Vedi APELLE dell'anno: 1958 - 1994
APELLE (᾿Απελλῆς, Apēlles)
Pittore, vissuto nel IV sec. a. C. Fu, secondo il concorde giudizio degli antichi, il più grande dei pittori greci.
Nacque probabilmente a Colofone e dimorò lungamente in Efeso e in Coo, dove erano conservate le sue opere più celebrate: questo spiega perché, talvolta, nella tradizione gli sia assegnata come patria una di queste due città. Il fratello Ktesiochos fu anche pittore, anzi fu suo scolaro. Ignoriamo se pittore sia stato anche il padre Pytheas: si sarebbe indotti ad escluderlo per il fatto che il primo maestro di A. fu Ephoros di Efeso e non il padre. Un cesellatore di nome Pytheas è menzionato da Plinio (Nat. hist., xxxiii, 154) e un altro di nome Apelles è in Ateneo (xi, 480 C): se ne è dedotto che il pittore apparteneva ad una famiglia di cesellatori e che nella sua arte non dovevano mancare, perciò, echi della fiorente industria ionica dell'oreficeria, analogamente a quanto è stato supposto per l'altro grande pittore di Efeso, Parrasio. Ma in base agli scarsi accenni delle fonti letterarie, sembra che tanto il toreuta Apelles, quanto il cesellatore Pytheas, debbano essere considerati della piena età ellenistica. Dopo i primi anni di alunnato ad Efeso, quando già doveva aver raggiunto discreta abilità pittorica, A. si recò nel continente, a Sicione, per seguire la scuola di Pamphilos, il cui insegnamento era soprattutto fondato sulla tradizione del disegno e sulla conoscenza delle leggi scientifiche della pittura. Il lungo tirocinio, che si protrasse per ben dodici anni e per cui il discepolo pagò al maestro l'alta mercede di un talento (Plin., Nat. hist., xxxv, 76), fece sì che egli divenisse amico e collaboratore di Melanthios, l'alunno prediletto di Pamphilos e suo successore nella direzione della scuola; con Melanthios A. dipinse un quadro destinato a celebrare la vittoria riportata da Aristrato nella corsa dei carri. Da Sicione, A. si recò alla corte del re di Macedonia; è molto probabile che in essa lo abbia introdotto Pamphilos, macedone di origine. A. eseguì quivi i ritratti di Filippo II e di Alessandro, del quale divenne il ritrattista ufficiale (la notizia, più volte ripetuta dagli antichi, che Alessandro abbia proibito agli altri pittori di ritrarlo andrà interpretata nel senso che solo A. poteva ritrarlo dal vero e in pitture ufficiali). Seguì poi Alessandro in Asia Minore e si stabilì di nuovo ad Efeso, dove Alessandro si fermò una sola volta, nell'estate del 334 a. C., e dove la tradizione ricorda che egli vide il proprio ritratto dipinto da A. (Aelian., Varia hist., ii, 3). Da questa e dalle altre notizie possiamo desumere che A. si recò in Macedonia all'età di circa trent'anni, dopo i primi tentativi pittorici e dopo il suo lungo alunnato a Sicione. La sua nascita deve porsi verso la fine del decennio 380-370 a. C. ed è, perciò, perfettamente logico che Plinio ne ponga la akmè nell'Olimpiade 112 (332-329), nel tempo della sua seconda dimora ad Efeso e forse del suo lavoro più proficuo. In seguito, il pittore si trasferì a Coo: a tale periodo risalgono i rapporti con Protogene che dimorava nella vicina Rodi, dove è probabile che abbia soggiornato per qualche tempo anche A., poiché ivi era conservata una delle sue opere, il ritratto di Menandro, satrapo della Lidia. Un forzato viaggio ad Alessandria, avvenuto forse negli stessi anni, lo condusse alla corte di Tolomeo, con il quale il pittore non aveva avuto troppo cordiali rapporti, quando ambedue erano al seguito di Alessandro. Presso il re, A. fu calunniato dal suo rivale Antiphilos, egiziano, e, smascherato l'intrigo, si vendicò dipingendo il famoso quadro della Calunnia. Ma le circostanze che dettero origine al dipinto, messe in relazione con la congiura di Tiro, in realtà avvenuta molto tempo dopo, nel 219 a. C., farebbero pensare ad una delle tante storielle etiologiche delle quali è ricca la tradizione artistica antica e moderna. I ritratti di Antigono Monofralmo, morto nel 301 e di cui almeno uno dovette essere dipinto a Coo, nel breve periodo in cui l'isola fu in suo potere (306-301), provano che il pittore visse fino alla fine del IV sec. e probabilmente morì a Coo, dove veniva mostrato come opera di A. un quadro di Afrodite di cui era compiuta solo la parte superiore.
