ANTROPOLOGIA
(III, p. 580; App. I, p. 127; II, I, p. 209; IV, I, p. 137)
Sistemi di verifica sempre più attendibili, grazie alla messa a punto di tecniche di laboratorio e metodologie statistiche raffinate, hanno permesso di approfondire e in alcuni casi di chiarire determinati punti, e certe posizioni assunte in passato dagli antropologi, in particolare per quanto riguarda la 'tipologia razziale', sono state criticamente riviste. Questo processo di rinnovamento ha richiesto in primo luogo l'apporto della biologia molecolare e della genetica, che, con i suoi modelli evolutivi, ha permesso di superare la fase puramente descrittiva dell'a. tradizionale, fondata sui caratteri morfologici e morfometrici che venivano utilizzati prevalentemente ai fini sistematici (classificazioni razziali).
L'interesse dell'a. si è spostato dai livelli di osservazione macroscopico e microscopico al livello delle molecole proteiche che, essendo diretta espressione dei geni, sono obiettivamente più affidabili per un'interpretazione dei meccanismi evolutivi.
L'estensione di questo tipo di indagini al livello degli acidi nucleici (DNA nucleare e mitocondriale), ha fornito di recente prove decisive su aspetti fondamentali dell'evoluzione dell'uomo.
Sebbene storicamente le prime ricerche comparate di tipo non morfologico sui primati risalgano agli inizi del secolo, è solo negli ultimi anni che gli studi in tale direzione si sono tanto sviluppati da costituire il corpo dell'a. molecolare.
Applicazione alla filogenesi. − Oltre che su base paleontologica (confronto morfometrico e datazione di forme fossili), lo studio della filogenesi dei primati viene oggi affrontato su base 'neontologica', confrontando cioè il grado di somiglianza (omologia) tra le molecole di singole proteine e di DNA in specie diverse di primati. Le differenze, prodottesi per mutazioni geniche, costituiscono il punto di partenza per misurare le distanze genetiche tra le specie; esse vengono trasformate con sufficiente precisione in ipotesi informative sul tempo di divergenza evolutiva delle specie stesse, se si ammette che le molecole mutino con ritmo evolutivo costante. In questo caso, il numero delle differenze accumulate indica da quanto tempo le specie si sono separate, differenziandosi dall'antenato comune. Le molecole vengono così a funzionare da segna-tempo evolutivo (orologio molecolare). Sebbene si discuta oggi sul valore universale dell'orologio molecolare, questa ipotesi è largamente applicata per costruire alberi filogenetici. Nel caso, infatti, di reperti paleoantropologici frammentari o di difficile datazione, o soprattutto quando manchino testimonianze paleontologiche dirette, essi permettono di formulare ipotesi filetiche ragionevolmente attendibili.
Utilizzando per il confronto tra uomo e primati non umani decine di proteine e il DNA con tecniche di giorno in giorno più selettive (fissazione del microcomplemento, radioimmunologia, elettroforesi, sequenze aminoacidiche, sequenze nucleotidiche, ibridazione del DNA, enzimi di restrizione) si sono ottenuti risultati nel complesso sovrapponibili e concordanti, in linea generale, con i dati cariologici (rimaneggiamenti cromosomici).
Per quanto riguarda la filogenesi degli Ominoidei, cioè del gruppo che riunisce l'uomo e le scimmie antropomorfe, la linea dei gibboni asiatici rappresenterebbe l'evento evolutivo più antico (12 milioni di anni); l'orango, anch'esso asiatico e già morfologicamente considerato in un'unica famiglia con lo scimpanzé e il gorilla africani, è oggi fileticamente ricollegato ai ramapiteci, gruppo di primati mio-pliocenici (14-8 milioni di anni), che prima degli anni Ottanta era invece ritenuto la base della linea evolutiva umana. I dati molecolari hanno inoltre evidenziato che l'orango si è separato dall'antenato comune 10 milioni di anni fa, mentre la linea uomo-gorilla-scimpanzé, separatasi 5 milioni di anni fa, rientra nella stessa famiglia (Ominidi). Restano ancora da definire le date di separazione all'interno della linea uomo-gorilla-scimpanzé; solo nel caso dell'uomo, la stima molecolare trova conferma paleontologica nella comparsa intorno a 4 milioni di anni fa della linea evolutiva umana (australopiteco).
