APOLLO ('Απόλλων, Apollo)
Nome del dio, che i Greci adorarono come un'ipostasi del sole, accanto all'altra divinità solare, Elio ("Ηλιος), che presto passò di gran lunga in seconda linea nel culto, a causa appunto della troppa aderenza, nel nome stesso evidente, della divinità all'astro che essa impersonava. Apollo, come personificazione del sole, è pertanto una delle più antiche divinità dei Creci e una di quelle che assursero alla massima importanza nel loro Olimpo: della sua alta antichità fa testimonianza il nome del lago Bebeide (Βοιβηίς) nella Tessaglia orientale, che si riattacca evidentemente all'epiteto Φοῖβος ma ci rimanda ad una epoca in cui le medie aspirate indo-europee non erano ancora passate nelle aspirate tenui (Beloch, Griech. Gesch., 2ª ed., I, 1, p. 156). La sua importanza deriva dal fatto che all'aspetto originario di divinità della luce, proprio di Apollo, si aggiunsero via via altri aspetti ed altri significati, dal primo sempre dipendenti ma tali da allargare la sfera d'azione del dio a molte delle più notevoli manifestazioni della vita della natura e degli uomini.
Il significato del nome ('Απόλλων; dorico 'Απέλλων) è incerto; gli antichi preferivano ravvicinarlo al verbo ἀπόλλυμι, con allusione al suo aspetto di divinità punitrice e vendicatrice; dei moderni alcuni hanno suggerito di accostarlo invece (nella forma 'Απέλλων) al verbo ἀπέλλω (ἀπείργω), con allusione invece al potere di stornare e tener lontani i mali e le sventure. Ma se incerto è il significato del suo nome, eloquenti sono invece gli epiteti coi quali Apollo è salutato come divinità della luce: egli è "il nato dalla luce" (λυκηγενής), "il luminoso" (λύκιος), "il puro" (Φοῖβος), "il dio che porta la spada d'oro e l'arco d'argento" (χρυσάωρ, ἀργυρότοξος).
Né meno degli epiteti è eloquente il mito della sua nascita: sua madre è Latona (Λητώ), il cui nome gli antichi (ed anche alcuni dei moderni) riconnettevano col verbo λήϑειν (λανϑάνειν); sarebbe dunque "la dea che sta nascosta", la notte, dalla quale nasce la luce del giorno. Rimasta incinta per opera di Zeus, Latona - così narrava il mito - perseguitata dalla gelosia di Era, andò peregrinando di terra in terra, finché poté fermarsi nella piccola e petrosa isola di Delo, fino allora scoglio errante nel mare, e dopo la nascita del dio rimasta fissata con potenti colonne al fondo marino. Quivi, dopo nove giorni di doglie, assistita da Iride, dette alla luce, alle falde del monte Cinto, Apollo, e insieme con lui (secondo una tradizione molto diffusa), Artemide. Come dunque dal mare si vede sorgere il sole nel lontano oriente, così dal sacro mare di Delo è nato Apollo; e il nome stesso di Delo richiamava gli antichi al fatto della prima apparizione, dell'epifania del dio della luce: il quale porta gli epiteti di Δήλιος e di Κύνϑιος e quello di ἑβδομαγενής (o ἑβδόμειος), allusivo alla data della sua nascita (il settimo giorno del mese Targelione). Per questo era sacro ad Apollo il settimo giorno di ogni mese; ma a lui, quale dio della luce, era sacro anche il primo giorno del mese, vale a dire il primo giorno di ogni nuova luna: ciò che avveniva a Roma per Giano, venerato però in questo giorno non come dio della luce ma come dio del principio. Sul fissarsi del mito della nascita di Apollo all'isola di Delo si può pensare abbia influito il desiderio di coonestare, con questa saga, la scelta, fatta dai coloni ionici, dell'isola stessa a sede del loro santuario nazionale.
Come tutte le divinità della luce, Apollo ha la missione di disperdere le tenebre, di combattere e uccidere i mostri che nelle tenebre si annidano per preparare agli uomini gli agguati e la morte. Di qui la leggenda che ci rappresenta Apollo, ancor giovinetto; uccisore del gigante Tizio (Τιτυός), che aveva offeso Latona (leggenda localizzata ora nell'isola di Eubea, ora nella regione di Delfi); e l'altra, ben più famosa, che raccontava la lotta del dio col serpente Pitone (Πύϑων), un vero mostro delle tenebre, come ne conoscono le saghe di quasi tutti i popoli, nato anch'egli dalla terra e che spargeva la desolazione e la morte nella regione di Crisa, non lungi da Delfi. Apollo lo uccise con le sue frecce, e n'ebbe così l'epiteto di Pizio (Πύϑιος); e a Delfi, ov'egli aveva riportato la vittoria, fu eretto in suo onore un santuario, chiamato πυϑώ. Il culto di Apollo Pizio si diffuse per tutto il mondo greco e Delfi divenne il centro principale della religione del dio. Dopo questo glorioso certame, sarebbe risuonato per la prima volta il canto della vittoria e della luce trionfante, il Peana (ἰὴ ἰὴ Παιῆον); il canto che fu da allora ripetuto in ogni luogo e in ogni tempo per esprimere il giubilo e la gloria del trionfo: canto che era appartenuto probabilmente all'originario rituale di Apollo, e in seguito al quale il dio fu soprannominato e invocato 'Ιήιος e Παιήων (o Παιάν).
Ma un altro carattere ha Apollo, che è proprio degli dei della luce; egli è apparso al mondo in un giorno di primavera, quando incomincia il trionfo della luce e del sole; e dal mondo egli si ritira in autunno, per tutto il tempo che la natura e gli uomini intristiscono al freddo e alle tenebre dell'inverno. A questo suo carattere si riconnettono le belle saghe dei soggiorni di Apollo presso gli Iperborei, presso i Lici o presso gli Etiopi. Gli Iperborei avevano sede al di là della regione di Borea, che, dalla catena dei monti Ripei, si immaginava addensasse sul Mediterraneo i nembi, i venti, le tempeste: al N. dei Ripei, nella serena chiarità di un giorno che non veniva mai meno, abitavano gli Iperborei, il popolo prediletto di Apollo, oggetto del loro culto e dei loro sacri canti; là si ritira il dio (ἀποδημία) nella cattiva stagione, per ritornarne insieme con la primavera (ἐπιδημία): dalla primavera all'autunno risuona in Delfi il peana di Apollo, mentre, nei tre mesi dell'inverno, durante la sua assenza, predominano piuttosto il ditirambo e le feste di Dioniso. Secondo la saga di Delo, il soggiorno invernale di Apollo era invece nella calda Licia ("il paese della luce"), nella città di Patara; ed il ritorno della divinità nell'isola prediletta, a primavera, si salutava nelle feste Delie.
Come dio della luce, Apollo è agli uomini apportatore di salute; egli signoreggia ogni male e lo allontana da loro: onde gli epiteti di 'Αλεξίκακος e 'Αποτροπαῖος. Come tale, egli è padre di Aristeo e di Asclepio. Egli, il signore della luce, aiuta i pastori nei pericoli delle tenebre notturne: e perciò è venerato coi soprannomi di Καρνεῖος e di Νόμιος (cioè "il dio delle greggi e dei pastori"), specialmente nel Peloponneso, e a Sparta, dove si festeggiavano, con agoni guerreschi e musicali, i giorni dal 7 al 15 del mese di Carneio, corrispondente all'attico Metageitnione (agosto-settembre); eppoi a Tera, a Cirene, in Sicilia, a Sibari. Egli è il dio che difende le biade dal morso distruttore del topo dei campi (σμίνϑος), e come tale (Σμινϑεύς) venerato nella Troade e a Rodi; e quale protettore dalle devastazioni delle cavallette lo venerano gli Eoli d'Asia, con l'epiteto di Παρνόπιος. In quanto egli impersona il calore del sole che porta a maturazione i frutti della terra, è venerato con l'epiteto di θαργήλιος: il culto di Apollo Targelio fu tra i più diffusi nella Ionia e in Atene; quivi gli era dedicato un mese, il Targelione (maggio), al settimo giorno del quale si festeggiava il natalizio del dio (feste Targelie) con la nota processione dell'εἰρεσιώνη e si purificava la città col non meno noto sacrificio dei due ϕαρμακοί. Ma, oltre gli agricoltori, anche i naviganti protegge il dio della luce, salvandoli dalle tempeste, mantenendo il cielo chiaro e tranquillo, segnando alle navi la via da percorrere: sotto questo aspetto, Apollo riceve culto specialmente nelle isole e presso i promontorî, laddove maggiori sono i pericoli per i marinai e più si sente il bisogno dell'aiuto divino. Tra i più antichi di tali culti, era quello di Apollo Δελϕίνιος, originario dell'isola di Creta, localizzato poi in altre isole dell'Egeo, specialmente ad Egine, e lungo le tappe della colonizzazione ionica, da Mileto a Massalia: in Atene, Apollo Delfinio era venerato in uno speciale santuario (il Δελϕίνιον), insieme con Artemide Delfinia, e le feste ad esso dedicate (le Delfinie, del 6 Munichione, aprile), oltre a rivestire, come le Targelie, significato ed effetto di purificazione, coincidevano col riaprirsi della navigazione.