Tra i suoi scolari viene ricordato, oltre al fratello Ktesiochos, Perseos, al quale A. dedicò, sotto forma di ammaestramento, un trattato sull'arte di dipingere. Il trattato doveva contenere una lunga, se pure non esclusiva, come è stato da altri affermato, parte autobiografica e da esso derivano senza dubbio i giudizi sui pittori contemporanei. La modestia di A. era tale che egli si riconosceva apertamente inferiore a Melanthios nella composizione e disposizione delle figure, ad Asklepiodoros nelle mensurae (Plin., Nat. hist., xxxv, 80: più che alla simmetria o proporzione delle figure, come comunemente si afferma, si sarebbe indotti a riferire il termine mensurae alla prospettiva, posta su basi scientifiche: a queste appunto l'insegnamento sicionio dedicava le maggiori cure, affermando, per bocca del maestro Paniphilos, che, senza la conoscenza dell'aritmetica e della geometria, l'arte non poteva raggiungere la perfezione). Anche Protogene dovette al generoso aiuto di A. il riconoscimento del valore della sua arte. Nelle sue relazioni con gli altri pittori contemporanei e con i discepoli, A. non mancava di arguta giovialità: ad un discepolo che aveva dipinta una figura di Elena, carica di ornamenti, si limitò a dire che l'aveva fatta ricca, non potendo farla bella; ad un pittore troppo frettoloso osservò che avrebbe potuto, nello stesso tempo, dipingere molto di più. A sua volta, amava udire i giudizi della gente, anche se umile, sui suoi quadri. Egli li esponeva, dopo averli finiti, su di un balcone e, se era il caso, li correggeva; ma si sdegnava se qualcuno nella critica oltrepassava i limiti della sua competenza: è assai noto l'episodio del ciabattino invitato a non giudicare al disopra della scarpa. Ancora meglio illuminano il carattere di A. i suoi rapporti con Alessandro, il quale dovette apprezzare altamente l'indole bonaria e schietta del pittore, al punto che il Macedone, facile all'ira, sopportò che A. dicesse che il cavallo di Alessandro era migliore conoscitore dell'arte che non il proprio padrone, poiché questi aveva troppo parcamente lodato un suo ritratto, mentre il cavallo alla vista del dipinto aveva subito nitrito. Un'altra volta A. invitò il re, che parlava di arte, a tacere, mostrandogli i garzoni, addetti alla preparazione dei colori, che ridevano dei suoi giudizi. Pur riconoscendo che una parte degli aneddoti appartengono alla fioritura di luoghi comuni della letteratura artistica antica, è indubbio che essi si adattano all'indole del pittore che rivendicava come sua qualità precipua la chàris, la grazia.
Tra le sue opere la più famosa era certamente l'Afrodite Anadiomène, in origine a Coo e che, acquistata da Augusto esentando i Coi dal pagamento di 100 talenti, fu conservata nel tempio dedicato a Cesare nel Foro Romano. La tavola con il volgere dei secoli aveva subito nella parte inferiore danni che sembravano irreparabili, tanto che Nerone pensò di sostituirla con una copia di un certo Dorotheos o Dositheos, ma, finalmente, al tempo di Vespasiano si trovò un restauratore abile, che fu largamente compensato dall'imperatore. L'ammirazione che al quadro hanno attribuito scrittori e poeti greci e romani e che perfino ispirò ad un ignoto pompeiano il paragone con la sua amata, graffito sulle pareti di una casa della città, non ci illumina troppo sul motivo artistico scelto dal pittore: sappiamo solo che la dea era rappresentata nuda nell'atto di strizzare con le mani le chiome bagnate dall'acqua marina. Certamente non si riferisce, come taluni vogliono, all'Afrodite di A. la descrizione di un quadro nel quale la dea era rappresentata su di un carro, uscente dall'onda marina, circondata da un corteo di Tritoni e Nereidi, descrizione conservata dal retore Coricio di Gaza (Orat., Εἰς ῾Ρόδον, ediz. Boissonade, p. 130), poiché la concezione mostra i caratteri della tarda arte ellenistica. Si diceva che Frine, l'etera amante di Prassitele, fosse stata il modello di A. (Athen., xxii, 590 F), ma sappiamo che Frine passava per il modello di tutte le Afroditi celebri, esistenti nelle varie città greche (Clemen. Alex., Adv. gent., vi, 