Per quanto riguarda la comparsa dell'umanità attuale (Homo sapiens sapiens) la distanza genetica tra popolazioni africane e non africane, utilizzando il DNA mitocondriale, e la datazione assoluta di materiale paleoantropologico (termoluminescenza, ESR o 'risonanza elettronica di spin') permettono oggi di stabilire con ragionevole attendibilità che i moderni sapiens sono comparsi in Africa sud-orientale tra 100 e 200.000 anni fa e di ipotizzare che essi abbiano raggiunto l'Europa e l'Asia per successiva migrazione, sostituendosi ai Neandertaliani intorno a 35.000 anni fa.
Applicazioni allo studio della variabilità intraspecifica. − Essenziale è stato l'apporto dell'a. molecolare all'analisi della variabilità biologica dell'uomo. Il cambiamento radicale nel modo di affrontare questo tema centrale dell'a. ha comportato, in primo luogo, un processo di rinnovamento culturale con l'affermazione del concetto di popolazione sul dogma della 'tipologia razziale'.
All'opposto di quanto prevedeva la concezione tipologica in auge fino a tempi recenti (a. sistematica), l'innegabile ed evolutivamente efficace variabilità biologica dell'uomo è oggi riconsiderata sulla base della variabilità individuale. Nella concezione tipologica, invece, gli individui, esistendo solo in funzione del tipo, erano tipizzati razzialmente sulla base dei loro caratteri fisici 'tipici', la razza assumendo così il ruolo di una categoria sistematica discreta, naturalmente e aprioristicamente definita. Sicché la somiglianza tra razze non poteva che essere frutto di mescolanza. Questa visione essenzialista e fissista ha permeato l'a. anche quando le indagini sui caratteri fisici − che, variando in modo continuo per l'effetto additivo di più geni in combinazione con pressioni ambientali, ammettono categorie necessariamente arbitrarie in funzione dei limiti che si pone l'osservatore − furono estese ai caratteri a esclusiva componente genetica. Questi, espressione di un unico gene che però può manifestarsi nei diversi individui in forme diverse (alleli, polimorfismo genetico), variano in modo discontinuo, ammettendo tante categorie quante sono le diverse forme in cui si manifesta il gene.
L'introduzione negli anni Cinquanta dei sistemi polimorfici di gruppo sanguigno (si appartiene o a una categoria o a un'altra delle possibili) sembrò così ovviare all'inconveniente della soggettività; tali variabili furono considerate pertanto ottimali per classificare l'umanità in razze. Tuttavia, la progressiva identificazione di centinaia di polimorfismi (circa il 40% dei geni nell'uomo è polimorfico), ha reso sempre più evidente l'inesistenza di quadri tipici di variabilità razziale. Più del 90% della variabilità genetica è infatti indipendente dalla razza: utilizzando la classificazione tripartita tradizionale, la probabilità che un Bianco sia geneticamente più simile a un altro Bianco piuttosto che a un Nero o a un Giallo è molto bassa. Una riprova è che gli alberi filogenetici costruiti utilizzando sets differenti di polimorfismi non concordano né tra loro, né con quelli costruiti su base morfologica, come ci si sarebbe aspettati ammettendo la realtà di 'tipi razziali'. Pertanto, più largo impiego trovano nell'a. evoluzionistica le mappe geografiche di distribuzione di variabili biologiche considerate singolarmente (analisi univariata) o in combinazione multipla (analisi multivariata). Esse orientano verso una interpretazione della variabilità interpopolazione sulla base di tendenze clinali (distribuzione secondo gradienti geografici), sganciate da presunzioni tipologiche. Molti polimorfismi presentano una tendenza clinale nel senso della longitudine o della latitudine; tuttavia, al momento, non essendo stato chiarito il loro significato biologico (cioè che significato ha per l'individuo che il polimorfismo si manifesti con una, piuttosto che con un'altra, delle sue forme possibili), tali andamenti di distribuzione sono solo indicativi.