Anche Apollo è dunque purificatore; egli può liberare stati, città, uomini da ogni contaminazione, materiale e morale. Ogni colpa deve essere purgata, se non se ne vogliano perpetuare gli effetti funesti su chi se ne macchiò o ebbe rapporto con lui; e ad Apollo si rivolge l'oppresso da una colpa o corroso da qualche tabe. La maggior parte delle saghe riconnettevano tal forma di attività del dio col rito di Delfi, e Apollo, sotto questo aspetto, era invocato con gli epiteti di "salvatore" e "purificatore" (Σωτήρ, Καϑάρσιος).
D'altra parte, la vampa del sole estivo riesce talora, col soverchio calore, dannosa agli animali e alle piante: la collera di A. è fatale a chi n'è oggetto; i suoi dardi infallibili sono allora apportatori di morte. A questo concetto è informato il mito di Giacinto (‛Υάκινϑος), il giovane amato da Apollo per la sua grande bellezza e da lui involontariamente ucciso, durante il giuoco, con un colpo di disco: dal suo sangue Apollo fece germogliare dalla terra il fiore chiamato appunto giacinto: nel quale mito si rispecchia il pensiero del breve spazio concesso alle gioie della giovinezza e della primavera, il cui fiorire finisce prestissimo sotto i raggi infuocati del sole (simboleggiati appunto dal disco), per ricominciare pur sempre al tepido bacio dell'astro stesso benigno. La saga di Giacinto fu localizzata originariamente (in tempo anteriore al formarsi dello stato spartano) in Amicle, donde passò poi a Sparta; e restò sempre connessa col culto dell'Apollo Amicleo: culto che fiorì specialmente in Sparta, ove culminava nelle feste giacinzie, celebrate per tre giorni, alla metà dell'estate. Dalla Laconia il culto di Apollo Amicleo si diffuse nelle isole doriche, a Cipro e a Creta; e lo riscontriamo anche nella colonia spartana di Taranto.
"O sole - canta Omero - tu tutto vedi e tutto ascolti" (Iliade, III, v. 277); così è naturale che Apollo sia il dio che tutto sa, non soltanto le cose passate e presenti, ma anche le future: egli è perciò il dio. della divinazione. Nelle più antiche saghe, la virtù profetica è dal dio elargita di preferenza alle donne e alle vergini: tipica è la figura di Cassandra, contrastata sempre dall'incredulità degli uomini; figure analoghe sono quelle delle Sibille, alcune probabilmente storiche, altre (come, in Italia, la cumana e la tiburtina) mere finzioni della fantasia. Ma anche negli uomini Apollo instilla talora l'ingegno profetico; l'ebbero, p. es., Anfiarao e Calcante, e parecchi dei loro discendenti. Molti sono pertanto nel mondo greco i santuarî di Apollo, ove, sotto la direzione di speciali collegi di sacerdoti, si esercitava l'arte profetica, con influssi non trascurabili sulla vita religiosa, come anche su quella pubblica e privata. Più numerose ci risultano essere state le sedi di oracoli sulla costa egea dell'Asia Minore; basterà aver ricordato quelli di Apollo Timbreo, nella regione di Troia; di Apollo Grineo, presso Mirina; di Apollo Clario, a Colofone; di Apollo Didimeo, in vicinanza di Mileto, di Apollo di Patara, nella Licia. Nella Grecia propriamente detta, più spesseggiano gli oracoli nella Focide e nella Beozia; in questa regione, furono celebri i santuarî dell'Apollo Ptoo e dello Ismenio; in quella, l'oracolo di Abe ("Αβαι). Ma il più venerato, il più ascoltato di tutti gli oracoli, fu quello di Delfi, il cui influsso fu in ogni tempo straordinario, talvolta anche decisiv0 per la storia e le sorti del popolo greco. Ivi una particolarità fisica del terreno favorì il sorgere dell'oracolo; là dove da un baratro profondo esalavano vapori inebrianti, sorse più tardi il tempio del dio; nel cui recesso (ἄδυτον) la sacerdotessa (Πυϑία), assisa su di un tripode e tutta rapita in un'estasi violenta, quasi convulsa, articolava oscure parole, dalle quali poi i sacerdoti ricostruivano il responso. Il ciclo delle feste apollinee di Delfi si estendeva per tutta la durata della buona stagione: il ritorno della divinità dagli Iperborei si salutava con le Teofanie (nel mese di Bysios), mentre, nel mese successivo, nelle feste Teoxenie, si riceveva solennemente ed ufficialmente Apollo, come ospite di Delfi; arrivati così all'estate, nel mese di Bucazio (corrispondente all'attico Metageitnione) si celebravano le Pizie, le più solenni ed importanti di tutte, famose per le gare panelleniche, che, istituite regolarmente dopo la distruzione di Crisa (ol. XLIII, 3 = 586 a. C.), vi si ripetevano di quattro in quattro anni. Delfi fu così riguardata ognora come il centro morale del popolo greco e, in certo modo, del mondo civile, e, dalla scienza più antica, anche come centro fisico, l'ombelico del mondo; e di lì largamente si diffuse il culto di Apollo Pizio coi suoi simboli del tripode e del sacro alloro. Ad Apollo Pizio si ricorreva per indicazioni e consigli ogniqualvolta si volevano fondare nuove città e colonie, nelle quali poi si serbava devoto culto al dio, soprannominato, in questo suo aspetto, 'Αρχηγέτης ed Οἰκιστής.
Meno chiaro può apparire il legame di alcuni altri aspetti della figura apollinea con la natura solare di questa divinità. Apollo è infatti il dio del canto e della musica, e quindi della poesia: forse perché, come alcuno pensa, queste arti, non meno di quelle profetiche, nascono dall'entusiasmo e dall'estasi che avvicinano la natura umana a quella divina; forse perché, come altri vuole, l'apparir del sole, al mattino, è salutato con canti, quali nessun popolo primitivo, si può dire, ignora. È un fatto che nessun'altra divinità, all'infuori di Zeus e di Dioniso, agisce, come Apollo, sugli atteggiamenti, le emozioni, le passioni dell'anima umana. Tutte le feste di Apollo erano rallegrate ed accompagnate da gare o da audizioni di musica e di poesia; e i centri principali del suo culto, quali Delfi e Delo, furono i più rinomati centri e scuole di queste arti. Lo strumento favorito di Apollo era la cetra (κιϑάρα o ϕόρμιγξ); ma anche la musica flautistica trovava posto nelle feste del dio; il quale, sotto questo aspetto, venne in rapporto sempre più stretto con le Muse (in origine, collegate piuttosto col culto di Zeus e di Dioniso), fino a formare con esse un gruppo indivisibile, nel quale già le più antiche concezioni poetiche ed artistiche assegnavano ad Apollo la parte di suonatore della cetra, alle Muse quella di cantatrici.
Come dio della musica e della poesia, come maestro delle Muse (Μουσαγέτης) e citaredo, Apollo era rappresentato in abbigliamento splendido e solenne, fiorente egli stesso di eterna giovinezza, bello e luminoso il volto, ombreggiato dalle chiome bionde inanellate (Χρυσοκόμης), maestoso nell'incedere del corpo dalle forme perfette. E pertanto Apollo veniva riguardato anche come il dio della giovinezza fiorente, collocato, quale divinità tutrice, nei ginnasî e nelle palestre, insieme con Ermete ed Eracle, venerato come protettore dei cacciatori e dei corridori (Δρομαιεύς), presiedente al crescere dei giovani sani e robusti (Κουροτρόϕος).
Gli attributi che più comunemente accompagnano o simboleggiano Apollo sono l'arco e le frecce, spesso raccolte nella faretra, che lo indicano (come talora anche la spada aurea) dio della luce raggiante, ma alludono anche alla sua attività di punitore e vendicatore; la cetra, che lo designa qual dio della musica e del canto; il tripode, connesso al culto e ai riti di Delfi, un oggetto che ad Apollo veniva spesso anche dedicato per rendimento di grazie o come ex voto; l'alloro, che richiamava la virtù purificatrice e risanatrice di Apollo, ma che costituiva anche l'ambito premio pei vincitori pitici, sicché divenne dovunque simbolo di vittoria: e il mito narrava che l'alloro era nato dalla metamorfosi di Dafne, fanciulla invano amata da Apollo e che aveva voluto conservare la sua verginità. Nel rito di Delo, al posto dell'alloro troviamo la palma. Tra gli animali, erano specialmente sacri al dio il lupo, la cerva, il capriolo.
