l'uomo è stato colpito nel corso della sua storia. Dall'esame (macroscopico, microscopico, radiografico) di questi materiali è possibile risalire alle abitudini di vita nelle varie epoche, alle condizioni ambientali, ai traumi che si verificavano con maggior frequenza. Il tipo e il grado di usura dentaria (rilevabile per mezzo del microscopio a scansione) e i segni di paradontosi permettono, per es., di riconoscere il tipo di masticazione legato alle abitudini alimentari sviluppate in contesti paleoambientali specifici, ricostruibili con analisi di paleobotanica, paleozoologia, paleoclimatologia e della natura del terreno. Tracce di rachitismo e osteoporosi, malattie dovute a carenza di minerali o vitamine, sono anch'esse indicative del tipo di dieta. Segni di fratture, in particolare degli arti, possono dare utili informazioni sulla capacità di adattamento meccanico dello scheletro e quindi di recupero dell'individuo nelle diverse società; lo studio dei tipi di lesione traumatica, peraltro, può essere utile per ipotizzare quali attività fossero svolte in prevalenza dall'uomo antico nelle diverse fasi della sua evoluzione culturale (caccia, agricoltura, attività legate alla difesa o all'offesa).La paleodemografia si basa sull'analisi di materiale scheletrico o di denti provenienti da necropoli di età protostorica e storica, allo scopo di valutare la composizione per sesso e per età delle sepolture e di arrivare a una stima dell'evoluzione diacronica di parametri biodemografici, quali per es. il tasso di mortalità infantile, che è un indicatore biologico quanto mai significativo della condizione di salute della popolazione.
Lo studio dei rapporti tra variabili biologiche di una popolazione e variabili dell'ambiente fisico e culturale, affrontato con la metodologia e le tecniche proprie dell'antropologia, trova un'applicazione di grande rilevanza sociale nei programmi di sviluppo interdisciplinari per i paesi emergenti, permettendo di valutare correttamente tempi e modalità di intervento calibrati sulle effettive capacità fisiche degli individui. Non meno rilevante sul piano sociale è l'applicazione delle tecniche antropometriche all'ergonomia (v.), cioè allo studio delle relazioni tra l'uomo e il suo ambiente di lavoro, finalizzato allo sfruttamento ottimale degli spazi naturali e artificiali a beneficio dell'individuo e della comunità.
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