13). Altri (Plin., Nat. hist., xxxv, 86) sostituiscono a Frine Pancaspe o Pacate (la forma originale e più esatta del nome era forse Pancaste) di Larissa, l'amante di Alessandro: questi aveva dato incarico ad A. di ritrarla nuda e quando si accorse che il pittore si era innamorato del modello, generosamente glielo cedette. A. dipinse Afrodite ancora una volta negli ultimi anni della sua vita, a Coo, in un quadro che, come dicemmo, rimase incompiuto; non è certo accettabile l'opinione di coloro che affermano che Cicerone (De off., iii, 2, 10; Ad fam., i, 9, 15) e Plinio (Nat. hist., xxxv, 92) abbiano confuso questo quadro con quello dell'Afrodite Anadiormène. Sappiamo, però, che i più sottili intenditori di arte preferivano a tutte le opere di A., un quadro nel quale era rappresentata Artemide circondata da una schiera di vergini sacrificanti, e in cui probabilmente era anche dipinto quel cerbiatto che uno scrittore greco (Ael., Nat. anim., p. 453, Hercher) ricordava tra le meraviglie dell'arte di Apelle. Come per le Afroditi, oltre alla generica affermazione della loro bellezza, del loro colorito, del candore leggermente avvivato dal fluire del sangue, nulla gli antichi ci hanno tramandato sulle qualità particolari del dipinto: né molto di più deduciamo dall'ampia descrizione di Luciano del famoso quadro della Calunnia (Luc., Calumn., 2-5), descrizione che servì da erudita ispirazione al quadro del Botticelli, nel quale è evidente l'intento di gareggiare con A.; Luciano dice solo che il carattere delle personificazioni veniva espresso con il diverso colore delle carni. Le personificazioni di sentimenti psicologici si innestano ora alle più antiche astrazioni, simboli umanizzati della religiosità greca; a questo mondo allegorico appartengono pure le figure di Tỳche, la Fortuna, e quella di Chàris, la Grazia, dipinte l'una e l'altra per la città di Smirne, la figura della Guerra incatenata, in un quadro rappresentante il trionfo di Alessandro, a meno che l'interpretazione romana non abbia così denominato una figura di prigioniera, rappresentata nel quadro. Accanto alle allegorie, compaiono nell'arte di A. anche le personificazioni dei fenomeni naturali: del Lampo, del Tuono, della Folgore (femminili nella nomenclatura greca) trattate con una audacia che stupì gli antichi. Non è necessario supporre, come ha sostenuto qualche moderno critico, che tali personificazioni appartenessero ad un quadro rappresentante la morte di Semele. Non sembra, inoltre, che il mondo degli altri dèi e quello del mito abbia offerto larga ispirazione all'arte di A.: egli dipinse una figura di Eracle nudo, visto di dorso, in un quadro che era a Roma, quella di un eroe, di cui gli antichi stessi ignoravano il nome e con il quale si diceva che l'artista avesse sfidato la natura e infine, i divini gemelli Castore e Polluce che accompagnavano Alessandro, incoronato dalla Vittoria.
Non è probabile, come si è voluto sostenere in base ad una incerta lettura del testo pliniano (Nat. hist, xxxv, 94) e ad uno scolio alle Silvae di Stazio (i, 287) - che con ogni probabilità risale ad un umanista del XV sec. - che A. abbia anche dipinto un quadro con l'infelice impresa di Ero e Leandro (v.). Nel mondo artistico di A. prevalgono le figure degli uomini del suo tempo e delle passioni che lo agitano e, se egli dipinse figure allegoriche, queste non furono quasi mai isolate dalla realtà contingente: anche quando egli dipinse Afrodite, introdusse bellezze del suo mondo in quello divino. Questo suo mondo A. realizzò in quadri con figure isolate o in composizioni più vaste; per queste ultime, oltre agli esempi che abbiamo ricordato, menzioneremo il quadro rappresentante il corteo del Megabyze, cioè del grande sacerdote di Artemide Efesia (da alcuni creduto identico a quello del sacrificio di un bue descritto da Eroda, iv, 66 ss., anticamente conservato nel santuario di Asklepios a Coo), che apparteneva probabilmente alla pinacoteca annessa al santuario efesino. Se è esatta l'asserzione pliniana (Nat. hist., xxxv, 90) che A. dipinse figure di morenti, queste dovevano