Apollo venne prestissimo a prendere posto fra i dii novensides della religione romana; la sua introduzione sembra essere avvenuta prima della fine dell'epoca regia, se già nel 496 a. C. si consultarono per la prima volta i libri sibillini, accolti certo a Roma insieme con il culto del dio. La città da cui i Romani appresero a conoscere e a venerare il nuovo dio, fu indubbiamente Cuma, donde appunto il culto di Apollo si diffuse nella Campania e nell'Italia centrale. A Roma fu riguardato, in primo luogo, come divinità della salute: onde l'indigitazione Apollo medice, Apollo Paean, che ricorreva nelle supplicazioni delle Vestali. Poi fu venerato anche come dio della divinazione. La più antica sede del suo culto fu l'Apollinare, naturalmente fuori del pomerio, di fronte alla porta Carmentale: in seguito gli fu edificato, nel 433 a. C., un tempio (dedicato nel 431), presso il circo Flaminio; pare sia stato questo l'unico tempio di Apollo in Roma fino ai tempi di Augusto. Nell'anno 212 a. C., furono istituiti dei giuochi in suo onore (ludi Apollinares): si celebravano dal 6 al 13 luglio, sotto la presidenza del pretore urbano. A differenza di altre divinità greche introdotte in Roma, Apollo non fu identificato con alcun dio indigeno; soltanto, in progresso di tempo, si rappresentò con la sua stessa figura e i suoi attributi dell'arco e delle frecce il dio degli inferi Veiovis: e al fatto che il culto di Veiovis era riguardato come il culto gentilizio della famiglia Giulia, si deve forse lo stabilirsi d'intimi rapporti fra Apollo e questa gente romana. Al suo culto Augusto diede il massimo sviluppo, erigendo per esso un tempio sul Palatino, nel 28 a. C. Da Roma si diffuse nelle provincie, dovunque però seguitandosi a venerare il dio quasi esclusivamente come divinità salutifera.
Bibl.: L. Preller, Griech. Mythologie, 4ª ed., di C. Robert, Berlino 1887, I, pp. 230-295; G. Wissowa, Religion u. Kultus der Römer, 2ª ed., Monaco 1912, pp. 293-297; W. H. Roscher, s. v. Apollon, in Roscher, Lexicon der griech. u. röm. Mythologie, Lipsia 1884-90, I, pp. 422-449; Wernicke, s. v. Apollon, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., II, coll. 1-84; O. Gruppe, Griech. Mythologie u. Religionsgeschichte, Monaco 1906, II, p. 1223 segg.
Apollo nell'arte greca. - All'origine dell'arte statuaria greca esiste un tipo maschile, nudo, rigido, che richiama grandemente le statue egizie, e che si è abituati a chiamare "Apollo". Questo tipo dedalico, dalla figura sull'"attenti" con le braccia pendenti lungo i fianchi, la gamba sinistra portata in avanti, si trova in diversi centri artistici e deriva sicuramente dalla millenaria tradizione egizia, subito però assimilata e rapidamente trasformata dalla vivacità ellenica. In esso la Grecia rappresentava il tipo che essa prediligeva, l'efebo, nella completa nudità atletica, dal corpo reso agile e bello dall'esercizio ginnastico. Non c'è dubbio che molte di queste sculture rappresentino veramente Apollo, il dio giovane e bello; una serie numerosa fu trovata infatti precisamente nel suo santuario del Ptoion, in Beozia, ed è assai importante, perché essa (ora nella maggior parte degli esemplari al Museo Nazionale di Atene) permette di seguire anche l'evoluzione del tipo in queste prime fasi. Altri esemplari furono pure trovati nei due grandi santuarî, per così dire centrali, del suo culto, a Delfi e nell'isola di Delo, e così pure nelle isole vicine, come il colosso trovato a Nasso e la statua di Tera. Un tipo della serie nel suo sviluppo, alla fine del VI o al principio del V secolo a. C., è l'Apollo già Strangford, ora al Museo Britannico di Londra.
Naturalmente di questi Apollini primitivi, abbiamo anche testimonianza nelle fonti scritte; ricorderemo quello di legno di Teodoro e Telecle, a Samo, menzionato da Diodoro Siculo (I, 98). Questo ci fa da un lato sicuri che una gran quantità di simulacri era di legno e perciò debbono considerarsi irreparabilmente perduti, e ci porterebbe dall'altro ad accennare alla difficile e discussa questione della derivazione, o no, dell'arte dedalica da precedenti sculture lignee, che esula tuttavia da questa trattazione.
È invece importante notare che sicuramente una gran parte di questi Apollini arcaici non sono rappresentazioni del dio: nelle prime fasi dell'arte ellenica, anche per la particolare indole del suo spirito, uno stesso tipo, maschile o femminile, una volta creato, vale sia per più dei, sia per gli stessi mortali. Può, p. es., considerarsi sicuro che il celebre Apollo di Tenea (ora alla Gliptoteca di Monaco di Baviera), che rappresenta l'evoluzione più avanzata del tipo, con perfetto studio dell'anatomia e vigorosa costruzione del corpo e delle articolazioni, non sia altro che la statua sepolcrale di un efebo, rappresentato appunto nel suo aspetto di atleta.
Occorre perciò tener presente che in questa prima fase dell'arte ellenica Apollo deve spesso essere considerato un nome convenzionale. In Grecia molti e veneratissimi erano i santuarî di Apollo; oltre i già nominati, sin dall'età più arcaica esistettero quello a Termo in Etolia, il cui tempio ha dato un così gran tesoro specialmente di terrecotte architettoniche, e quello di Mileto, di cui parleremo subito, dopo aver ricordato il caratteristico simulacro di Amicle, non lungi da Sparta.
Di questo grande simulacro laconico abbiamo una minuta descrizione in Pausania (III, 19, 1), la quale purtroppo è di difficile interpretazione, tanto che i tentativi di ricostruzione sono molti e poco persuasivi, anche dopo che sotto la guida di A. Furtwängler furono eseguiti sul posto, riconosciuto con esattezza, degli accurati scavi. È però sicuro che quando verso il 550 a. C. fu chiamato dalla Ionia Baticle di Magnesia a lavorarvi, esisteva già il simulacro, fatto certamente di lamine di bronzo congiunte per mezzo di bullonatura, con la tecnica dello sphyrelaton. Il corpo era a colonna; egli portava elmo, lancia e arco. Baticle costruì intorno ad esso e sulla tomba di Giacinto (‛Υάκινϑος) un trono, adorno di sculture, che formavano quasi un repertorio di mitologia.
Ricordiamo anche l'Apollo delio, dorato, arcaico, opera di Tecteo e di Angelione, dono dei Nassî, con un gruppo di Muse.
Quanto al tempio di Mileto, è esso quello celebre di Apollo Didimeo, che di origine antichissima (come prova il solo fatto che la via di accesso era fiancheggiata, secondo il modello egizio, di leoni e di statue sedute), fu distrutto dai Persiani e poi ricostruito di dimensioni smisurate nel 330 a. C., tanto che, proseguito anche in seguito, finì con l'arrestarsi incompiuto. Grandi scavi furono fatti sul luogo e recentemente compiuti dal Wiegand. Non descriviamo questo immenso e importantissimo tempio, diptero, con un pronao di 12 colonne; ci basti accennare al simulacro che, opera di Canaco di Sicione, della fine del sec. VI, fu subito dopo portato via dai Persiani nel saccheggio del santuario avvenuto nel 494 a. C. Questo Apollo, detto Filesio, ci è ricordato da Pausania (VIII, 46, 3) e da Plinio (Nat. Hist., XXXIV, 75), ed essendo poi stato restituito da Seleuco, fu riprodotto nelle monete di età imperiale romana, quando venne l'uso che le vecchie città riproducessero in esse le statue più insigni per culto o arte da loro possedute. Questo Apollo, nella nudità atletica, con le lunghe chiome sulle spalle, era rappresentato in piedi con l'arco nella sinistra e nella destra un piccolo cervo che guardava il dio. Se ne è potuta perciò riconoscere una derivazione in una statuetta di bronzo al Museo Britannico di Londra; altra replica, o meglio rifacimento, è la bella statuetta pure di bronzo, ancora inedita, venuta alla luce due anni fa a Pompei.
Intorno a questi celebri simulacri c'è la folla di statue, ricordate da scrittori o rivelate da scavi. Citeremo il piccolo bronzo di Berlino, trovato a Nasso, con iscrizione votiva in caratteri ionici, che lo dice ex-voto al dio di un Deinagoras. Il bronzetto, che ha molti rapporti formali col tipo milesio, aveva nella sinistra l'arco e nella destra un piccolo vaso, come nei monumenti egizî, o secondo altri, ma meno probabilmente, un frutto.
Così Apollo, che aveva anche un grande santuario a Cirene (che ora si sta rivelando per gli scavi del nostro governo) è rappresentato molte volte in monete e in varî dipinti di questo periodo arcaico. Tra le monete ricorderemo il tipo di Caulonia, nella Magna Grecia, che rappresenta il dio nudo, accompagnato dalla cerva.
Sui vasi esso appare in monumenti anche notevolmente più antichi delle sculture ora ricordate e, accanto al tipo nudo, efebico, vediamo già apparire il tipo del dio barbato, vestito del lungo chitone ποδήρης e del mantello dei citaredi. Così nell'anfora di Melo, dove egli è nel cocchio, seguito da due Muse, ed è incontrato dalla sorella Artemide, e poi, a cominciare dal vaso François, in tutta la serie dei vasi con figure nere, dove però, accanto al tipo barbato, c'è anche il tipo giovanile imberbe.
Così pure appare nei rilievi, quale quello del tesoro detto dei Sifnî a Delfi, del 520 a. C., sia nella rappresentazione della Gigantomachia, sia seduto, nell'assemblea degli dei.
