Anziani
Il problema degli anziani - sorto nei termini moderni solo all'inizio del XX secolo, quando negli Stati Uniti furono pubblicati i primi lavori di 'geriatria' aventi per tema lo studio biomedico e sociale della vecchiaia - può essere esaminato da un duplice punto di vista: quello legato all'invecchiamento individuale, dovuto al progressivo deterioramento organico fino alla senescenza, e quello legato all'invecchiamento della popolazione, conseguenza dell'aumento progressivo e sensibile dell'età media degli abitanti di un territorio. È solo a questo secondo aspetto che ci si riferisce in questo articolo.Da un punto di vista demografico l'invecchiamento di una popolazione consiste nell'incremento sia del numero delle persone anziane, sia della loro proporzione nei confronti degli altri gruppi di età. Pertanto il principale indicatore dell'invecchiamento è costituito dalla variazione, sia assoluta sia proporzionale, dei gruppi di età più anziani all'interno di una popolazione. In accordo con il criterio stabilito all'Assemblea mondiale sull'invecchiamento, tenuta a Vienna dalle Nazioni Unite nel 1982, si definisce come popolazione anziana, in prima approssimazione, quella composta dalle persone con 60 o più anni.
L'invecchiamento della popolazione costituisce per le popolazioni delle società occidentali il fenomeno demografico di maggior rilievo della fine del XX secolo, e ancora di più lo sarà nei primi decenni del XXI, tanto le sue conseguenze sono molteplici, diversificate, incisive e diffuse: tutti i comportamenti - demografici, sociali, economici, politici, culturali - e tutti i bisogni, infatti, cambiano fortemente con il variare dell'età dell'individuo. Questo fenomeno demografico, in base al quale la quota di ultrasessantenni in una popolazione contemporanea potrebbe passare in pochissimi decenni dal 10 fino al 45% e quella degli ultraottantenni dall'1 fino al 10%, è senza precedenti storici ed è decisamente rivoluzionario perché altera in misura straordinaria equilibri millenari. Esso rimette infatti in discussione la struttura economica, l'organizzazione sociale, la visione della vita e del ciclo della vita, il sistema di relazioni interpersonali e intergenerazionali, e appare non meno sconvolgente della rivoluzione tecnologica in atto e dell'annunciata rivoluzione biologica.
La distribuzione per età di una popolazione dipende dalle tendenze passate e attuali della fecondità e della mortalità e, quando sono rilevanti nella vita di una popolazione, dalle migrazioni.La grande trasformazione demografica è in atto in Occidente da un periodo relativamente breve di tempo: in un secolo circa si è triplicata la durata media della vita e si è ridotta a un terzo, e anche meno, la fecondità. Il controllo sempre più efficace su nascita e morte ha provocato una straordinaria rarefazione di questi due eventi fondamentali nella vita di una popolazione.
Tralasciando queste considerazioni, per quel che riguarda l'invecchiamento c'è da evidenziare che la relativamente alta natalità di sessanta e più anni fa, associata con la formidabile riduzione delle malattie infettive e parassitarie e della mortalità infantile e materna e con la migliorata nutrizione, ha determinato un fortissimo accrescimento del numero di coloro che arrivano alle età anziane e vecchie, anche come conseguenza dei generalizzati miglioramenti nei servizi sanitari pubblici e privati, nell'istruzione e nei redditi.
Il peso proporzionale di questa fascia di età rispetto a tutta la compagine demografica dipende invece soprattutto dalla variazione delle nascite che alimentano la parte bassa della piramide delle età.
L'invecchiamento perciò è in funzione di due velocità: quella con cui cresce il numero dei vecchi e quella con cui decresce il numero dei giovani. Occorre quindi sottolineare che, essendo importanti sia il livello di invecchiamento raggiunto da una popolazione, sia la velocità con cui esso si modifica, si può avere una velocità di invecchiamento crescente, o che rallenta poco la sua crescita, anche in presenza di un ridotto tasso di aumento del numero delle persone anziane e vecchie. Il tutto può poi combinarsi in maniera ancora diversa se vi sono nella struttura per età di una popolazione profonde alterazioni dovute a importanti o eccezionali eventi demografici del passato, fra i quali possono essere annoverate le guerre e forti e prolungate migrazioni.In letteratura è spesso fatta una distinzione fra le due principali cause di invecchiamento. Un calo più o meno accentuato della crescita della popolazione in età giovanile, dovuto principalmente a un calo della fecondità o delle nascite, provoca un 'invecchiamento alla base' della piramide delle età: è stato questo il fattore che finora ha agito più intensamente. Un'accelerazione della crescita della popolazione in età anziana e senile - che è generalmente il frutto di una discesa della mortalità delle età anziane più intensa di quella relativa alle età giovani - provoca invece un 'invecchiamento alla parte alta'.
La parte bassa della piramide delle età, alimentata da un flusso di nascite che si riduce anno dopo anno, va assumendo in tutti i paesi occidentali la forma di un fuso. Bambini e ragazzi vanno rarefacendosi in una misura assolutamente imprevedibile, né pare che questa discesa debba fermarsi in un futuro più o meno prossimo.Nei paesi in via di sviluppo, invece, la discesa della fecondità, pure sensibile, non ha ancora ridotto in maniera drastica le nascite, che anzi continuano a crescere in valore assoluto per la grande massa di persone che si trovano in età feconda.In Italia la denatalità ha superato largamente quella di paesi tradizionalmente a bassa o bassissima fecondità come Francia e Svezia (v. tab. I). L'ultimo dato disponibile per l'Italia, per il 1987, porta il numero medio di figli per donna al livello di 1,3 figli; è un valore inferiore del 35% al livello di sostituzione, cioè a 2 figli per donna i quali, sostituendo numericamente i genitori, assicurano la crescita zero della popolazione. In cifre assolute il flusso annuale di nati vivi è stato in Italia pari a circa 1 milione lungo quasi tutto un secolo; a partire dal 1974 la discesa si è accentuata e attualmente una generazione è composta da poco più di 550 mila nati.Con una fecondità così bassa, il processo di invecchiamento è accelerato; può perciò mettersi in moto un circolo vizioso che si autoalimenta, fra invecchiamento della popolazione e declino demografico dovuto a bassa natalità e alta mortalità, e ciò potrebbe portare per alcune specifiche sub-popolazioni addirittura alla loro scomparsa.
Ricerche sulle 'aree di malessere demografico' italiane lasciano già chiaramente vedere che, se in una certa popolazione, a una certa data, si registra bassa o bassissima fecondità e la percentuale di ultrasessantenni è superiore al 30%, ci si può aspettare con quasi assoluta certezza nel decennio successivo un saldo naturale (differenza fra nascite e morti) medio annuo inferiore a 1%. Questo decremento altera ulteriormente la struttura per età portando a valori ancora più fortemente negativi di incremento naturale e così via, in un circolo vizioso che conduce interi comprensori di comuni a una percentuale di persone con più di 60 anni dell'ordine del 40%, e a un rapporto fra nascite e morti dell'ordine di 1 a 4 o addirittura di 1 a 6.
Quali scenari si possono disegnare per il futuro della fecondità? È certamente difficilissimo rispondere. Da un lato infatti le spinte culturali, sociali, psicologiche che hanno portato all'attuale livello di denatalità potrebbero ulteriormente rafforzarsi, e potrebbero trovare nella maggiore disponibilità e diffusione di anticoncezionali economici, facili, sicuri e di lunga azione un altro elemento per manifestarsi pienamente; sarebbe così possibile eliminare del tutto anche quella piccola o piccolissima quota residua di nascite non pianificate. Probabilmente anche la possibilità, che si prospetta su un orizzonte non lontano, di scegliere il sesso del nascituro potrebbe favorire un'ulteriore discesa della fecondità.
Da un altro lato, invece, questa così forte discesa che porta a un'intensa diminuzione della popolazione potrebbe indurre una sorta di 'allarme sociale', in particolare quando in una popolazione si cominciassero ad avere per lunghi periodi 3-5 morti per ogni nascita. Si potrebbe perciò determinare nei confronti della fortissima denatalità una forma di reazione individuale e di coppia, favorita anche dal forte allentamento della pressione che a quel punto si sarebbe verificato sul mercato del lavoro e dalla dimensione della popolazione indiscutibilmente minore di quella precedente.
Questa forma di reazione potrebbe pure trovare incentivi e spinte in una politica sociale che, scegliendo come obiettivo il ritorno a una popolazione stazionaria o quasi, rivalutasse anche dal punto di vista della società e della collettività il valore della nascita ed eliminasse le penalizzazioni oggi esistenti per chi desidera avere un figlio o un figlio in più. La sensazione è che questo scenario, che prevede la modifica radicale di troppi e difficili fattori, abbia minori probabilità di verificarsi almeno nel breve e medio periodo, e che il processo di invecchiamento non sarà rallentato per questa via.
