ape (apa)
Il nome di questo insetto frequentemente nominato nei bestiari medievali, e assunto variamente a termine di paragone nella letteratura due-trecentesca (cfr. Chiaro Novella gioia 47, Nessuna gioia 40), è presente tre volte nelle opere dantesche, due volte nella Commedia e una nel Convivio, sempre all'interno di una similitudine. In Pg XVIII 58, parlando dell'anima razionale, Virgilio spiega che certe proprietà specifiche (la capacità di conoscere i primi veri, e l'affetto dei primi appetibili) sono in essa innate, così come nell'a. è innato l'istinto di produrre il miele: che sono in voi sì come studio in ape / di far lo mele (per la discussione filologica e il senso generale dell'intero contesto in cui il brano citato è inserito, v. Petrocchi, ad l., e la voce appetibile).
In Pd XXXI 7 gli angeli che volano nella candida rosa tra i beati e Dio sono paragonati alle a. che prima si posano sui fiori per suggerne il nettare e poi tornano all'alveare, dove il frutto del loro lavoro prende sapore, cioè si trasforma in miele: sì come schiera d'ape che s'inflora / una fïata e una si ritorna / là dove suo laboro s'insapora (a. è plurale da ‛ ape ', o da un ben documentato ‛ apa ').
In Cv IV XVII 12, a giustificazione del fatto che il suo cammino procede per la via delle virtù morali e non per quella delle virtù intellettuali, D. osserva che se queste ultime hanno in assoluto maggiore eccellenza, le virtù morali sono però più diffuse ed emulate; quindi egli ha ritenuto utile e convenevole per ragioni pedagogiche (il rispetto a la facultà del discente) trattare piuttosto delle prime che delle seconde: ché così bene [non] si verrebbe a la conoscenza de le api per lo frutto de la cera ragionando come per lo frutto del mele, tutto che l'uno e l'altro da loro procede; infatti il miele è più noto della cera e contribuisce meglio a far conoscere le api.