Tornando alla statuaria, senza naturalmente avere la possibilità di fare un elenco non diciamo completo, ma solo numeroso, ricorderemo l'Apollo giovanetto, di Onata di Egina, scultore più giovane di Canaco, e il tipo di Apollo seduto, vestito, suonante la cetra, di cui abbiamo l'originale o un'eccellente copia romana nel Museo Vaticano, nella Galleria delle statue. L'Apollo di Piombino, ora al Louvre, ancora nell'antico schema del sec. VI, è opera greca della prima metà del V. Questo magnifico bronzo, di giovane ignudo, in uno schema più progredito dell'Apollo Filesio, teneva nella sinistra un arco e nella destra un attributo o una patera. Un'iscrizione con lettere d'argento, incisa sul piede, in caratteri dorici, la dice dedicata ad Atena. È opera probabilmente di scuola sicionia.
Dello stile di transizione, tra il 480 e il 450 a. C., è invece l'Apollo detto dell'Omphalos, perché una replica romana trovata nel teatro di Dioniso ad Atene (ora al Museo Nazionale) fu erroneamente posta su un omphalos.
Apollo, che, come giustamente dice il Ducati, fu tra gli dei preferiti da quella forte generazione ellenica, creata dai guerrieri delle lotte contro i Persiani, come modello di giovane dal luminoso intelletto in un corpo impeccabile per freschezza e vigoria, è rappresentato nudo, stante, col volto dallo sguardo benigno. Ha i capelli lunghi: ma non più sciolti sul petto e sulle spalle, sì, come nell'"efebo biondo" dell'Acropoli, stretti in trecce annodate sul capo. Anche egli ha nella destra una patera di libazioni e nella sinistra un ramo d'olivo. Oltre a quella di Atene ne esistono più repliche; la più conservata è quella già Choiseul, ora al Museo Britannico di Londra; altra mediocre al Museo Capitolino. Il tipo è riprodotto anche in monete di Atene e in vasi con figure rosse. È stato attribuito, forse senza abbastanza saldo argomento, a Calamide il vecchio e identificato col suo Alexikakos.
Quest'opera del grande scultore, la cui figura si cerca di riconquistare, era in Atene; un altro suo Apollo, alto oltre 13 m., era ad Apollonia del Ponto e fu portato da Lucullo a Roma, dove divenne assai noto. Era sul Campidoglio e teneva anch'esso l'arco e un ramo di alloro nelle mani.
Un poco più recente è l'Apollo Citaredo, del quale una splendida replica di bronzo, ora al Museo Nazionale di Napoli, fu trovata precisamente nella ricca casa di Pompei detta da esso "del Citarista", e che è, secondo l'ipotesi di G. Fiorelli confermata da A. Mau, di L. Popidio Secondo Augustiano. La statua, già creduta arcaistica, è una delle più belle creazioni dell'arte greca arcaica, forse peloponnesiaca, dell'età di Pitagora, Calamide e Mirone. Nella destra teneva il plettro, nella sinistra, la lira. Il dio pur rappresentato come citaredo è ignudo, forse in ricordo dei cori degli efebi.
Altri Apollini citaredi, però vestiti, sono quello del rilievo di Taso, ora al Museo del Louvre, dell'arcaismo maturo, e la statua trovata a Roma, ora a Copenaghen nella Gliptoteca di Ny-Carlsberg, d'arte, pare, ionica del 460 circa a. C., che il Furtwängler pensò al centro di un frontone, come parallelo dell'altro con le statue dei Niobidi, trovate pure a Roma e ora divise tra il Museo delle Terme e Ny-Carlsberg.
Benché non statua isolata, ma centro di una rappresentazione mitica, si deve qui ricordare il mirabile Apollo del frontone occidentale del tempio di Zeus a Olimpia. Attribuito da Pausania ad Alcamene, con evidente equivoco, se di questo artista si vuol seguire la più comune datazione, è opera invece di un potente artista locale: questo mirabile frontone, nel quale la perfezione di forme dell'arcaismo maturo e il ritmo della composizione armonicamente si fondono, ha appunto nell'Apollo il punto fermo e centrale. Atleticamente nudo, eretto nella persona, con il braccio destro teso, dal volto severo e pur benigno, dalla chioma stretta in trecce, il bellissimo iddio placa la tempesta della lotta selvaggia ed è veramente sovrumano. Il tempio di Zeus fu compiuto verso il 456 a. C.
Uguale nobiltà di espressione e perfezione di forme presenta Apollo in due tipi di questo periodo intorno alla metà circa del sec. V: quello rappresentato da un esemplare di Mantova e da un'altra replica di Parigi, e quello la cui copia più bella, trovata nella Villa di Domiziano presso il Lago di Paola, alle falde del Circeo, si trova ora a Cassel.
L'Apollo di Cassel è un giovane atleta, nudo, che si deve attribuire piuttosto che a Fidia giovane, come pensano alcuni, a un artista attico della generazione un poco più anziana di quella di Fidia; è stato perciò attribuito a Mirone o meglio al maestro di Fidia, Egia.
Di esso si conoscono più repliche: una poco pregevole è nel salone del Museo Capitolino; una bellissima della testa nel Museo Barracco e un'altra a Firenze in Palazzo Vecchio, meglio delle altre rivelano che l'originale era di bronzo.
Probabilmente di Fidia è invece un altro Apollo che, aggiungendo alla maravigliosa bellezza corporea una dolcezza di nume benefico, trascende anche la serena impassibilità del tipo precedente. Vogliamo dire l'Apollo detto del Tevere, perché una copia di marmo, neppur ben conservata, specialmente nella parte anteriore, fu trovata appunto nel Tevere e ora è al Museo Nazionale Romano. La testa è reclinata, i boccoli gli scendono ai lati del capo; teneva forse nella destra un ramo di alloro con tenia e nella sinistra distesa l'arco. Anch'esso è completamente nudo, e non si differenzia quindi dal tipo del vigoroso dio giovanile. Un'altra replica meno bella, ma più completa, è stata trovata a Cesarea di Mauretania, la presente Cherchell, ed è conservata nel Museo di quella città.
L'originale di bronzo, dicevamo, molto probabilmente deve attribuirsi al giovane Fidia e si è fatta l'ipotesi che fosse quello che con Atena, Milziade e gli eroi attici, fu innalzato in Delfi a ricordo della vittoria di Maratona (Paus., X, 10, 1). Da scartare è l'ipotesi, pure proposta, che anziché di un Apollo si tratti di un Teseo.
Ben noto è l'Apollo rappresentato, con gli altri dei principali, nel fregio del Partenone, che è indubbiamente anteriore al 438 a. C. Seduto tra Poseidone e Artemide, il bellissimo giovane imberbe, avvolto in un ampio mantello, che lascia nuda gran parte del torso, tiene nella sinistra un piccolo arco e nella destra aveva evidentemente un ramoscello d'alloro. Di forme atletiche, fiorenti di giovinezza, egli si volge graziosamente a parlare con Poseidone. (Non crediamo, come sembra pensasse anche il Furtwängler, che sia invece da identificare con Apollo la figura che si appoggia a Ermes, che è invece Dioniso).
Contemporaneo poi alle sculture dei frontoni del Partenone stesso, di poco più recenti del fregio, è l'Apollo seduto sullo speco di Delfi, dentro il quale vediamo l'omphalos. È probabilmente un originale greco, ora al Museo Barracco di Roma.
Prima di andare oltre occorre accennare con la maggior brevità possibile al grande numero d'immagini di Apollo che troviamo nelle monete, sia di città della Grecia propria e dell'Asia, sia dell'Italia meridionale e della Sicilia. La grande diffusione che il culto del dio ebbe in tutto il mondo greco rende naturalmente comprensibile tale frequenza della sua immagine sulle monete. Tra quelle delle città siciliane oltre le già ricordate, notevolissime sono le serie di Leontini e di Catania, dai tipi del principio a quelli della metà e della fine del sec. V, e quella di Metaponto, della metà del secolo stesso, in cui Apollo porta al solito l'arco nella sinistra e un ramo di alloro nella destra. Particolarmente importante una moneta di Crotone nella quale c'è il gruppo, di Pitagora di Reggio, dell'Apollo combattente, che, il ginocchio piegato a terra, uccide il serpente Pitone.
Tornando ad Atene, nulla sappiamo dell'Apollo Parnopios che era sull'Acropoli. Pausania (I, 24, 7) ci dice solo che era di bronzo, che era attribuito a Fidia e che gli Ateniesi lo chiamavano così, perché, essendo il loro paese infestato dalle locuste, rispose loro il nume che le avrebbe cacciate dalla regione; che le cacciasse infatti lo sanno; ma non ne indicano la maniera". Ricorderemo anche un ex-voto nel Museo di Atene, di un figlio di Bacchio, in cui il dio appare seduto sul tripode fra Latona e Artemide.