comparire nei quadri in cui il pittore aveva ritratto i suoi eroi nel furore della pugna. L'interesse per il mondo terreno del suo tempo favoriva naturalmente la inclinazione per il ritratto. L'eroe preferito da A. fu Alessandro, ch'egli ritrasse con insistenza ed elevò all'altezza di una potenza divina, dandogli come attributo il fulmine di Zeus. In tale rappresentazione propria dei popoli d'Oriente riecheggia forse l'ideale del dinasta; si spiega così il rimprovero, rivoltogli da Lisippo (Plut., De Is. et Osir., 24), il quale volle mantenere il suo eroe nei limiti del dominio terrestre e lo presentò armato soltanto della lancia. E, con Alessandro, A. dipinse i compagni: Antigono e Clito a cavallo (aveva A. una particolare predilezione per la pittura degli animali e soprattutto del cavallo), Neottolemo ed uno dei due generali di Alessandro che ebbero nome Archelao: questi era dipinto in un gruppo con la moglie e la figlia. Tra gli altri ritratti - oltre quello già menzionato del satrapo Menandro - ricorderemo quello dell'attore Gorgostene. Parrasio (Them., Orat., ii, 29) aveva dato ad una figura di Hermes i propri tratti fisiognomici; di A. è ricordato anche un autoritratto (Anth. Pal., ix, 595) che sarebbe, quindi, il più antico tra quelli di cui ci è giunta la menzione. La somiglianza dei ritratti eseguiti da A. fu definita dagli antichi "indiscreta", affermando, cioè che difficilmente l'immagine dipinta poteva essere distinta dalla persona vivente, tanto che i metoscopoi, che dall'esame dei lineamenti profetavano gli eventi della vita umana, potevano, da un ritratto di A., precisare l'età e gli anni di vita che rimanevano al personaggio raffigurato.
Se ricca è l'aneddotica antica sul pittore, se dei soggetti delle sue opere siamo con sufficiente larghezza informati, poco sappiamo invece della sua arte: nessuno dei tentativi di riconoscere, nelle opere della pittura antica superstiti, riflessi dell'arte di A., ha raggiunto il più piccolo grado di verisimiglianza.
Plinio (Nat. hist., xxxv, 50 e 92) ricorda A. tra i pittori antichi che facevano uso di quattro soli colori (bianco, giallo, rosso e nero): indubbiamente la notizia non può essere integralmente accettata e troppo strana appare la singolare omissione di uno dei colori fondamentali, l'azzurro, la cui presenza è attestata in monumenti di età ben anteriore ad Apelle. Con questi colori si poteva raggiungere una ricchezza di policromia, e soprattutto di toni notevole, e si spiega così come la tradizione antica possa talvolta apparire in contrasto con la notizia pliniana (Cicer., Brut., xviii, 70), come possa vantare il colorito del nudo delle figure femminili di A. (Plut., De mul. virt., 2), nelle quali il candore era avvivato dalle rosate trasparenze del sangue (Cic., De nat. deor., i, 27, 75; Luc., Imag., 7). Anche in queste delicatezze di colorito A. procedeva nella scia di Parrasio, del quale gli antichi dicevano che aveva dipinto una figura di Teseo nutrito di rose (Plin., Nat. hist., xxxv, 25; Plut., De glor. Ath., 2). Per attenuare la vivacità del cromatismo, A. inventò una vernice a base di nero, forse ottenuta con avorio bruciato, detta atramentum: questa, mentre aveva lo scopo di preservare i dipinti dalla polvere e dal sudiciume, abbassava i toni troppo accesi, conferendo all'insieme una luminosità più diffusa, che forse gli antichi indicarono con il termine di splendor (Plin., Nat. hist., xxxv, 29 e 97); nello stesso tempo, A. ci appare come iniziatore di quella ricerca luministica che fu, senza dubbio, uno dei problemi più vivi della pittura ellenistica: infatti, nel ritratto di Alessandro che era ad Efeso egli aveva dato all'incarnato una tinta più scura di quella naturale e aveva illuminato coi riflessi del fulmine il petto e il volto, accentuando così la vigoria delle forme plastiche, sicché la critica antica osservava che la mano appariva in rilievo e che il fulmine sembrava uscire dal quadro (Plut., Alex., 4; Plin., Nat. hist., xxxv, 92). A sostanziare la luminosa plasticità della costruzione concorreva il dominio perfetto di un disegno rapido ed incisivo.