Ancora al 1881 la vita media era in Italia di 35 anni, tanto per gli uomini quanto per le donne, e non più del 33% di una generazione riusciva a toccare i 60 anni e il 6-7% gli 80. Dopo un secolo la durata media della vita ha toccato in Italia i 74 anni (71 per gli uomini e 78 per le donne): valori molto simili si osservano nella maggior parte dei paesi più evoluti, mentre per i paesi in via di sviluppo il distacco è ancora molto sensibile (v. tab. II).
L'esame dell'evoluzione del numero di donne sopravviventi ai 60 e agli 80 anni di età dimostra chiaramente quanto importanti siano stati i guadagni di sopravvivenza che si sono avuti in pochi decenni (si fa riferimento alla popolazione femminile per la maggiore sopravvivenza che la caratterizza). Ancora per la generazione di donne nate nel 1870, quelle sopravviventi a 60 anni, nel 1930, erano il 35%; poi questa proporzione è continuamente salita fino al 62% della generazione nata nel 1919. Ci si aspetta che la proporzione di donne che sono riuscite a toccare gli 80 anni salga dal 12% della generazione del 1870 al 27% per quella nata nel 1919: una proporzione che è cresciuta di un rapporto da 1 a 2,25 nel giro di soli 49 anni. Infatti è proprio la popolazione con 80 anni e più il segmento che in tutto il mondo sviluppato è cresciuto di gran lunga più in fretta rispetto a tutti gli altri.
Che il 90% delle generazioni femminili arrivi a toccare il traguardo dei 60 anni sembra, alla luce dell'esperienza storica, abbastanza sicuro. La domanda più rilevante diventa allora quando questo potrà accadere, se più in fretta - e quindi già con la generazione di donne nate nel 1940 - o più lentamente con la generazione nata nel 1960.
Altrettanto sicuro sembra che il 50% delle generazioni femminili arrivi a toccare il traguardo degli 80 anni; questo potrebbe aversi già con le generazioni nate nel 1935-1940, mentre le generazioni nate nel 1960 potrebbero arrivarci addirittura nella misura del 60%.Tuttavia, ai fini della piena valutazione della portata futura del grado e della velocità dell'invecchiamento della popolazione, quello che sembra fondamentale è sapere se il numero di sopravviventi a 80 anni di una generazione riuscirà a raggiungere la quota del 70-80%, e se la vita media residua a 80 anni riuscirà a toccare i 10-15 anni (attualmente nelle tavole per contemporanei il valore per le femmine è di 7,4).
Nelle condizioni psicofisiche in cui si vengono a trovare i grandi anziani al giorno d'oggi, il raggiungimento di questi due traguardi creerebbe numerosi problemi di enorme portata in tutte le società avanzate. Alla luce delle cognizioni attuali e dopo le rettifiche di Bourgeois-Pichat (v., 1978) ai limiti biologici della vita media, da lui rivalutata fino a 73,8 anni per i maschi e 80,3 anni per le femmine, si ritiene da parte di alcuni demografi (i biologi hanno differenti criteri e metri di valutazione e di giudizio e si spingono ben più in là nelle stime) che la vita media possa arrivare agli 80-90 anni e quindi che la proporzione dei sopravviventi a 80 anni possa per l'appunto arrivare al 70-80% o addirittura al 92%. Tutto ciò in attesa che la ricerca in campo biologico e medico arrivi a controllare i processi degenerativi dell'invecchiamento e a mantenere al massimo livello possibile l'integrità o, quanto meno, l'autonomia psicofisica degli individui. Ove e quando ciò avvenisse, la vita media potrebbe superare largamente i 100 anni e le vicende dell'invecchiamento dell'individuo e della popolazione sarebbero tutte da ristudiare da cima a fondo. Uno degli aspetti più interessanti e più importanti dell'andamento della mortalità riguarda le differenze fra i due sessi. Gli uomini sono caratterizzati a tutte le età della vita da un'accentuata supermortalità, che si va accrescendo nel tempo via via che la mortalità per le malattie infettive e parassitarie diminuisce e aumenta invece quella dovuta ai tumori e alle malattie cardiocircolatorie, verso le quali le donne hanno una sorta di 'protezione' le cui cause sono in larga parte sconosciute; le differenze di mortalità si sono perciò particolarmente allargate proprio nelle età anziane e senili, nelle quali si ritrova quindi una larga eccedenza di donne, che aumenta al crescere dell'età. In tutte le società sviluppate le donne vivono in media più a lungo degli uomini: la durata media della vita femminile eccede quella maschile di oltre 8 anni in Francia, Finlandia e URSS, e di 6-7 anni in quasi tutti gli altri paesi europei (Italia compresa) e in Nordamerica (v. tab. II). Nei paesi in via di sviluppo la differenza è normalmente minore e si aggira sui 3-6 anni.
La classificazione della popolazione anziana è spesso stata, e in molti casi lo è ancora, approssimativa o comunque eccessivamente sintetica. Anche nei paesi statisticamente evoluti, e per molto tempo, in molte classificazioni della popolazione per classi di età si è riunita la popolazione anziana e vecchia in un unico gruppo, adottando - come ultima classe - la classe '60 anni e più' o quella '65 anni e più'.
La ragione storica sta nel fatto che, per economia di elaborazione dei dati e di spazio nella pubblicazione delle tabelle, si chiudeva la classificazione per età là dove il numero di abitanti scemava rapidamente fino a ridursi a una quantità molto ridotta e ritenuta perciò trascurabile tanto dal punto di vista demografico, quanto da quello sociale, economico e sanitario. Si consideri al riguardo la situazione della popolazione italiana, riportata a calcolo, per ragioni di comparabilità, agli attuali confini.
Al primo censimento, subito dopo l'Unità, il numero degli ultrasessantenni era pari a poco più del 6% della popolazione e solo una persona su 263 aveva 80 anni o più; nel 1951 la proporzione degli ultrasessantenni era salita al 12%, e infine quasi al 20% nel 1987, quando una persona su 35 aveva 80 anni o più. Il fenomeno di una presenza numericamente consistente e territorialmente diffusa degli anziani e dei vecchi è perciò abbastanza recente.
La crescita numerica è servita a far emergere l'ovvia constatazione che la popolazione anziana è, facendo riferimento alle sue caratteristiche, tutt'altro che omogenea all'interno della classe '60 anni e più'. Essa infatti include sia gli anziani, che in generale sono ancora indipendenti, attivi e in buone condizioni di salute, sia i vecchi e i molto vecchi che sono spesso completamente dipendenti dagli altri, incapaci di badare a loro stessi e in precarie o cattive condizioni di salute. È necessario perciò tenere in considerazione e analizzare non soltanto l'ammontare della popolazione anziana, la sua proporzione sul totale e le sue variazioni nei confronti degli altri gruppi di età, ma anche la dinamica dell'ammontare e della proporzione dei vari gruppi di età all'interno della grande classe degli anziani e dei vecchi.Le due soglie di età ritenute significative sono i 60 anni e gli 80, ed è a queste età che normalmente si fa riferimento adottando o una classificazione sintetica basata su due classi di età: 60 anni e più 80 anni e più;o, meglio, una analitica basata su classi quinquennali o decennali: 60-64 anni oppure 60-69 anni 65-69 anni 70-79 anni 70-74 anni 80 anni e più 75-79 anni 80 anni e più.
Nell'ultimo caso si può parlare di anziani per la prima classe di età (60-69 anni), di vecchi per la seconda e di molto vecchi (o grandi vecchi, oldest old, nella letteratura americana) per la terza.
Dal punto di vista formale c'è da sottolineare come la classificazione non sia standardizzata né in sede internazionale né in sede nazionale. Molti paesi, per individuare la popolazione anziana, usano la soglia dei 65 anni, collegandola all'età del pensionamento, e collocano poi la seconda soglia ai 75 anni (così viene fatto, ad esempio, dall'ISTAT per la classificazione della popolazione dei singoli comuni italiani); in altri casi, spesso negli Stati Uniti, la soglia degli oldest old viene collocata a 85 anni.
Questa confusione formale in tema di classificazione fa riferimento a una mancata definizione sostanziale dell'età alla quale in media una persona può essere considerata anziana o di quella alla quale può essere considerata vecchia.
Ma una definizione sostanziale di questa natura, che dovrebbe basarsi sui dati biofisiologici della variazione media, dovuta all'età, delle capacità e dell'autonomia psicofisiche, è straordinariamente difficile se non impossibile da dare. È troppo legata infatti alle condizioni ambientali e alla storia passata e presente, comprese le abitudini di vita, delle generazioni che si trovano a convivere in una stessa popolazione. Dovrebbe essere comunque una definizione dinamica, giacché i parametri funzionali sembrano essere variabili con il tempo.Per tener conto di questa variabilità temporale, si è proposta una definizione basata su metodi biostatistici, che considera vecchia la popolazione che può aspettarsi di vivere in media ulteriori n anni. La considerazione di base è che sarebbero, in ogni caso e per tutti, n gli anni lungo i quali agirebbe la 'capacità biologica' di resistere alla mortalità. Secondo tale criterio e scegliendo per esempio n = 10, dovrebbe essere considerata vecchia la popolazione del 1901 che aveva 66 anni o più, giacché a quell'epoca tanto i maschi quanto le femmine potevano, arrivati a 66 anni, aspettarsi di vivere ulteriori 10 anni di vita.