Fuori di Atene notevole il tempio di Basse a 1151 m. sul mare, dedicato ad Apollo Epikourios, opera di Ictino, l'architetto del Partenone. Costruito come ex-voto per la liberazione del paese da una pestilenza, che non pare fosse quella celebre dal 440 a. C., perché, secondo Tucidide, non giunse nel Peloponneso, ma una del 430, incorporò il sacello primitivo del dio. Scoperto nel 1765 dal Blocher, fu esplorato nel 1811-12 da una società di antiquarî inglesi e tedeschi (che vendette le sculture al governo inglese per il Museo Britannico) e restaurato nelle sue parti architettoniche dalla Società archeologica ellenica tra il 1902 e il 1906. Questo tempio, di m. 38 × 14,60 dorico, periptero con 6 colonne di facciata e 15 di lato, pronao e opistodomo con 2 colonne, era uno dei templi più ammirati del Peloponneso ed è tuttora uno dei più conservati. La cella era divisa in due parti; la prima, cui si accedeva dalla porta settentrionale, ha nell'interno una fila per lato di colonne ioniche, sulle quali era il famoso fregio con la Amazonomachia e la Centauromachia, ora a Londra, e la seconda parte (l'antico sacello), divisa dalla prima da una colonna corinzia (la più antica conosciuta, essendo il tempio stato costruito con ogni probabilità tra il 420 e il 417 a. C.) con porta a oriente e l'idolo, uno xoanon, forse di legno, addossato alla parete occidentale. Pausania che descrive ed esalta il tempio (VIII, 41, 5) dice altrove (VIII, 30, 2) che una gran statua di Apollo in bronzo, alta 12 piedi, fu portata da Basse nel Foro di Megalopoli.
Senza fermarci su statue d'importanza minore, come l'Apollo detto di Salamina, ricorderemo il tipo del Citaredo dall'ampia veste ποδήρης, di cui un esemplare appartenente al ciclo dell'arte fidiaca, mutilo e acefalo, ma di grande bellezza, è conservato nel Museo Mussolini in Campidoglio e una derivazione un po' posteriore, intorno al 400 a. C., è la statua nota specialmente per l'esemplare di Monaco di Baviera (Gliptoteca) falsamente restaurata come Musa Barberini. L'esemplare, alto m. 2,42, di marmo pentelico, fu trovato nel 1678 a Tusculo nelle rovine di una villa identificata per quella dei Giulî Aspri. L'originale doveva essere di bronzo; il dio è rappresentato fermo, con la mano sinistra che tiene la grande cetra, sostenuta da una fascia al petto e con la mano destra tesa in avanti. Una statua molto vicina a questo Apollo è quella femminile conservata nella Rotonda Vaticana, e che fu trovata nell'area del teatro di Pompeo: si tratta forse di una replica della Nemesi di Ramnunte. Il tipo di queste sculture è dunque quello del ciclo di Agoracrito, il più fedele dei discepoli di Fidia.
Col sec. IV, è noto, c'è specialmente per opera di Prassitele una vera rivoluzione nel modo di rappresentare gli dei. Se Apollo già con Fidia era divenuto più snello e giovanile, con Prassitele, seguendo questa tendenza generale, diventa anche più giovane e più femmineo. Prova, la celebre statua del Sauroctono, cioè "uccisore della lucertola", che nulla certo ha più del terribile dio omerico, scatenante, con le sue saette, la peste. La statua è ben nota: il dio, giovanetto quindicenne, con viso e acconciature da giovanetta, completamente nudo, si appoggia a un albero. Il corpo ha la caratteristica flessuosità prassitelica. La lucertola è sul tronco e il dio si diletta a cacciarla con gioia di fanciullo. Varie copie di essa ci sono pervenute: una al Vaticano, trovata nel 1777 sul Palatino; un'altra al Louvre, una terza, piccola, di bronzo, alla Villa Albani ecc. L'originale era di bronzo e ne ha lasciato menzione Plinio (Nat. Hist., XXXIV, 70). Un'altra creazione che si può riportare a Prassitele, per la grande somiglianza delle migliori copie con l'Ermes che tiene il piccolo Dioniso, è quella del dio nudo, in molle abbandono e in atteggiamento di sognatore, con il braccio destro sul capo e la cetra sul sinistro. Caratteristica la testa con lunghi capelli annodati dietro la nuca con foggia veramente femminile. Molte le repliche di esso, spesso con varianti introdotte dagli scultori dell'età ellenistica. Ricorderemo quella del Louvre, quella di Dresda, una del Museo Capitolino nella stanza del Gallo morente, una del Vaticano, un'altra nel Pythion di Gortina, un'altra dalle terme di Leptis Magna, cui fu più tardi applicata una testa di Antinoo, un'altra ancora, molto rovinata, nel chiostro del Museo delle Terme, una bellissima replica della testa nel Museo Barracco, pure a Roma. Una derivazione di età ellenistica, piena di grazia, ma un po' leziosa, è il cosiddetto Apollino degli Uffizî di Firenze.
Questa creazione prassitelica deve identificarsi con l'Apollo Licio, che era nel Liceo di Atene. Luciano dice infatti nel suo Anacarsi (c. 7, trad. Settembrini): "Questo luogo, o Anacarsi, si chiama da noi Ginnasio ed è sacro ad Apollo Licio. Vedi la statua del dio, poggiato ad una colonna, con l'arco nella mano sinistra e con la destra ripiegata sul capo in atto di riposarsi dopo lunga fatica".
Per comprendere fino a che punto giunse questo, per così dire, progressivo effeminamento del dio, basta accennare al tipo, pure indubbiamente prassitelico, dell'Apollo detto di Palazzo Vecchio a Firenze, di cui conosciamo anche la replica di Petworth e quella della testa del Museo archeologico di Firenze.
Questa testa è infatti per la delicata grazia delle linee del volto e per l'acconciatura delle chiome, veramente di tipo femminile e i suoi rapporti sono strettissimi con il tipo gemello femminile, come l'Igiea di Vienna e la testa trovata di recente dalla missione archeologica italiana a Butrinto e ora, per dono di re Zog al Duce, a Roma e assegnata dal Duce al Museo Nazionale Romano.
Ma accanto a questi tipi, è forse attribuibile a Prassitele anche il tipo di Apollo Citaredo dalla lunga veste e precisamente uno di quelli della catena già da noi accennata, che s'inizia con l'Apollo della fine del sec. V del Museo Mussolini. Il Savignoni infatti attribuisce a Prassitele l'Apollo Pitio di Gortina e lo crede con altre repliche - come quella del Vaticano, nella sala a croce greca, che tanto entusiasmava il Winckelmann - copia di età ellenistica della statua di Apollo fra Latona e Artemide, che sorgeva a Mantinea (Paus., VIII, 9-1) sulla base che si è voluta identificare con quella famosa di Apollo e le Muse, nota appunto come "base di Mantinea"; anzi nell'Apollo di essa il Savignoni ha ravvisato lo stesso tipo, ma seduto. Però gravi dubbî possono sorgere sull'attribuzione proprio a Prassitele, e non al nipote, di questa scultura, fatta, come dice Pausania, "tre generazioni dopo Alcamene". Ciò che è più interessante è che una statua della serie, cioè il frammento fiorentino del Palazzo Corsini restaurato come Cerere, secondo l'Amelung; una statua colossale del cortile del Palazzo Barberini a Roma, creduta statua femminile (tra esse del resto assai simili), sarebbero, secondo il Savignoni, la replica del famoso Apollo di Scopa che, già a Ramnunte, era stato portato nel tempio di Apollo Palatino a Roma.
Plinio (Nat. Hist., XXXVI, 25) ci dice che era di Scopa; Marziale (III, 31; 29 nell'ed. Müller) ce lo descrive tra le statue di Latona e Artemide:
Deinde inter matrem deus ipse interque sororem
Pythius in longa carmina veste sonat.
Latona era di Cefisodoto il giovane, Artemide di Timoteo; esse, insieme con questo Apollo e con una figura della Sibilla, sono rappresentate nella ormai famosa base del Museo di Sorrento. Identificato in parte dall'Hülsen (in Röm. Mitt., 1894, p. 238) il gruppo fu confermato dall'Amelung (in Röm. Mitt., 1900, p. 198), che riconobbe lo stile dei due altri maestri nelle figure femminili e quello di Scopa nella figura dell'Apollo, riavvicinandolo, come è stato detto, al frammento Corsini. Anche alcune monete di Augusto e di Antonino Pio ci dànno certa conferma che questa statua era celeberrima, e costituiva uno degli anelli di questa catena di statue di citaredi.
L'identificazione invece di essa nella nota statua di Apollo Citaredo che è nella sala delle Muse in Vaticano, come centro di esse e che rappresenta il dio in lunga veste mossa dal vento, mentre canta ispirato un inno, non va accettata. Trovato con le Muse nel 1774 a Tivoli in una villa a scirocco della città, questo Apollo è d'arte posteriore e piuttosto che allo stile di Scopa si deve riattaccare a quello di Prassitele. Una replica, purtroppo acefala e mutila, è stata ritrovata tre anni fa sulla Via Appia ed è ora al Museo Nazionale Romano, altre sono a Ginevra, a Copenaghen e a Leptis Magna. L'ipotesi che la ricollegava a Scopa era accettata anche dal Furtwängler, ma non è, ripetiamo, sostenibile.
Lo stile di Scopa pare invece debba sicuramente riconoscersi, col Gardner, in una superba testa di Apollo, trovata al Mausoleo di Alicarnasso e ora a Londra nel Museo Britannico.