È stato chiarito il meccanismo adattivo del polimorfismo proteico Gc (Group specific component o Vitamin D binding protein). Questa proteina sierica trasporta in circolo la vitamina D3 indispensabile per regolare il metabolismo fosfo-calcico (tessuto osseo). La sua forma Gc2, funzionalmente più attiva, si distribuisce secondo un cline sud-nord; alle alte latitudini, la quantità di irradiazione solare media annuale minore e la pigmentazione cutanea meno intensa, richiedono un metabolismo più attivo e quindi, indirettamente, i portatori della variante Gc2 risulterebbero favoriti. Anche la mappa di distribuzione della talassemia, dell'enzimopenia G6PD e dell'emoglobina S risulta correlata con la latitudine e anche con la distribuzione della malaria. Recentemente, però, il quadro di distribuzione dell'enzimopenia G6PD e dell'emoglobina S si è complicato, in quanto si è dimostrata l'estrema variabilità del polimorfismo G6PD, con numerosissime varianti tipologiche ad attività normale o più o meno ridotta in differenti aree geografiche, e l'origine policentrica della mutazione S.
Mappe geografiche costruite applicando l'analisi delle componenti principali, l'analisi delle corrispondenze, la trend-surface analysis, sono oggi disponibili per valutare in termini evoluzionistici la variabilità di caratteri somatometrici e dei dermatoglifi (figure irreversibili delle creste cutanee che ogni individuo presenta sul polpastrello delle dita e sulle superfici palmare e plantare). La statura, il peso, il rapporto volume/superficie corporea (indice ponderale), la proporzione degli arti, la pigmentazione cutanea, la forma del naso (indice nasale), la forma della faccia (indice facciale), la forma della testa (indice cefalico) risultano correlati con la latitudine e con gli elementi climatici, mentre la distribuzione del numero totale delle creste digitali risulta piuttosto seguire un cline est-ovest. L'analisi delle componenti principali, utilizzando numerosi polimorfismi genetici compreso il sistema HLA altamente polimorfico, ha messo in evidenza, in Europa (v. fig.), un'analoga tendenza clinale, interpretata sulla base di intensi flussi migratori nel passato dal Vicino Oriente.
La costruzione di mappe sintetiche, combinando frequenze geniche, dati linguistici, dati archeologici e applicando modelli matematici molto complessi, ha di recente introdotto una metodologia di studio molto produttiva, fornendo preziose informazioni sulle vicende del popolamento in tempi preistorici e protostorici di aree nodali per l'insorgere delle civiltà e permettendo di inferire su quanto, in questo processo, abbia influito l'intensità delle migrazioni (diffusione demica, flusso genico) e quanto piuttosto la diffusione della cultura (trasmissione delle idee).
La variabilità intrapopolazione è un altro tema centrale che l'a. affronta sfruttando in larga misura le frequenze geniche considera te in rapporto a parametri demografici (dimensione della popola zione, composizione della popolazione, matrice di migrazione, consanguineità) al fine di analizzare la struttura della popolazione e ricostruire la sua storia biologica anche in rapporto a fenomeni stocastici (deriva genica). Questo quadro si completa con indagini paleobiologiche (paleodemografia, paleopatologia) condotte su popolazioni scheletriche del passato le quali permettono di valutare la natura dei processi morbosi e l'entità dell'impatto bioculturale sui fenomeni microevolutivi.
All'analisi del rapporto variabili biologiche/variabili ambientali è collegato uno degli aspetti più rilevanti e attuali delle applicazioni dell'antropologia. Nei programmi di assistenza sviluppati nei paesi emergenti, i dati campione standard per esprimere giudizi obiettivi di 'normalità' delle variabili biologiche sono integrati con i dati biologico-sanitari e socio-culturali, dal momento che l'approccio olistico si è dimostrato l'unico metodo valido per comprendere le interrelazioni che legano l'individuo alla comunità. La sintesi che ne risulta fornisce un quadro globale della variabilità che permette di intervenire ai diversi livelli con tempi e modalità calibrati alle effettive capacità fisiche degli individui, in rapporto ai parametri della popolazione.
Un'altra applicazione pratica dell'a. di grande interesse sociale è lo studio delle relazioni tra l'individuo e il suo ambiente di lavoro, cioè l'ergonomia (v. App. IV, i, p. 719), comprendendovi anche lo sfruttamento più idoneo degli spazi naturali e artificiali (prossemica) ai fini del benessere individuale e collettivo.
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