Nel 1981 dovrebbero invece considerarsi vecchie, in base a questo criterio, la popolazione maschile con 71 anni o più e la popolazione femminile con 75 anni o più (età alle quali maschi e femmine rispettivamente avevano una aspettativa di vita di ulteriori 10 anni; la differenza è dovuta al fatto che la vita media si è allungata in maniera molto differenziata per gli uomini e per le donne). Nell'ambito di tale logica è stato proposto alternativamente di considerare vecchia la popolazione che ha già raggiunto o superato la vita media. Al momento questo tipo di criteri, pure interessanti, non ha trovato molto seguito per la difficoltà di scegliere un valore n adeguato per tutte le epoche e le popolazioni e di avere poi statistiche sufficientemente dettagliate.
Le prime ovvie misure fanno riferimento alla quantità assoluta di persone anziane presenti in una popolazione e alla velocità della sua crescita - esaminata magari in relazione alla crescita degli altri segmenti di popolazione -, crescita che a sua volta può essere vista in termini assoluti (incremento assoluto medio annuo) e in termini relativi (tasso di incremento medio annuo).
Le misure relative, o indicatori dell'invecchiamento, fanno riferimento a una serie di rapporti fra i quali i più usati sono: a) la percentuale di popolazione con 60 (o 65) anni e più sul totale della popolazione; b) la percentuale di popolazione con 80 anni e più; c) la percentuale dei molto vecchi sul totale degli anziani (popolazione con 80 e più anni rispetto a 60, o 65, e più); d) il rapporto, moltiplicato per cento, fra popolazione con più di 65 (o 60) anni e popolazione con meno di 15 anni (rapporto usualmente chiamato 'indice di vecchiaia'); e) il rapporto, moltiplicato per cento, fra popolazione con più di 60 (o 65) anni e popolazione in età compresa fra 20 e 59 (o 64) anni (rapporto usualmente chiamato 'indice di dipendenza della popolazione anziana').
I valori riportati nelle tabb. III, IV, V danno conto della dinamica dell'invecchiamento della popolazione italiana dopo l'Unità, con prospettive fino ai primi due decenni del XXI secolo; nelle tabelle sono anche contenuti, al fine di chiarire meglio il loro significato, le misure e gli indicatori dell'invecchiamento citati prima.La grande svolta dell'invecchiamento si è avuta in questo secolo, e in particolare dopo la seconda guerra mondiale. Fino a tutto il 1901, infatti, poco meno della metà della popolazione era costituita da persone con meno di 20 anni; nel 1861 gli ultrasessantenni erano meno del 7% e gli ultraottantenni solo lo 0,4% (una persona su 263) e il rapporto fra persone con meno di 20 anni e persone con 60 anni o più era di circa 7 a 1. Non era molto dissimile la situazione agli inizi del XX secolo, perché la velocità di incremento della popolazione anziana e vecchia, pur essendo molto maggiore di quella degli altri segmenti della popolazione (v. la seconda parte della tab. IV), era applicata a numeri piccoli e dava perciò luogo a modesti incrementi assoluti sia per la popolazione vecchia (circa 40.000 persone all'anno) sia, e ancora di più, per quella molto vecchia (da 2 a 6.000 persone l'anno fino a tutto il 1951). È però all'alta velocità di incremento, e non al modesto aumento assoluto, che nei primi decenni del secolo si guardò, molto opportunamente e con grande lungimiranza, per impostare e attuare la riforma del sistema previdenziale italiano e per l'assicurazione obbligatoria di vecchiaia.
Negli ultimi vent'anni, durante i quali ogni tre anni di calendario si è avuto un incremento di un anno nella durata media della vita, e in particolare dopo il 1974 (data di inizio del grande declino della fecondità italiana) il fenomeno dell'invecchiamento è diventato manifesto in tutta la sua portata. Nel periodo 1981-1987 la popolazione con meno di vent'anni è diminuita di 337.000 unità ogni anno e gli ultrasessantenni sono invece aumentati, ogni anno, di 218.000 unità.
Gli ultraottantenni sono invece aumentati nella misura di 60.000 all'anno, laddove l'incremento annuo, lungo tutti i novant'anni che vanno dal 1861 al 1951, era stato di 4.500 persone. Non meno intensi saranno nel decennio successivo la velocità di crescita - fortissima e tale da comportare un raddoppio della popolazione molto vecchia ogni 16 anni - e l'incremento assoluto, che toccherà le 82.000 persone all'anno. Per il 2017 una persona su quattro di tutta la popolazione anziana sarà ultraottantenne.Nel futuro più lontano, poi, la crescita degli ultrasessantenni e degli ultraottantenni sarà rallentata in termini assoluti e relativi, ma si troverà a convivere con una scontata diminuzione del resto della popolazione. Fra il 1997 e il 2017 gli ultrasessantenni dovrebbero accrescersi annualmente di 112.000 persone, ma tutto il resto della popolazione (quella con meno di 60 anni), nell'ipotesi di fecondità costante e quindi nemmeno la più pessimistica, dovrebbe calare di 317.000 unità. Crescerà quindi molto sensibilmente il peso relativo della popolazione anziana e vecchia sul resto della popolazione, e questo è riscontrabile tanto nell'indice di vecchiaia, quanto nell'indice di dipendenza degli anziani dalla popolazione in età lavorativa (v. tab. V).
L'accentuarsi nel tempo della supermortalità maschile fa sì che la popolazione anziana sia sempre di più una popolazione composta prevalentemente di donne. Negli anni recenti le donne rappresentano il 58% del totale fra gli ultrasessantenni; fra gli ultraottantenni due su tre sono donne, ammontando (1987) queste ultime a 1.083.000 e gli uomini a 524.000.
L'andamento temporale e le differenze territoriali della popolazione anziana e vecchia e dei processi di invecchiamento nel mondo sono bene evidenti nelle tabb. VI, VII, VIII, IX, per cui ci si limita qui a sottolineare qualche punto.Il problema dell'invecchiamento è, almeno per ora, un problema del mondo sviluppato. I paesi a sviluppo avanzato (PSA) avevano al 1985 il 24% della popolazione mondiale, ma il 44% degli ultrasessantenni (186 milioni su 427) e il 61% degli ultraottantenni (25,3 milioni su 41,7). Sul totale della popolazione, gli ultrasessantenni rappresentavano nel 1985 il 15,8% nei PSA contro il 6,6% dei paesi in via di sviluppo (PVS), con un rapporto perciò di 2,4 a 1; gli ultraottantenni rappresentavano invece il 2,2% nei PSA e lo 0,4% nei PVS con un rapporto di 5,5 a 1.
Se nei PVS il problema è attualmente piccolo, c'è da dire che esso tende però a crescere a velocità fortissima, maggiore che nei PSA. Nei primi infatti gli ultrasessantenni dovrebbero passare fra il 1985 e il 2025 da 241 a 703 milioni, con un incremento del 192%; nei secondi invece dovrebbero passare da 186 a 308 milioni, con un incremento del 66%. Il fatto è che l'invecchiamento cresce assai rapidamente, con fortissimi picchi transizionali, quando tutto il processo di transizione demografica si compie in tempi brevi o brevissimi, come sta accadendo in diversi paesi in via di sviluppo.
Fra i paesi sviluppati la Svezia è attualmente il più 'vecchio', con il 23% di ultrasessantenni e il 3,5 di ultraottantenni. Il Giappone è, d'altra parte, il paese che 'invecchierà' con la maggiore velocità: la proporzione di ultrasessantenni, pari al 14% nel 1985, dovrebbe divenire pari al 28% per il 2020.
Fra i grandi paesi l'Italia si colloca ai primi posti per la percentuale di popolazione anziana e vecchia, con gli ultrasessantenni pari al 18,7 e gli ultraottantenni pari al 2,7 (1985): sono percentuali che superano in entrambi i casi quelle rispettive del complesso dei PSA e che tendono a crescere molto in fretta, con velocità inferiore solo a quella giapponese. Nei paesi a sviluppo avanzato c'era 1 persona su 9 con sessant'anni o più nel 1950 e dovrebbe essercene 1 su 4 nel 2020; 1 persona su 100 con ottanta anni o più nel 1950 e 1 su 27 nel 2020. Una rivoluzione di straordinaria portata consumata nel giro di soli settant'anni.