Di Scopa poi era l'Apollo Sminteo di Crisa in Asia Minore. Ivi era un celebre santuario del dio con un vecchio simulacro che fu rifatto da Scopa. Ci dice infatti Strabone (XIII, p. 604) che il simulacro rappresentava il dio, che era opera di Scopa di Paro e che un topo era rappresentato sotto il piede del simulacro. Da una moneta il Furtwängler pensò che questo Apollo fosse con un piede poggiato su una roccia e questa opinione fu accettata anche dal Collignon. Allora il dio, con il busto piegato in avanti, doveva sembrar giocare col topo minacciandolo con un ramo d'alloro: ne risultava quindi un vero soggetto di genere.
Al Savignoni però ciò sembra impossibile per una statua di culto, che Strabone chiama persino xoanon e mette anche questo Apollo nel ciclo precedentemente studiato. Dato però il soggetto, che doveva parere così strano a un artista del sec. IV e il caso dell'Apollo Sauroctono, pensiamo che il Furtwängler e il Collignon abbiano ragione a credere alla testimonianza delle monete.
Allo stesso ciclo delle statue di Apollo Citaredo, al quale appartiene anche quello Palatino di Scopa, il Savignoni pensa appartenesse l'Apollo che Briasside, un altro degli scultori del Mausoleo, fece per Dafne, la residenza estiva dei re di Siria. Lo troviamo rappresentato, pare, in monete antiochene e specialmente in un tetradramma di Antioco V Epifane, e non dissimile era l'Apollo Azio rappresentato nelle monete di Augusto. La statua è spesso ricordata da scrittori antichi (Cedren., Comp. Hist., p. 306 B ed. Paris; Liban., orat., 61; Joh. Malal., Chronogr., X, p. 234; ecc.); non pare possibile identificarla, come fa il Helbig con la superba statua di Apollo, restaurato in Minerva, già Ottoboni e ora alla Galleria delle Statue del Vaticano. Questo tipo, che porta un mantello doppio (diplax) è a nostro parere giustamente classificato dal Savignoni come opera del principio del sec. IV, identificabile, ipoteticamente, con l'Apollo Moiragete che Pausania vide nell'interno del tempio di Delfi, o più verosimilmente con la statua d'oro (o di bronzo dorato) che era nell'adyton, accessibile a pochi (Paus., X, 24, 4), del tempio stesso, e ciò per la somiglianza con la figura di Apollo, rappresentata insieme con Temide in un rilievo di Sparta, presso l'Omphalos di Delfi, e le due aquile d'oro che furono poi rapite e fuse dai Focesi durante la guerra santa (356-346 a. C.).
E veniamo alle opere dell'altro grande scultore che lavorò al Mausoleo, Leocare.
Di lui ci è testimoniata una statua di Apollo nel tempio di Ares ad Atene, figurata nell'atto di adornarsi con una benda (ricordiamo che il Hauser pensò, forse però a torto, che anche il diadumenos di Policleto sia un Apollo). Ma l'esame stilistico e il confronta con una celebre statua sua, il Ganimede rapito dall'aquila (Vaticano, Galleria dei candelabri), portò il Winter ad attribuirgli uno dei capolavori dell'arte antica, l'Apollo del Belvedere. L'ipotesi va trovando sempre maggiori consensi e infatti ha ogni verosimiglianza. La statua è tanto nota che basta rammentarla. Il dio procede a grandi passi, fiorente di bellezza e di gioventù; nello sguardo saettante si scorge la balda gioia della vittoria; è completamente nudo, tranne i sandali e una clamide che gli copre le spalle ed è avvolta sul braccio sinistro. La statua, copia romana di un originale di bronzo, fu rinvenuta al principio del sec. XVI; secondo alcuni a Porto d'Anzio, secondo altri a Grotta Pinta nella tenuta del cardinale della Rovere, poi Giulio II. Era mutila delle mani, che furono restaurate non bene dal Montorsoli, scolaro di Michelangelo. Questo restauro è stato recentemente tolto, ma l'effetto ne è risultato così antiestetico, che è da augurarsi sia al più presto rimesso a posto o rifatto. Ammirato dai grandi scultori del Rinascimento, ispiratore al Bernini dell'Apollo del gruppo con Dafne della Galleria Borghese, l'Apollo del Belvedere parve al Winckelmann l'espressione più perfetta dell'ideale artistico degli antichi, qualcosa di veramente sovrumano, l'immagine dell'eterna gioventù, di un'alta genialità, e, sebbene tanti capolavori si siano aggiunti ad esso, resta tuttavia una delle statue che più colpiscono il nostro spirito. Per il restauro della sinistra, si pensò tenesse l'egida, in base a una statuina di bronzo già Stroganoff, la quale però è stata riconosciuta moderna. Del resto l'idea, fondata su ciò, che la statua rappresentasse il dio vincitore sui Galli a Delfi nell'invasione del 278 a. C., non è sostenibile per ragioni di cronologia stilistica. Probabilmente, siccome porta la faretra, teneva l'arco e un ramo di alloro, come la maggior parte delle immagini del dio.
Ad esso stilisticamente assai prossimo è l'Apollo Steinhauser, ora al Museo di Basilea.
Elencate così le principali opere di scultura del sec. IV, non è possibile ricordare le minori: p. es., facendo un passo indietro, a Prassia, di Atene, scolaro di Calamide (per il Reisch, Calamide il giovane) si doveva il frontone orientale del nuovo tempio di Delfi, con Apollo, Latona, Artemide e le Muse; mentre a Eufranore, lo scultore istmio la cui figura è sempre così enigmatica, si doveva l'Apollo Patroos di Atene, di bronzo, nell'agorà, una delle sue opere principali. Se ne è voluto ritrovare una copia nell'Apollo di Centocelle nel Gabinetto delle Maschere del Museo Vaticano. Il giovanetto con la sinistra avanzata, teneva in essa l'arco e nella destra un ramo di alloro. La proposta identificazione del Patroos con l'Apollo del Belvedere è stata naturalmente abbandonata del tutto, quando si è comunemente ammesso che la statua è opera di Leocare.
Durante questo periodo la figura di Apollo è stata naturalmente molto riprodotta anche in opere di pittura. Nel naufragio di tutta la grande pittura greca dei secoli V e IV, importanti documenti sono i vasi dipinti. Li ricorderemo in seguito, accennando ai varî miti cui partecipa Apollo; possiamo dire che il suo tipo nei vasi con figure rosse ha indubbî rapporti con quello che troviamo nella scultura, sia nudo, dalle chiome adorne e dall'aspetto di fiorente e geniale giovinezza, sia vestito del lungo abito del citaredo. Nella pittura ellenistico-romana infatti più volte è rappresentato Apollo, o seduto, nudo tranne la clamide, con lira e plettro, o in piedi, con la lira o con la faretra e corona d'alloro. Si vede da ciò che nella pittura ellenistica sempre più prende piede il tipo nudo del dio; così è infatti anche nella pittura vascolare apula, che dalla greca, e specialmente dall'arte fidiaca, prende i tipi delle divinità.
Tornando alla scultura, l'arte ellenistica continua naturalmente anzitutto i tipi creati dagli artisti precedenti. Così di stile prassitelico è quel tipo di Apollo, grandioso nell'aspetto, e con pathos molto evidente nell'espressione, che è noto specialmente per la statua di Cirene, ora al Museo Britannico. Quasi completamente nudo, con un mantello che partendo dalla spalla sinistra cade sulla schiena e gli avvolge le gambe, egli si appoggia con la sinistra su una grande lira che è su un sostegno, intorno a cui si avvolge il serpente Pitone. Il braccio destro (ora mancante) era alzato; superba la testa dalle chiome fluenti e coronata di alloro. Altre repliche sono note, con variazione di attributo: una al Museo Capitolino, trovata acefala nella Villa Palombara sull'Esquilino, porta ora una testa antica non sua; un'altra al Museo Nazionale Romano, proveniente dalla villa di Q. Voconio Pollione, ecc. La più importante è quella del Museo Britannico, sia perché meglio ci dà l'idea di questo tipo del dio, che pensa una nuova melodia, sia perché proveniente da quel santuario di Apollo a Cirene, che, saccheggiato più che esplorato nei precedenti scavi stranieri, si sta ora con ogni cura scavando dalla Missione archeologica italiana.
Tipo assai prossimo a questo è quello di Petworth House, conosciuto come Apollo Egremont.
Pure al principio dell'età ellenistica, con influssi prassitelici, va riferito il tipo di Apollo Nomios, seduto nudo su una roccia, con in mano la cetra. Esso infatti, benché si trovi già nel rilievo attico con la figura dei dodici dei, è qui in aspetto idillico; era forse rappresentato nell'atto di custodire il gregge, quando, secondo il mito, serviva Laomedonte o Admeto. Due copie di colossali dimensioni, ma assai restaurate, già della collezione Boncompagni-Ludovisi, sono ora al Museo Nazionale Romano. Superbamente bello è l'Apollo nella Gigantomachia dell'altare di Pergamo, ora al museo di Berlino: ne resta purtroppo solo il torso. Il dio completamente nudo, ha nervosamente avvolta la clamide intorno al braccio sinistro e innalza poderosamente la destra; ad armacollo tiene la faretra.
Intorno al 200 a. C. si può porre l'Apollo di Tralle, città della Caria, ora al museo di Costantinopoli, nudo, col mantello. Esso è in piedi sulla gamba destra, la sinistra era forse (le gambe sono mancanti) su un rialzo; il braccio destro sul capo, nella sinistra la lira. Notevoli pure la bella testa del Museo Britannico trovata a Roma nelle Terme di Caracalla e l'Apollo, pure al Museo Britannico, trovato sul delta del Nilo, opera del I secolo a. C.