Non è forse senza significato l'aneddoto, raccolto da Plinio (Nat. hist., xxxv, 89), che A., beffato da un cortigiano di Tolomeo con un falso invito presso il re, mostrandosi costui adirato, prese un carbone dal braciere e disegnò sulla parete il ritratto di colui che lo aveva invitato: questi fu subito individuato nel buffone di corte. Ma a questa rapidità egli pervenne attraverso un continuo, diuturno esercizio. La sua frase (nulla dies sine linea) è divenuta proverbiale e le fonti letterarie accennano alla sua gara con Protogene nel tracciare linee sempre più sottili (Plin., Nat. hist., xxxv, 81); o insistono sul pregio della sua linea di contorno (Petr., Sat., 83); oppure ricordano che A. aveva dipinto Eracle aversum, cioè di spalle, come abbiamo sopra ricordato, ma che, per un prodigio di abilità, era riuscito a mostrare il viso più che a suggerirne solo le fattezze (Plin., Nat. hist., xxxv, 94); aggiungono ancora che A. aveva rappresentato Antigono in posizione obliqua per nascondere la deformità dell'occhio cieco (Plin., Nat. hist., xxxv, 90; Quint., Inst. or., ii, 13, 12). A. aveva dunque compreso appieno il valore dell'insegnamento di Parrasio, mirante a raggiungere per mezzo della linea di contorno non un'astratta delimitazione di piani, ma relazioni di volume. L'arte sua ci appare, così, pervasa dagli intenti e dalle forme della tradizione affermatasi sulle coste greche dell'Asia Minore; da essa tradizione deriva anche la chàris, la grazia, nella quale A. affermava di non aver rivali e che, pure nell'indeterminatezza del termine, lascia indovinare la costante aspirazione alla freschezza dell'espressione pittorica. Per conseguirla, A. raccomandava di tenersi lontano da ogni eccesso di minuzia (Plin., Nat. hist., xxxv, 79; Cic., Orat., xx, 73) e, nonostante il lungo tirocinio alla scuola sicionia, restò estraneo alle pretese dotte di essa, riconoscendosi inferiore ad altri nella conoscenza della composizione e della prospettiva, che nella scuola sicionia erano regolate da esatte leggi scientifiche. La tradizione antica ben colse questo tratto affermando che A. si recò a Sicione, più per procacciarsi rinomanza che per apprendere i segreti dell'arte. A. appare soprattutto nello spirito e nelle forme da una parte l'erede della tradizione ionica più antica, dall'altra l'iniziatore di nuove soluzioni dei problemi pittorici del suo tempo e un ricercatore di nuove tecniche, a tale punto che è forse lecito attribuire ad una eccessiva manipolazione dei colori la perdita della parte inferiore della Afrodite Anadiomène, nonostante che Plinio (Nat. hist., xxxv, 91) accenni esplicitamente alla carie del legno.
Riaffermando il valore della linea di contorno, intesa non più staticamente, ma come creatrice di volume e movimento, avvivando le immagini con effetti luministici, A. introdusse nella pittura una concezione nuova: si comprende, perciò, come la tradizione riconosca che egli aveva fatto compiere alla pittura progressi maggiori di tutti i suoi predecessori (Plin., Nat. hist., xxxv, 79) e si spiega pure come la critica antica che, in opposizione a quella di tendenza classicheggiante, poneva al centro della sua attenzione l'esame dei problemi plastici e coloristici, additi nella pittura di A. la somma perfezione dell'arte.
Bibl: Le fonti letterarie sono raccolte da J. Overbeck, Schriftquellen, nn. 1868 ss. (ad esse aggiungi: Herond., IV, 59 ss.; Suet., Vesp., 18) e da A. J. Reinach, Recueil Milliet. Textes grecs et latins relatifs à l'histoire de la peinture anc., Parigi 1921, p. 314 ss.; G. Wustmann, Apelles' Leben u. Werken, Lipsia 1870; H. Brunn, Geschichte d. griech. Künstler, II, Stoccarda 1889, p. 136 ss.; O. Rossbach, in Pauly-Wissowa, I, cc. 2689-692, s. v., n. 13; W. Klein, Geschichte d. griech. Kunst, II, Lipsia 1903, p. 310 ss.; III, Lipsia 1907, p. 1 ss.; B. Sauer, in Thieme-Becker, II, p. 23 ss., s. v.; E. Pfuhl, Maler. u. Zeichn., II, Monaco 1923, p. 735 ss.; R. Bianchi Bandinelli, Storicità dell'arte classica2, Firenze 1950, pp. 59 e 201; A. Rumpf, in Jahrbuch, LXV-LXVI, 1950-1951, p. 166 ss.; L. Borrelli, in Bollettino dell'Istituto Centrale del Restauro, II, 1950, p. 56 s.; H. Rumpf, in Handbuch, V Liefer., Monaco 1953, p. 146 s.