Grandi, anzi grandissime, sono nei paesi sviluppati le differenze territoriali nell'invecchiamento della popolazione, con aree che hanno, come percentuale, meno del 6% di ultrasessantenni e aree che ne hanno più del 23. C'è in Europa una fascia di fortissimo invecchiamento che corre dal Nord al Sud, dalla Svezia all'Italia, lungo un semicerchio che inizia nella parte centromeridionale della Svezia e della Norvegia, passa per la parte centromeridionale del Regno Unito, per quella meridionale della Francia e per quella centrale della penisola iberica, per terminare in Italia in alcune province liguri e piemontesi. È il gioco di tutta la demografia del passato - nascite, morti, urbanizzazione, spopolamento rurale e montano, migrazioni internazionali - che si combina variamente nei diversi paesi europei per dar luogo alla situazione attuale.
Questi fattori entrano più che mai in gioco in Italia, dove le vicende demografiche hanno una straordinaria caratterizzazione territoriale. Essi hanno dato luogo a differenze profondissime, che sono fra le più forti del mondo e che non si riscontrano nemmeno in minima parte in paesi come il Canada, per fare un solo esempio, nei quali lo sviluppo economico e quello demografico sono stati molto meno eterogenei.
Le differenze territoriali si riscontrano a tutti i livelli. La percentuale di popolazione con 60 e più anni presenta al 1988 uno scarto di 4,6 punti fra Centro-nord (21,2) e Mezzogiorno (16,4), scarto che tende a dilatarsi fortemente con il passar del tempo: nell'ipotesi di fecondità costante tale divario arriva a 7,2 punti nel 1998 e a 12 punti nel 2018. A quell'epoca potrebbe essere anziano o vecchio quasi 1 abitante su 3 nel Centro-nord e 1 su 5 nel Mezzogiorno. Lo stesso andamento si riscontra nella popolazione con 80 e più anni: una differenza di 0,9 punti percentuali al 1988 (3,1 nel Centro-nord contro 2,2 nel Mezzogiorno), che dovrebbe dilatarsi nel tempo fino al 2018, quando il Centro-nord potrebbe avere una proporzione doppia di ultraottantenni rispetto al Mezzogiorno. L'età media della popolazione sarebbe di 41 anni nella parte meridionale del paese e di oltre 49 in quella centrosettentrionale (v. tab. X).
Ancora più forti sono le differenze fra le varie regioni: il minimo regionale di invecchiamento spetta alla Campania, nella quale la fecondità si è sempre mantenuta piuttosto elevata fino a pochissimi anni fa, mentre il massimo spetta alla Liguria, regione nella quale la denatalità è stata più precoce e più intensa che in qualsiasi altra regione italiana e verso la quale vi è un non trascurabile flusso migratorio di pensionati che vi si recano a trascorrere la parte finale della vita. Le differenze sono tali che al 1988 è ultrasessantenne 1 abitante su 4 in Liguria e 1 su 7 in Campania. Nell'ipotesi di fecondità costante, al 2018 in Liguria quasi il 40% degli abitanti avrebbe 60 anni o più e l'11% ne avrebbe 80 o più: in Campania il processo di invecchiamento sarà assai meno intenso e nel 2018 i suoi abitanti potrebbero avere un'età media di 40 anni contro i 52 dei liguri.
Ancora più ampie sono le differenze fra provincia e provincia e fra zone territoriali all'interno di una stessa regione o all'interno di una stessa città. In numerosi piccoli comuni delle zone interne del Centro-nord per anni e anni non si è registrata una sola nascita, sicché si possono individuare comprensori di comuni in cui la percentuale di ultrasessantenni arrivava, già al censimento del 1981, al 35-40% e la percentuale di ultrasettantacinquenni al 15-20% (a livello di singoli comuni non si hanno dati per le età superiori ai 75 anni). In una regione piccola come il Molise in qualche comprensorio di comuni vi è una proporzione di anziani e vecchi che è pari a circa 3 volte quella di altri comprensori; 2 o 3 volte anche in una singola città come Roma, fra centro storico molto invecchiato e alcuni quartieri periferici ancora assai giovani.Una situazione tanto diversificata pone problemi politici e organizzativi di grande portata e di non facile soluzione. Innanzitutto il problema dei flussi monetari, dell'allocazione di risorse e della localizzazione di strutture e servizi sociosanitari.
È certo difficile ottimizzare le risorse e i servizi in una situazione come quella del Molise, per fare un esempio, dove proprio le zone interne molto più invecchiate hanno pochissime risorse umane e infrastrutturali; ed è certo difficile, per fare un altro esempio, tutelare il patrimonio edilizio del centro storico di Roma se 1 abitante su 4 è anziano o vecchio, appartiene cioè a una categoria di persone che ha minori redditi, minore istruzione e minori interessi e spinte psicologiche da convogliare sul mantenimento o addirittura sul restauro di abitazioni degradate o fatiscenti.C'è in secondo luogo il problema, relativamente più semplice in via teorica ma non meno difficile in pratica, della razionalizzazione delle risorse esistenti. Per fare un solo esempio, il problema della riconversione del personale e dei reparti ospedalieri in funzione dell'assai ridotto flusso di nascite e dell'assai incrementato flusso di anziani e vecchi.
La presenza e il ruolo della famiglia sono considerati di grande importanza per il benessere economico, sociale e psicologico degli anziani. Come la morte di membri della famiglia o la loro lontananza assumono un ruolo crescente per i singoli anziani, così l'insieme delle risposte individuali a tali circostanze assume una grande rilevanza per la società nel suo complesso. Le modificazioni nello stato civile e nella sistemazione abitativa degli individui costituiscono perciò una componente essenziale nell'analisi dell'invecchiamento.
Da un terzo alla metà degli anziani (ci si riferisce qui, per la disponibilità dei dati, ai primi anni ottanta e alle persone con 65 anni e più) sono vedovi, e fra le persone con 75 anni e più la proporzione va dal 46 al 61%. Le proporzioni più basse (31-34%) si osservano in Norvegia, Svezia e Grecia, mentre quelle più alte (44-47%) si hanno in Ungheria, Germania Federale e Giappone. L'Italia si trova in una situazione intermedia, tanto per la percentuale dei vedovi ultrasessantacinquenni, 37%, quanto per quella degli ultrasettantacinquenni, 54%; trent'anni prima, nel 1951, le proporzioni dei vedovi erano più alte e pari rispettivamente al 42 e al 58%: il calo della mortalità ha infatti aumentato anche la probabilità di sopravvivenza della coppia.Ma sono soprattutto le donne che hanno una probabilità assai più elevata di ritrovarsi in una condizione di vedovanza. La diversa distribuzione per stato civile fra maschi e femmine nelle età anziane è largamente spiegata dalla diversa longevità dei due sessi, che non è però l'unica ragione.
Ci sono altri fattori importanti, come la tendenza degli uomini a sposare donne più giovani di 3-4 anni e la maggiore probabilità di un nuovo matrimonio per gli uomini rimasti soli. I dati del censimento del 1981 dimostrano come in Italia nelle età di 60-69 anni siano ancora sposati circa nove uomini su dieci, ma solo sei donne su dieci; nelle età di 80 e più lo è ancora 1 uomo su 2, ma soltanto 1 donna su 8. Al censimento si sono contati in tutte le età 3.242.000 vedove e 656.000 vedovi con un rapporto di circa 5 a 1. Certo questo divario fra i sessi non aiuta a vivere serenamente la propria vecchiaia dal punto di vista psicologico e pratico. Anche fra separati e divorziati le donne sono più frequenti, ma la percentuale di persone separate e divorziate fra gli anziani e i vecchi è tuttora molto ridotta, trattandosi di generazioni fra le quali la rottura del matrimonio era ancora poco diffusa. Le proporzioni più elevate si riscontrano in Svezia dove fra gli ultrasessantacinquenni sono separati o divorziati il 4,9% degli uomini e il 5,6 delle donne (in Italia globalmente in questa classe d'età lo 0,7%). Questo aspetto del problema diverrà molto importante man mano che arriveranno alle età più avanzate le generazioni in cui il divorzio va diffondendosi con grande intensità: in Inghilterra, Svezia e Danimarca fra i più giovani si è arrivati al 43-45% di scioglimenti per divorzio.
Attualmente - e molto di più in futuro - la famiglia si trova caricata di un numero molto maggiore di anziani bisognosi di cure, assistenza economica e altri sostegni, e per una durata assai più lunga che in passato. Per di più questo accade quando il processo di urbanizzazione e lo sviluppo economico hanno profondamente mutato la natura della famiglia: dalla famiglia estesa e composita si è passati a quella nucleare, dove l'importanza dell'anziano è largamente diminuita. Nel mondo perciò è diventato sempre più comune, per gli anziani, vivere da soli e nei paesi sviluppati va diventando la norma. Dati recenti degli Stati Uniti e del Canada, e anche del Regno Unito e dell'Australia, mettono in luce che quasi un terzo degli ultrasessantacinquenni vivono soli; nel 1985 la metà di tutte le donne con 75 e più anni viveva sola, mentre fra gli uomini solo un quinto. Valori molto simili si riscontrano anche per l'Italia in base alle due recenti indagini ISTAT sulle strutture familiari (v. tab. XI), con poche differenze fra Nord e Sud soprattutto per le età più anziane.