Nell'arte neoattica anche Apollo entra nella serie delle divinità arcaistiche. A questa tendenza appartengono anche le statue imitanti le arcaiche d'arte ionica; come l'Apollo col cervo della Galleria Borghese o quello col grifo della Galleria dei Candelabri al Vaticano.
Parlando dell'iconografia apollinea non si può fare a meno di accennare alle rappresentazioni di scene mitiche cui partecipi Apollo. Benché il naturale posto per parlarne sia quello del nome degli altri protagonisti del mito, pure è necessario non trascurare di nominarne almeno alcuni, come ad esempio:
Apollo in lotta con Eracle. - Tre sono le scene di lotta con Eracle: quella per il tripode di Delfi, quella per la Cerva e quella per la Lira. Di quest'ultimo episodio, del resto sconosciuto, sappiamo da Pausania (IX, 30, 1) che a Delfi c'era appunto un gruppo di Lisippo che lo rappresentava: il mito invece del ratto del tripode, benché anch'esso ignoto nelle fonti letterarie, è tra i più amati dall'arte arcaica, e per riflesso dall'arcaistica. Lo troviamo in bassorilievi e vasi dipinti e sappiamo che era rappresentato anche in gruppi statuarî, sin dagli antichissimi artisti dedalici Dipeno e Scilli (Plin., Nat. Hist., XXXVI, 10) e specialmente nel gruppo di tre artisti corinzî del tempo della guerra persiana, che Pausania (X, 13, 7) vide a Delfi, e che già precedentemente era stato messo nella decorazione del frontoncino del tesoro detto dei Sifnî. Come sappiamo dai vasi con figure nere o rosse di stile severo e dai rilievi arcaistici (p. es. il Candelabro della Vigna Verospi ora della Galleria dei Candelabri in Vaticano), la scena rappresenta il momento in cui Eracle (vestito della pelle del Leone Nemeo e armato di clava) si allontana col tripode, quando Apollo (generalmente nudo) sopraggiunge e tenta di riprender l'oggetto che Eracle non vuol lasciare.
Il mito del ratto della cerva, che è da distinguere dalla partecipazione di Apollo al ratto della Cerva Cerinite, deve essere parallelo al precedente, di cui segue lo schema e ciò perché la cerva è spesso presente alla scena del ratto del tripode e spesso accompagna Apollo. Anche di esso non abbiamo fonti letterarie e i monumenti che lo rappresentano nell'arte greca sono solo pochissimi, vasi attici con figure nere e uno con figure rosse.
Lotta col serpente Pitone. - Ricorderemo come esempî, oltre la moneta di Crotone già menzionata, alcuni dipinti pompeiani, come quello della Domus Vettiorum, in cui Apollo canta l'inno dopo la vittoria sul terribile serpente.
Apollo sul tripode nel viaggio al paese degli Iperborei. - Lo troviamo in un'idria attica con figure rosse, capolavoro dello stile severo, ora al Museo Vaticano. Il dio è del tipo del citaredo dalla lunga veste ed è armato di turcasso. Siede sul grande tripode alato ed è in atto di suonare la lira; sotto è il mare con delfini.
Apollo e Tizio. - Il mito è spesso rappresentato in vasi, sia in un cratere con figure rosse di stile severo del Louvre, sia in una grande kylix dell'Antiquarium di Monaco di Baviera, su di un'anfora di Vulci al Museo Britannico ecc.
Apollo e Marsia. - Oltre alla base di Mantinea già ricordata, lo troviamo, p. es., in un disco di marmo di Dresda, e in un candelabro di Otricoli ora al Museo Vaticano. Del Marsia, è noto, esistono due tipi che lo rappresentano appeso all'albero nel momento che sta per subire il supplizio, tipi conosciuti, per la varietà del marmo, come Marsia bianco, Marsia rosso. Dell'Apollo, che con l'Arrotino (conservato in una copia degli Uffizî) completava certo il gruppo, si conosce forse un torso trovato a Pergamo e ora a Berlino.
Apollo e Marpessa. - Il duello è rappresentato su un vaso con figure rosse ora all'Antiquarium di Monaco.
Strage dei Niobidi. - Di scuola attica della 2ª metà del sec. V, rimontante forse ai rilievi dei Κάνονες del trono dello Zeus di Fidia a Olimpia, sono una serie di rilievi, che si possono riportare a uno stesso originale, con le rappresentazioni della strage dei Niobidi. Apollo insieme con Artemide vi è rappresentato saettante.
Arte etrusca e italica. - Le scoperte di questi ultimi anni hanno rivelato alcuni singolari tipi di Apollo dell'arte etrusca. Anzitutto l'Apollo di Veio, a Roma, al Museo Nazionale di Villa Giulia, che venne alla luce negli scavi del Giglioli a Veio, sulle rovine di un grande tempio a tre celle. Si tratta di una figura di terracotta policromata, grande al vero, che rappresenta il dio, il quale, vestito di chitone e di mantello, dalle lunghe chiome, avanza a gran passi, con irata fronte. Questo capolavoro di tecnica e di potenza artistica, una delle più forti espressioni dell'arte arcaica, che, pur essendo strettamente legato alle sculture greche, ioniche, della seconda metà del sec. VI a. C., tutte le supera, specialmente nella espressione del moto e della collera divina, è dal Giglioli attribuito, per una serie di indizî di grande importanza, alla scuola di scultori in terracotta etruschi di Veio, cui appartenne quel Vulca, che la tradizione dice chiamato appunto da Veio a Roma al tempo dei re Tarquinî per eseguire il simulacro di Giove per il Tempio Capitolino. Ora l'Apollo di Veio non era isolato; insieme con esso furono trovati i resti di un gruppo di Eracle con la cerva, una testa di Ermes ecc.: un gruppo dunque di quattro figure (la quarta, evidentemente Artemide, è supponibile come compagna di Apollo) che rappresentavano Apollo in lotta con Eracle per la cerva di Delfi. Un'altra rappresentazione del mito nell'arte etrusca è in un elmo di Vulci, ora alla Biblioteca Nazionale di Parigi.
Prescindendo dalle statuette di bronzo, di tipo spesso dedalico, che, anche nell'arte etrusca, fu adoperato tanto per Apollo quanto per altri dei e per gli stessi mortali, ricorderemo lo splendido Apollo, pure di terracotta, ora al Museo di Villa Giulia, trovato a Falerii Veteres (Civita Castellana) nelle rovine di un tempio in località Scasato. Questa stupenda scultura degli ultimi decennî del sec. IV, che ricorda il tipo di Alessandro e che ha alcune caratteristiche dell'arte di Leocare, era una figura frontonale (perché in questo periodo il frontone diventa decorato anche in Etruria), evidentemente seduta. Il torso, unico conservato, con la mirabile testa, è nudo ed è nel suo genere un vero capolavoro.
Passando ad alcuni monumenti caratteristici dell'arte etrusca e italica, come specchi e ciste in cui compare Apollo, ricorderemo solo lo specchio con Dioniso e Semele ora a Berlino e la cista già Barberini, ora al Museo di Villa Giulia, nel quale Apollo appare seduto, con l'alloro nella sinistra e nella destra una patera baccellata. Davanti è un guerriero in completa armatura e tra i due l'Omphalos di Delfi col corvo; accanto ad Apollo un efebo ignudo: la scena probabilmente rappresenta Edipo nel tempio di Delfi.
In tutti questi monumenti Apollo appare sempre un giovane fiorente, con i capelli lunghi, vera espressione di anima geniale in un bellissimo e fortissimo corpo.
Ricorderemo infine una serie di vasi dell'Italia meridionale in cui Apollo compare nell'episodio della purificazione di Oreste in Delfi dal misfatto del matricidio; è questo uno dei temi della tragedia greca che più larga eco ha avuto nella pittura vascolare. Il dio è rappresentato o nell'atto di bagnare col sangue di un porcellino sacrificato il grande e infelice colpevole rifugiatosi presso il suo altare, oppure di comandare imperiosamente alle Erinni di cessare di perseguitarlo.
Arte romana. - Apollo era un dio straniero per Roma e infatti il primo tempio che gli fu consacrato (secondo la tradizione, nel 433 a. C.) era nel Campo Marzio fuori della città. L'ubicazione è stata identificata nei pressi del teatro di Marcello. Solo con Augusto egli fu ammesso sul Palatino, mentre prima era extra urbem (Liv., XXXIV, 43, 2; XXXVII, 58, 3). Questo primo tempio era ricco di opere d'arte, e vi si notava un Apollo Citaredo di Timarco (Plin., Nat. Hist., XXXVI, 35) e il gruppo dei Niobidi.
Al tempio Palatino, votato da Augusto nel 36 a. C., e del quale i poeti del tempo molto spesso hanno parlato, abbiamo già accennato. Era la più splendida costruzione dell'età augustea, di marmo di Carrara (Phoebo.... solido de marmore templum, dice Virgilio, nell'Eneide, VI, 69). Ma anche in esso le opere d'arte erano elleniche: dall'altare sostenuto dai quattro buoi di Mirone, ai tre simulacri di Apollo (di Scopa), di Artemide (di Timoteo) e di Latona (di Cefisodoto il giovane) che erano nella cella. Di essi si è già parlato: ricordiamo solo che Properzio (II, 31) parla evidentemente di un'altra statua del dio nel pronao:
Hic equidem Phoebo visus mihi pulcrior ipso
Marmoreus tacita carmen hiare lyra.
