apatia
Dal gr. ἀπάϑεια «insensibilità». Stato di perfezione contemplativa dello spirito, in cui nulla si aborre e nulla si desidera, secondo la dottrina degli stoici e degli epicurei. L’a. coincide sostanzialmente con l’adiaforia e l’atarassia ed è l’ideale del saggio, e l’attributo per eccellenza del divino, quale è concepito dagli epicurei. Attraverso Filone, soprattutto, il concetto passò alla patristica e poi agli apologisti e ai padri greci, da Clemente Alessandrino (che ne fa una caratteristica dello «gnostico») a Origene e ai padri cappadoci, e al monachismo come stato raggiungibile mediante la pratica delle virtù, la preghiera e la mortificazione, da cui nasce l’amore o carità che conduce alla contemplazione mistica (Evagrio Pontico; Cassiano: immobilis tranquillitas animi). Ma in Occidente in genere l’a. come ideale fu respinta: soprattutto da Lattanzio, s. Girolamo (che traduce il termine greco con imperturbatio e impassibilitas) e s. Agostino.