Del tutto diversa la situazione del Giappone, dove la tradizione e la conseguente diversa struttura familiare fanno sì che meno di 1 giapponese su 10 di oltre 65 anni viva da solo. Quasi il 75% degli anziani vive con parenti e più della metà di questi in famiglie nelle quali si trovano a convivere tre generazioni.
Ricerche varie hanno mostrato come lo stato civile e l'esistenza di parenti contribuiscano a determinare il luogo dove la persona anziana o vecchia si trova a vivere, nel senso che i vecchi non coniugati e quelli che non hanno figli si ritrovano molto più frequentemente nelle istituzioni per anziani. La maggioranza (59%) di tutti i maschi con più di 85 anni, negli Stati Uniti, vive con qualche membro del proprio nucleo familiare, mentre per le donne tale proporzione arriva soltanto al 37%; nello stesso gruppo di età la percentuale di coloro che vivono in istituzioni è pur tuttavia una minoranza, essendo nel 1980 pari al 16% per i maschi e 26% per le femmine. I dati francesi sembrano essere abbastanza in accordo con quelli americani, su livelli un po' inferiori. L"istituzionalizzazione' è poco frequente in molti dei paesi avanzati e comunque, come ci si poteva aspettare, fra coloro che vivono in convivenze la proporzione di gran lunga più elevata si riscontra per le donne non sposate e molto anziane.
Per quanto riguarda l'Italia non si hanno ancora oggi dati precisi e dettagliati, soprattutto per le età molto avanzate; al censimento del 1981 sono stati contati soltanto 224.000 ultrasessantenni membri permanenti delle convivenze (61.000 maschi e 173.000 femmine). Fra coloro che hanno 75 anni e più una proporzione molto ridotta vive in istituzioni: il 2,7% del totale dei maschi (ma il 17% dei maschi celibi) e il 5,3 delle femmine (19% se nubili). Di tutte le 480.000 persone che vivono in Italia in una convivenza, 88.000, il 18%, sono donne non coniugate con più di 75 anni.
La tendenza a vivere in modo indipendente è perciò diffusa anche in Italia (sempre che i dati rispecchino almeno in buona misura la realtà) così come lo è negli altri paesi sviluppati. E questo anche quando vi è una qualche forma di invalidità, presente in circa un quarto della popolazione con più di 80 anni che vive nella propria abitazione.
Dall'indagine ISTAT sulla salute (v. tab. XII) emerge come, a tutte le età, si sentano in non buone condizioni di salute più le donne che gli uomini. Ma, se il numero di giorni passati a letto e il numero di ricoveri in ospedale costituiscono indicatori di gravità, allora a tutte le età le donne sarebbero colpite da affezioni meno gravi. Contrariamente a quanto risultava da altre indagini, i dati mettono in luce come gli uomini usufruiscano più delle donne di visite mediche e di accertamenti diagnostici.
Le indagini classiche sulla salute, compiute dagli istituti nazionali di statistica, non sono le più adatte ad affrontare uno degli aspetti più rilevanti della condizione dell'anziano, quello dell'autosufficienza. L'aumento della presenza (tecnicamente: 'prevalenza') delle malattie croniche e il crescente interesse delle autorità sanitarie a migliorare le condizioni di salute dell'individuo, sia ritardando l'insorgenza sia rallentando la progressione della malattia cronica, hanno determinato il bisogno di dati che riflettano gli aspetti positivi della salute, come quelli della forma fisica, della prontezza di riflessi, delle capacità cognitive e della percezione autovalutata della salute e del benessere. Sono stati perciò messi a punto diversi questionari che mirano soprattutto ad accertare, attraverso indagini con interviste, la limitazione delle attività fisiche a domicilio e nel contesto sociale in cui si opera (scuola, lavoro, famiglia, tempo libero).
Uno dei primi e più noti questionari, che serve comunque come base per possibili rielaborazioni, è quello predisposto in sede OCSE (e riportato nella tab. XIII) per misurare il grado di autosufficienza nelle attività della vita quotidiana (Activities of Daily Living questions - ADL). Il punto di vista che sta alla base del questionario è che l'eventuale invalidità debba essere l'effetto di una limitazione di lungo periodo della salute su attività essenziali per la vita di ogni giorno. L'approccio seguito è stato quello di determinare la capacità del rispondente di eseguire un certo numero di attività; si è eliminata così la necessità di ottenere una diagnosi autonoma della condizione del soggetto. Un'altra caratteristica essenziale del questionario è quella di avere incluso attività che: a) non siano soggette a errori o malintesi culturali derivanti dalla condizione socioeconomica del rispondente, e siano perciò semplici e comprensibili; b) siano idonee per un'indagine generale sulla popolazione.Il questionario OCSE ha volutamente trascurato gli aspetti che non riguardano il benessere individuale fisico; ove si voglia valutarli il questionario deve essere integrato. Le integrazioni usualmente riguardano: il benessere sociale, con riferimento all'integrazione sociale (partecipazione alla vita della comunità), ai contatti sociali (integrazione con la famiglia e gli amici), all'intimità con gli altri (percezione di avere comunanza di sentimenti e sostegno) e alle opportunità (eguaglianza di opportunità dovute alla salute); il benessere psicologico, con riferimento al benessere affettivo (atteggiamenti e comportamenti psicologici, inclusa l'angoscia, e più in generale la presenza di una completa serenità) e al benessere cognitivo (prontezza, orientamento, capacità di comprensione e di ragionamento).
Un'altra integrazione importante riguarda la capacità e la possibilità di superare l'eventuale limitata autosufficienza, chiedendo, ad esempio, al rispondente se, per effetto delle condizioni fisiche, delle condizioni mentali o dei problemi di salute, ha limitazioni nel tipo o nella quantità di attività che può svolgere a casa o sul lavoro, e nelle altre attività (per esempio trasporti, uso del tempo libero). In una recente indagine canadese la percentuale di risposte positive a questo tipo di domanda è stata, nel complesso della popolazione, pari a circa l'11%, e per gli ultrasessantacinquenni pari al 31-37%.
È bene che queste indagini siano ripetute nel tempo con cadenza regolare e che siano affiancate da indagini longitudinali (quelle che seguono uno stesso gruppo di persone nel tempo, all'avanzare dell'età). Tutto questo serve soprattutto per avere un monitoraggio completo e corretto del fenomeno della perdita delle capacità funzionali, e della sua velocità, per le attuali e per le future generazioni di anziani e di vecchi. Ci si può utilmente chiedere, per esempio, se la perdita delle capacità funzionali sarà rallentata nel prossimo futuro. A causa dell'impressionante declino della mortalità nell'ambito delle età più anziane (di ogni 100 donne di 80 anni precisi al 1981 ne arrivavano 63 all'ottantacinquesimo compleanno, mentre un secolo fa erano 39; dopo il 1981, anche se mancano i dati precisi, si sa che si è avuto un ulteriore drastico calo) questa domanda potrebbe essere una delle più importanti che la società dovrà porsi nel prossimo quarto di secolo. Basti pensare, per esempio, che considerando tutte le ramificazioni di una severa demenza senile si arriva alla stima di una proporzione di malati dell'ordine del 25% nella popolazione con 85 anni e più.Il monitoraggio è importante anche per valutare gli effetti della politica sociale e sanitaria o anche solo quelli di un'informazione corretta e continua. Tutte le indagini nazionali mettono in luce sensibili diminuzioni nella proporzione di coloro che fumano e nella proporzione di grassi ingeriti dopo le numerose campagne di stampa sui pericoli del fumo e di una dieta sbagliata. Dati canadesi mettono in luce come i propagandati benefici di una nuova forma fisica abbiano portato in soli cinque anni, dal 1976 al 1981, la proporzione delle persone con più di 65 anni che sono senza invalidità e svolgono regolare attività fisica da meno del 50 a più del 60%; questo incremento è stato più forte di quello di qualsiasi altro gruppo di età.
1. Istruzione. - Gli anziani e i vecchi sono più vulnerabili non solo per il complesso di condizioni fisiche, salute e sistemazione abitativa, ma anche per il fatto che sono meno istruiti e meno ricchi del resto della popolazione: hanno avuto minori possibilità e capacità di quante ne possono avere i giovani d'oggi di accumulare risorse per la vecchiaia.
L'istruzione è fortemente declinante con l'età, in quanto si tratta di generazioni molto vecchie e quindi meno istruite. La differenza di istruzione fra le varie generazioni è enorme: ancora nel 1981 il 49% degli ultrasettantacinquenni era praticamente analfabeta (il 47,3% dei maschi e il 50,3 delle femmine: v. tab. XIV). Il fenomeno non è solo italiano, come è ovvio: tra gli americani la percentuale di persone non in possesso del titolo di scuola media superiore, nel 1985, è pari al 52% fra le persone con più di 65 anni, e scende al 14 per le persone tra i 25 e i 44 anni; per i giapponesi nel 1980 è pari rispettivamente al 78 e al 30%.Bisognerà aspettare fino al 2030-2040 perché arrivino alle età più avanzate generazioni ben istruite. Fino a quelle date nella valutazione del problema degli anziani e delle possibili politiche da adottare per fronteggiarlo bisognerà tener conto anche di questo fattore.
2. Lavoro. - La partecipazione all'attività lavorativa da parte dei lavoratori più anziani è declinante nella maggior parte dei paesi. Il calo è particolarmente evidente nei paesi sviluppati, dove dapprima la variazione della struttura produttiva (dalla preminenza dell'agricoltura a quella dell'industria e a quella dei servizi) e poi l'innovazione tecnologica hanno mutato la struttura occupazionale e hanno, fra l'altro, creato la necessità di forze di lavoro con istruzione recente e addestramento fresco. Nello stesso tempo, da un lato datori di lavoro pubblici e privati hanno istituito o mantenuto basse le età del pensionamento (anche come misura contro la disoccupazione), dall'altro si sono avute una politica e una cultura che hanno reso possibile per i lavoratori optare per il tempo libero in contrapposizione all'attività lavorativa. I tassi di attività si presentano pertanto in forte diminuzione con l'età e nel tempo.In Italia in soli dieci anni, fra i censimenti del 1971 e del 1981, la partecipazione al lavoro di coloro che hanno oltre 65 anni si è ridotta di quasi la metà e quella relativa alle età 55-64 si è ridotta del 10%, perché l'assai modesto incremento del lavoro femminile non ha controbilanciato in questa età il forte declino maschile (v. tab. XV).
In Giappone, invece, circa la metà degli uomini con 65 anni e più è risultata essere economicamente attiva nel 1980, con una percentuale che è circa sette volte più alta di quella italiana; la percentuale degli Stati Uniti è circa tre volte più alta. Parallelamente, la probabilità che una donna giapponese ultrasessantacinquenne sia ancora nelle forze di lavoro è molto più elevata di quella delle donne di altri paesi, ad esempio di oltre otto volte di quella delle italiane (come mettono in luce le cifre del prospetto che segue). Tassi di attività (%) nelle persone con 65 anni e più M FFrancia, 1982 5,0 2,2Italia, 1981 6,8 1,9Germania Federale, 1980 7,4 3,0Regno Unito, 1981 10,7 3,7Stati Uniti, 1980 19,3 8,2Giappone, 1980 46,0 16,1 Queste fortissime differenze evidenziano bene gli effetti che il sistema di valori, la cultura, le politiche governative e le condizioni economiche specifiche del momento possono determinare sul livello dell'attività economica dei lavoratori più anziani. È anche utile sottolineare come il Giappone abbia un tasso di disoccupazione del tutto trascurabile in generale e nelle età giovanili; anche gli Stati Uniti si trovano al riguardo in una situazione di gran lunga migliore dei paesi europei.
Nel 1988 l'indagine sulle forze di lavoro ha individuato in Italia poco più di 100.000 lavoratori con 71 anni o più, il che corrisponde a un tasso di attività del 3,9% per i maschi e dell'1,1 per le femmine. L'attività lavorativa di questi anziani è concentrata fra i lavoratori autonomi, per il 72%, e in agricoltura, per il 41%.
Nei paesi in cui è diffuso il lavoro a tempo parziale le indagini rivelano che esso costituisce una larga proporzione proprio fra gli anziani, per esempio più della metà in Giappone e nel Regno Unito. Perciò la popolazione più anziana si trova sempre più spesso a competere - e a soccombere - per il part-time non solo con i giovani, ma soprattutto con le donne di tutte le età. Va crescendo quindi in tutti i paesi sviluppati la disoccupazione, almeno quella ufficiale, fra i lavoratori anziani i quali, per di più, presentano la più alta incidenza di disoccupazione di lungo periodo. Per esempio, una recente indagine OCSE ha messo in luce che di tutti i disoccupati con 50 anni o più, 1 su 2 in Germania Federale, 2 su 3 in Francia e 3 su 4 in Belgio sono rimasti disoccupati un anno o più.
3. Risorse economiche. - La popolazione anziana e vecchia è indiscutibilmente caratterizzata da un minor grado di benessere economico rispetto al resto della popolazione, e questo dipende in primo luogo dal fatto che i redditi da pensione sono in media minori di quelli da lavoro e che col crescere delle età, a parità di altre condizioni, le pensioni sono inferiori. Va in secondo luogo considerato che in larga maggioranza gli anziani sono donne e vedove e che per esse, rimaste a vivere da sole nella casa coniugale con una pensione di reversibilità (che è largamente ridotta), le spese per il mantenimento della casa e le spese collegate (luce, gas, telefono, televisione, ecc.) non si riducono proporzionalmente rispetto alla situazione familiare precedente. C'è ancora da considerare che specie nelle grandi città, nelle quali le reti familiari di sostegno e di aiuto domestico sono necessariamente meno fitte ed efficaci, più si va avanti nell'età e più è necessario un aiuto domestico ottenibile a titolo oneroso. Per il complesso di queste ragioni le indagini riscontrano in quasi tutti i paesi un tenore di vita decrescente col crescere dell'età.
L'indagine denominata Luxembourg Income Study (LIS) mette in rilievo non solo come il calo del tenore di vita sia sensibile a partire dal massimo che si ha fra i 45 e i 65 anni, ma anche come si abbia un forte calo, in media del 15%, dopo i 74 anni, col crescere dell'età del capofamiglia; nei Paesi Scandinavi e negli Stati Uniti, dove si ha il maggior livello di vita relativo per la prima classe di età, la riduzione poi è la più intensa e perciò anche la più dolorosa (v. tab. XVI).
Per l'Italia le informazioni disponibili confermano in pieno il quadro tracciato.
Le pensioni del settore privato e di quello pubblico hanno un ammontare medio molto ridotto (667.000 mensili nel 1985 per la vecchiaia e 372.000 per i superstiti) e certamente al limite della sopravvivenza quando non siano integrate da altri cespiti o da aiuti. D'altra parte le pensioni di anzianità, vecchiaia e superstiti (che peraltro costituiscono solo una parte, sia pure importante, di tutte le pensioni erogate) sono passate da 8.191.000 del 1980 a 9.439.000 del 1985 con un aumento del 15%. Pertanto la spesa totale per il complesso di queste sole pensioni è passata, in termini reali (lire costanti 1985), in soli 5 anni da 4.029 a 5.283 miliardi, con un incremento del 31% per l'effetto combinato del forte aumento del numero dei pensionati e di quello dell'importo medio delle pensioni.Come conseguenza dell'epoca in cui si è andati in pensione, dei miglioramenti introdotti nel tempo nella normativa, e del tipo e della durata del lavoro svolto, si ha che l'importo medio delle pensioni di vecchiaia e di anzianità, già molto basso in cifra assoluta a partire dai 60-69 anni di età, scende in Italia non poco con il crescere dell'età, sicché nel 1985 una pensione INPS erogata a una persona di sesso maschile di 50-59 anni (1.062.000 lire) era più alta del 45% di quella erogata a una persona di 60-69 anni e del 72% di quella erogata a un ultraottantenne.
Certamente queste differenze costituiscono un'importante forma di iniquità, considerato che alcuni dei bisogni più frequenti e costosi, legati soprattutto all'assistenza e alle cure, crescono rapidamente con il crescere dell'età. Non meno importante è l'iniquità nei confronti delle persone di sesso femminile che, per chiare e ben individuabili ragioni storiche, fruiscono in generale di una pensione che è minore di quella dei maschi in una misura che va dal 15 al 50%.
Questi dati sui redditi da pensione sono coerenti con quelli dell'indagine sui consumi delle famiglie del 1985. La capacità di spesa media mensile di una persona che vive da sola e ha meno di 65 anni (1.069.000 lire) è del 50% superiore a quella di una persona nelle stesse condizioni, ma che abbia più di 65 anni (617.000 lire). Questo gruppo di anziani rappresenta una quota importante del totale delle famiglie, in quanto le famiglie unipersonali in cui il capofamiglia ha più di 65 anni sono 1.721.000 e costituiscono il 9,2% del totale. Altrettanto importanti sono le differenze territoriali: nell'Italia nordorientale la persona sola ultrasessantacinquenne ha una capacità di spesa superiore del 34% a quella meridionale. Per queste ragioni la Commissione di indagine sulla povertà in Italia, istituita presso la presidenza del Consiglio dei ministri, ha individuato nel 1985 proprio nelle famiglie composte da una sola persona con più di 65 anni le sacche di più vasta e intensa povertà.
La condizione socioeconomica dell'anziano è tale che egli risulta penalizzato sotto ogni punto di vista riguardo al resto della popolazione. E perciò, pensando alle forti ineguaglianze sociali riscontrate in tutto il mondo nei confronti della morte e della malattia - nel senso della maggiore vulnerabilità alla malattia e alla morte propria delle classi sociali più deboli -, si può intendere come, con ogni probabilità, larga parte dei problemi che gli anziani si trovano a fronteggiare derivino in buona misura dalla loro condizione socioeconomica tanto sfavorita, oltre che (e in qualche caso piuttosto che) dal trovarsi in un'età più o meno avanzata.
Una così veloce e incisiva trasformazione della popolazione non può non provocare una serie di conseguenze a cascata che la società si trova a dover prevedere e adeguatamente fronteggiare, pena la sua involuzione o addirittura la sua completa decadenza. Ne derivano una serie di problemi che sono complessi, crescenti e interagenti, e che si fondono assieme per formare il 'problema dei problemi', che è per l'appunto quello di evitare che un fenomeno così nuovo, rapido e progressivo qual è l'invecchiamento della popolazione possa comportare un invecchiamento dell'intera società e quindi un decadimento economico, culturale, psicologico, politico, oltre che tensioni generazionali.
Si tratta anche di evitare che l'invecchiamento pervenga a un punto di 'non ritorno' demografico, al punto cioè in cui invecchiamento e denatalità, alimentandosi a vicenda in un circolo vizioso, arrivino a determinare la scomparsa dell'intera compagine demografica; questa prospettiva, che per il complesso della popolazione sarebbe nelle condizioni demografiche attuali molto lontana e quindi incerta anche nei paesi occidentali a più forte denatalità, non lo è invece per qualche sub-popolazione, per esempio quella di alcune regioni o, ancor più, quella di alcuni comprensori.
A legare l'invecchiamento della popolazione con il possibile invecchiamento della società c'è la circostanza di base che tutti i fenomeni e i comportamenti sono fortemente variabili con l'età: l'apprendere, il produrre, il consumare, lo sposarsi, il procreare, il migrare, il morire, ecc. È quindi tutt'altro che irrilevante che l'età media della popolazione sia di 30 anni o di 40 o che si accinga a divenire di 50 anni, pur tenendo conto che i 50 anni di adesso e del futuro possono essere un'età molto diversa da quella di pochi decenni fa.
Per quanto riguarda gli aspetti economici dell'invecchiamento, molteplici e complessi, poiché lo spazio non consente una trattazione ampia e analitica, ci limiteremo a un'elencazione - sia pure ragionata - dei problemi che in questo campo risultano connessi con tale condizione.Sono innanzitutto da considerare gli effetti sulla domanda finale. Un mutamento nella struttura per età influenza sia il livello sia il tipo dei consumi privati, così come influenza l'ammontare e la quota di risparmio personale.Le funzioni dei costi in relazione all'età hanno dimostrato di essere facili strumenti per analizzare l'impatto dei mutamenti della struttura per età della popolazione sulla spesa pubblica. Facendo riferimento, ad esempio, al costo delle cure sanitarie, è da rilevare che, per mantenere la salute delle persone almeno allo stesso livello, la spesa sanitaria si innalzerà a causa dell'invecchiamento della popolazione. Nell'ambito della spesa pubblica si evidenzia perciò la necessità di sostanziali trasferimenti finanziari inter- e intrasettoriali.
Per quel che concerne gli investimenti privati, l'aspetto più importante è quello della casa. Se una più lenta crescita demografica comporta, di per sé, un calo nella domanda di abitazioni, c'è da considerare però che l'invecchiamento è associato con una riduzione del numero medio di componenti per famiglia: per questa ragione il numero delle famiglie può aumentare anche in presenza di una diminuzione della popolazione.
Altri legami tra invecchiamento e investimenti privati si possono rinvenire nei fattori psicologici, e sono essenzialmente fondati sul declino dello spirito d'iniziativa e sul desiderio di sicurezza, conseguenti all'invecchiamento. Alcune ricerche mettono poi in evidenza che, piuttosto dell'invecchiamento in sé, è l'invecchiamento associato a una ridotta crescita o, ancora di più, a un decremento della popolazione, quello che ha un forte impatto sugli investimenti.Gli investimenti pubblici sono in massima parte collegati con la fornitura di infrastrutture. L'invecchiamento provoca in generale solo un forte mutamento degli investimenti, mentre - quando è associato a un calo di popolazione - comporta anche un significativo calo nel fabbisogno totale, essendo il capitale necessario soltanto al mantenimento delle infrastrutture già esistenti.
Assai rilevante è dunque l'impatto dell'invecchiamento sul livello e sulla struttura della domanda finale, e pur tuttavia sono pochi i modelli econometrici che lo prendono in considerazione. Un ampio modello austriaco di lungo periodo (v. Richter, 1988) arriva a importanti risultati: l'invecchiamento comporta la riduzione della produzione in tutti i settori dell'economia e perciò la riduzione del livello dell'attività economica globale.
Relativamente alle implicazioni dell'invecchiamento sul versante dell'offerta, la prima considerazione riguarda l'offerta di lavoro, che è influenzata in vario modo.
Una prima implicazione è quella dell'invecchiamento delle forze di lavoro, nel senso che all'interno di esse aumenta la proporzione dei lavoratori più anziani. Una seconda implicazione è dovuta alla circostanza che il grado di partecipazione delle persone anziane alle forze di lavoro è più basso di quello degli altri gruppi di età e pertanto l'incremento della loro proporzione tenderà a far calare la crescita globale dell'offerta di lavoro. Un terzo aspetto è il modo in cui si combinano nel tempo, per effetto del calo della fecondità e dell'aumentata sopravvivenza, le varie generazioni che stanno per entrare nel mondo del lavoro o che stanno per uscirne.
L'invecchiamento è anche considerato un elemento frenante nel progresso tecnico e organizzativo. Sembra che i paesi con un invecchiamento intenso della popolazione possano perdere parte della loro competitività, specie quando le nuove tecnologie sono sviluppate in altri paesi.
Non meno importanti sono le implicazioni per il sistema dei trasferimenti. Se tutte le società hanno il dovere di sostenere i più giovani e i vecchi, è da ricordare come parte di questo dovere sia assolto in forma pubblica e parte in forma privata, dal momento che le pensioni sono pagate soprattutto mediante contribuzioni o tasse, mentre i consumi delle giovani generazioni fanno generalmente carico sui bilanci familiari. L'invecchiamento comporterà pertanto un incremento nella ridistribuzione del reddito attraverso il sistema pubblico dei trasferimenti.
Le tendenze demografiche tendono ad alterare il giusto equilibrio tra chi paga i contributi e chi riceve la pensione, come dimostrano i dati relativi a tutti i paesi, compresi quelli del prospetto che segue, che sono riferiti all'esperienza italiana, nell'ipotesi, di puro scenario fino al 2028, che i limiti al pensionamento restino a 55 anni per le donne e a 60 per gli uomini (il che significa che al 2028 andrebbero in pensione i maschi nati nel 1968 e le donne nate nel 1973) e la popolazione in età lavorativa sia perciò tra 20 e 54 anni per le donne e tra 20 e 59 anni per gli uomini.
Numero di persone in età pensionabile
per ogni 100 persone in età lavorativa
1988 43,7
1998 49,1
2008 56,5
2018 65,6
2028 85,9
Un rapporto quale quello che si creerebbe nel 2028 è insostenibile, perché non tutte le persone che si trovano in età lavorativa svolgono effettivamente un lavoro; considerando che in queste età il tasso di occupazione è di circa il 60%, allora già al 2018, con l'attuale età di pensionamento e con l'attuale tasso di occupazione, si avrebbe un solo occupato per ogni pensionato; al 2028 si arriverebbe poi a 13 pensionati per 10 persone che lavorano. L'elevamento dell'età del pensionamento fino a 65 anni sembra dunque un provvedimento necessario in Italia, mentre un'ulteriore discesa della fecondità, alimentando in misura sempre minore l'afflusso di nuove leve sul mercato del lavoro, altererebbe ulteriormente il già compromesso rapporto tra occupati e popolazione anziana.
Al di là di questi problemi fondamentali, ci sono anche - per quanto riguarda la popolazione anziana - fattori psicologici (il 'carico' degli anziani potrebbe portare a serie tensioni sociali e a conflitti intergenerazionali), contrapposizioni territoriali tra le maggiori aree urbane e le regioni più interne e depresse (a causa del problema sempre crescente di ottenere risorse finanziarie e strutture sociosanitarie adeguate e di gestirle per garantire i servizi), e infine problemi ambientali, di mobilità e di riqualificazione professionali e di adattamento a tempi caratterizzati dalla grande velocità dei cambiamenti tecnologici.
Vari fattori contribuiscono a caratterizzare la condizione e la vita sociale dell'anziano, dando luogo a un gruppo sociale largamente composito ed eterogeneo, ben diverso da quella popolazione più o meno omogenea che suggeriscono gli stereotipi.Fra questi fattori uno dei primi è certamente quello sanitario: una persona che non è in grado di compiere tutto quello che è necessario per rimanere in buona salute, o addirittura in vita, deve poter contare su adeguati servizi di assistenza sociale e sanitaria; la capacità quindi di conservare un soddisfacente stato di salute dipende certo dalle condizioni bioambientali individuali, ma anche dalla disponibilità e dall'efficienza dei servizi, che sono a loro volta in funzione delle politiche sociali e sanitarie adottate.
Un secondo fattore riguarda l'attività lavorativa che è un vero e proprio punto di svolta nella vita individuale, specie in società come quelle occidentali in cui il contesto socio-occupazionale determina largamente i modelli di vita personali durante la parte centrale della vita. I modelli di vita, a cominciare dall'organizzazione del tempo, che è poi l'organizzazione di tutte le attività, cambiano repentinamente e l'anziano deve saper acquisire nuove abitudini proprio quando l'adattabilità a farlo decresce con l'età. Un terzo fattore è finanziario, giacché il reddito da pensione, minore di quello da lavoro, genera un più basso tenore di vita: l'anziano rischia di non essere più un consumatore a pieno diritto, né il maggior tempo libero a disposizione può essere da lui utilizzato appieno, per il fatto che ogni attività, e i relativi spostamenti, restringono il suo bilancio.
Un altro fattore è l'abitazione, il cui comfort e l'adeguatezza possono essere cruciali per la qualità della vita dell'anziano, che passa gran parte del suo tempo a casa o nelle immediate vicinanze, specie nei paesi freddi. L'importanza dell'abitazione appare chiara anche per la relazione evidente fra la qualità dell'appartamento e l'insorgenza di disturbi fisici, sociali e psicologici. Ci si deve aspettare che la domanda di appartamenti piccoli e senza problemi di accesso influenzi molto non solo la produzione del patrimonio abitativo, ma anche l'utilizzazione di quello esistente. Anche l'arredo urbano e i servizi pubblici non potranno non adeguarsi alla nuova realtà di una massa di persone che non sempre ha assoluta e piena autonomia.
C'è poi il fattore psicologico, costituito dalla percezione che l'anziano ha di alcuni o di tutti i fattori citati; per esempio il pensionamento obbligatorio, che da qualche studioso è considerato un cambiamento di status più importante della vedovanza nell'autoconcezione dell'anziano, può portare la perdita di relazioni e di contatti con il mondo esterno e la tendenza a sentirsi isolato, fino a patologie psicosociali (depressioni, alienazione, tendenze suicide, ecc.). Un ultimo fattore è infine il legame con la famiglia, specie con i figli e con i nipoti alla cui socializzazione i nonni contribuiscono largamente. Il legame è particolarmante complesso e articolato: basti pensare al ruolo giocato dalle nonne nel consentire, prendendosi cura parziale o totale dei nipoti, la grande crescita del lavoro femminile extradomestico negli ultimi due decenni, quando le infrastrutture pubbliche non erano sempre sufficienti e, all'inizio, il numero di figli non era così straordinariamente ridotto.
Ma al di là dei fattori sopra indicati, e di altri che entrano in gioco, il ruolo e la posizione degli anziani in una società sono in larga misura determinati dalla concezione che la società stessa ha di essi: se l'invecchiamento individuale è considerato un processo evolutivo di una fase della vita che ha, alla pari delle altre, una sua specificità e sue possibilità, gli anziani saranno sufficientemente rispettati pur in una società sempre più rigidamente tecnologica; se invece si vede il vecchio come una persona che si trova in una fase degenerativa, nell'ultimo stadio della vita e giusto in attesa di terminarla, gli anziani diventano un gruppo in movimento verso i margini della società. Legate a queste due concezioni dell'invecchiamento individuale sono le concezioni, del tutto negativa l'una e moderatamente positiva l'altra, che normalmente si ritrovano nei riguardi dell'invecchiamento delle popolazioni.
Anche le relazioni fra anziani e famiglia spesso non rispecchiano gli stereotipi che vorrebbero la famiglia moderna nucleare, composta dei coniugi e di un figlio, tutta ripiegata su se stessa, con gli anziani isolati dai loro figli adulti e dagli altri membri della famiglia. Se tutte le indagini confermano per la famiglia l'evoluzione in atto secondo la quale il rapporto di coppia (e non più la procreazione) costituisce il fulcro e il fine dell'unione, confermano anche che nella larga maggioranza dei casi gli anziani vivono nelle immediate vicinanze di uno dei loro figli (in un rapporto di 'intimità a distanza') e che scambi regolari biunivoci di visite e di assistenza fra gli anziani genitori e la loro famiglia costituiscono più la regola che l'eccezione.
Più complessa è la situazione se c'è bisogno di aiuto in caso di malattia. Il grande coinvolgimento dei membri della famiglia nell'assistenza degli anziani ha provocato un forte risveglio di interesse per la cura in casa, che consente di evitare il ricovero ospedaliero costosissimo, sia in termini finanziari sia in termini umani, e perciò non più mitizzato. Da un lato c'è l'interesse dell'infermo che trova più efficaci le cure familiari, soprattutto dal punto di vista psicologico, dall'altro c'è l'interesse della collettività, che trova più economico e terapeuticamente migliore (salvo che nei casi più gravi) il trattamento a domicilio. Quando le cure sono lunghe e onerose, però, è l"interesse' della famiglia che viene a mancare, in quanto essa - e soprattutto chi presta le cure - è sovraccaricata emotivamente, psicologicamente, finanziariamente, nei rapporti sociali e nell'uso del tempo libero.
Dev'essere compito dell'organizzazione sociale e sanitaria pianificare servizi professionali che intervengano ad aiutare su chiamata della famiglia ogni volta che ce ne sia bisogno, e non solo per stanchezza o per contingenti difficoltà terapeutiche, ma anche per consentire una piena attività lavorativa o le vacanze. Un intervento politico in questa direzione non è però tecnicamente facile (si può pensare fra l'altro a contributi finanziari o a sgravi fiscali), e soprattutto è ridottissima o nulla la pressione politica che le persone alle prese con questo problema sono in grado di esercitare.
Il modo e l'intensità con cui entrano in gioco i fattori che abbiamo elencato consentono di mettere in evidenza sottogruppi di anziani che vivono in condizioni relativamente sfavorevoli e che per questo sono sottoposti a particolari ed elevati rischi sanitari, economici, sociali.
In recenti ricerche sono stati individuati sette gruppi a rischio di anziani: 1) i molto vecchi, cioè le persone con 80 anni e più, che tutte le indagini hanno confermato in posizione vulnerabile; 2) gli anziani vedovi e divorziati, che si scontrano più di altri con problemi psicologici, finanziari e della vita quotidiana (attualmente gli anziani divorziati sono pochi, ma aumenteranno drasticamente nel prossimo futuro); 3) gli anziani senza figli, in quanto tutte le indagini hanno dimostrato che, a parte il coniuge, sono i figli la più importante e frequente fonte di assistenza; per le persone senza figli, che dovrebbero fortemente aumentare in futuro, la probabilità di vivere in un istituto è molto maggiore; 4) gli anziani che vivono soli, molto più esposti a forme depressive e al desiderio di ulteriore isolamento; 5) gli anziani infermi e invalidi, tanto dal punto di vista fisico quanto da quello mentale; 6) gli anziani con una bassa pensione, specie quando è l'unica fonte di reddito; 7) gli anziani che si sono trasferiti di recente dalla propria abitazione, per la perdita dei propri 'spazi' personali, per tutti i problemi di adattamento che possono avere con il nuovo ambiente e per i ridotti legami che riescono a stabilire con altre persone.
Una persona, ovviamente, può appartenere a più di uno di questi gruppi a rischio.
In un'indagine sulla popolazione anziana di lingua fiamminga, in Belgio, si è trovato che il 31% di tutti gli anziani non appartiene a nessuno dei gruppi a rischio; questo insieme forma pertanto una popolazione diversa da quella degli anziani che presentano un solo fattore di rischio (25%) e tutt'affatto diversa da quella degli anziani che presentano tre o più fattori di rischio (20%). È stato proposto di considerare come particolarmente vulnerabile, sotto l'aspetto sanitario, sociale ed economico, l'insieme degli anziani che presentino contemporaneamente tre o più rischi: gli interventi mirati di politica sociale e sanitaria dovrebbero tenere soprattutto in conto questi soggetti.
Le trasformazioni demografiche in atto - con l'incremento crescente e consistente degli anziani, dei vecchi e dei molto vecchi e con l'alterazione violenta degli equilibri millenari fra i vari segmenti della popolazione - sono profondissime e in larga misura irrefrenabili. L'invecchiamento è un processo sociale e non una 'malattia', è lo sbocco naturale di un'evoluzione della popolazione voluta e determinata dall'uomo e certamente rivoluzionaria: il nuovo mondo demografico, nel quale stiamo entrando, metterà alla prova la nostra capacità tecnico-politica di assicurare alla società il necessario dinamismo istituzionale e organizzativo.
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