Questo Apollo nell'atrio era dunque rappresentato con la tacita cetra, mentre la canzone usciva dalle sue labbra, come giustamente osserva l'Amelung, per il significato del verbo hiare. La lira doveva essere quindi non nelle sue mani, ma presso di lui su un albero o una rupe. Inoltre, il fatto della bellezza notata da Properzio e la menzione per il simulacro di Scopa della lunga veste, fanno pensare in questo caso a un'immagine nuda del dio. Non crediamo, come osserva il Savignoni, che sia possibile che si tratti di una sola e non di due statue; ma evidentemente anche questa prima, come del resto si è già accennato, era opera greca.
Saranno state opere romane l'Apollo argenteus che era presso la via triumphalis (Corp. Inscr. Lat., VI, 2233) o l'Apollo sandalarius, celebre statua nel vico omonimo (Svet., Aug., 57)? È probabile.
Da questi indizî e dalle molte repliche di statue di Apollo fatte in età romana dagli originali ellenici, si deduce che Roma per questo dio seguì completamente la tradizione ellenica, nonostante che, come bastano a dimostrare il solo Carmen saeculare di Orazio e il tempio Palatino, il dio di Augusto, che di esso era perfino reputato figlio (Augustum natum mense decimo et ob hoc Apollinis filium existimatum: Svet. Aug., 94), dovette essere straordinariamente venerato a Roma e divenirne quasi un dio nazionale.
Come a Roma, così Apollo fu venerato fuori di essa; a Pompei il suo grandioso tempio rimonta ad età preromana, come indica l'iscrizione osca del questore Oppius Campanius, ma fu restaurato in seguito. In esso non fu trovata statua, ma un omphalos, come nel primo pilastro a destra nel cortile c'è un tripode: simboli ambedue del dio.
La statua di bronzo di Apollo, che si trovava presso la terza colonna di destra del portico (ora a Napoli nel Museo Nazionale) lo rappresenta nudo, con un mantelletto, in atteggiamento di saettatore: è una mediocrissima opera d'arte di tipo ellenistico.
Abbiamo già parlato dei rilievi arcaistici greci, e non di età romana.
Come nei simulacri, così anche nei bassorilievi o nelle scene mitiche si seguono le tradizioni elleniche; interessante per la romanità dell'arte è la serie dei sarcofagi, dove Apollo compare sia nel mito dei Niobidi (come nel celebre sarcofago di Vigna Casali, ora nella Galleria dei Candelabri al Vaticano), sia nel mito di Alceste (sarcofago di Ostia nel museo Chiaramonti, del sec. II) o in altri. Nei grandi sarcofagi poi di tipo asiatico di epoca tarda, noti sotto il nome di sarcofagi di Sidamara, per le figure maschili si riconosce quasi in tutte come prototipo l'Apollo del Belvedere; prova quanto la tradizione del tipo del dio rimanesse fissa fino agli ultimi tempi della civiltà antica. (V. tavv. CXXXIX a CXLVI).
Bibl.: Fondamentale per l'iconografia di Apollo nell'arte antica è sempre il vol. IV della Griechische Kunstmythologie di J. Overbeck, Lipsia 1889, con grande atlante in folio. Poi viene l'articolo Apollo di A. Furtwängler in Roscher, Ausführliches Lexikon der gr. und röm. Myth., I, Lipsia 1884-1890.
Qui diamo l'indicazione delle opere dove può trovarsi una riproduzione delle statue più note. Si indicano con BB. i Denkmäler d. griechischen und römischen Sculptur pubblicati da H. Brunn (e poi P. Arndt) presso l'editore F. Bruckmann; con B. l'opera di H. Bulle, Das schöne Mensch, Monaco e Lipsia 1912; con HA. il Führer durch die öffentlichen Sammlungen kl. Altertümer in Rom, di W. Helbig, 3ª ed. di W. Amelung, Lipsia 1912-1913; con D. l'opera di P. Ducati, L'Arte classica, 2ª ed., Torino 1927; con S. il Manuale di Storia dell'Arte di A. Springer, tr. A. Della Seta, Bergamo 1910; con L. la Scultura greca di E. Löwy, Torino 1911. L'articolo più volte citato di L. Savignoni fu pubblicato in Ausonia, II, pp. 16-66.
Per il tipo dedalico di Apollo: W. Deonna, Les Apollons archaïques, Ginevra 1909 e L., p. 12, figg. 4, 5, 20 e 21. Per il Ptoion, M. Hollaux, in Bull. Corr. Hell., 1886, e per Delo, T. Homolle, ibid., 1896. Per l'Apollo di Canaco, B., tav. 38, 2, D., p. 201; O. Rayet e A. Thomas, Milet, tav. 28, 2. Per il piccolo bronzo di Nasso ora al Museo di Berlino: Führer durch d. Antiquarium, Bronzen, p. 24, tav. 11; Roscher, I, fig. e col. 452. Per l'Apollo Strangford: Mon. Inst., IX, tav. 41; L., p. 14, fig. 22. Per l'Apollo citaredo seduto della Galleria delle Statue del Museo Vaticano: Savignoni, p. 67, figg. 28, 29 e 30. Per l'Apollo citaredo di Ny-Carlsberg: Glypt. Ny-Carlsb., tav. 33, p. 55. Per l'Apollo citaredo di Pompei: B., tav. 43; S., p. 212, fig. 377; BB., tav. 302; D., p. 267. Per l'Apollo dell'Omphalos: A. Conze, Beiträge zur Geschichte d. Plastik, Halle 1869, tav. 3; L., p. 14, fig. 21; BB., tav. 42; D., p. 267, fig. 329. Per la replica Choiseul: S., p. 213, fig. 378. Per l'Apollo di Cassel: M. Bieber, Die antiken Sculpturen und Bronzen des Museum Friederic. von Cassel, Marburgo 1915, n. 1, tav. 1-3; BB., tav. 463; L., p. 18, fig. 33. Per la replica Capitolina: A. Furtwängler, Meisterw., p. 77. Per la testa di Palazzo Vecchio: B., tav. 201 e BB., tav. 601. Per la testa Barracco, Cat. Barracco, n. 92; HA., I, p. 618, n. 1108. Per l'Apollo di Piombino: D., p. 200, fig. 248. Per il rilievo di Taso: S., p. 189, fig. 342; BB., tav. 61. Per l'Apollo di Olimpia: L., p. 36, fig. 77. Per l'Apollo del Tevere: BB, tav. 462; D., p. 267; L., p. 52, fig. 94; R. Paribeni, le Terme di Diocleziano e il Museo naz. Romano, Roma 1928, p. 192; HA., II, p. 122, n. 1336. Per l'Apollo del fregio del Partenone: L., p. 70, fig. 137. Per l'Apollo Sauroctono, copia del Vaticano: D., p. 409, fig. 510; M. Collignon, Hist. de la sculpt. grecque, II, Parigi 1897, p. 285; HA., I, p. 123, n. 191; copia Albani, Collignon, ibid., p. 286, fig. 116; BB., tav. 234; HA., II, p. 412, n. 1852. Per l'Apollo Licio, copia Capitolina: W. Klein, Praxiteles, Lipsia 1898, p. 162 segg.; copia di Gortina: F. Halbherr, Mon. Lincei, I, pp. 71-72; HA., I, p. 494, p. 878. Per l'Apollino di Firenze: W. Amelung, Führer Florenz, Monaco 1897, n. 69; B., tav. 69. Per l'Apollo di Palazzo Vecchio: W. Amelung, ibid., n. 21; BB., tav. 618, e la testa di Venezia: BB., tav. 619. Per la "Musa" Barberini: D., p. 314; S., p. 244, fig. 424; BB., tav. 465. Per l'Apollo Pitio di Gortina: Savignoni, p. 17. Per l'Apollo citaredo della Sala delle Muse al Vaticano: HA., I, p. 173, n. 263, e per la copia delle Terme: R. Paribeni, in Not. Scavi, 1926, p. 280. Per il frammento Corsini di Firenze: W. Amelung, in Röm. Mitt., 1900, p. 198; S., p. 288, fig. 501. Per la base di Sorrento: W. Amelung, in Ausonia, III, p. 95, fig. 1. Per l'Apollo Sminteo di Scopa: Collignon, op. cit., II, p. 245, fig. 122; S., p. 290, fig. 506; L., p. 80, fig. 150. Per la testa scopadea di Alicarnasso: Journ. Hell. Stud., XXIII, p. 121, figg. 3-4. Per l'Apollo restaurato come Minerva della Gall. delle Statue in Vaticano: Savignoni, tav. 4, figg. 19, 20; HA., I, p. 121, n. 187. Per la statua Borghese: Savignoni, tav. 7-8. Per l'Apollo del Belvedere: BB., tav. 419; B., tav. 99; Collignon, op. cit., II, p. 315, fig. 161; S., p. 301, fig. 530; D., p. 427, fig. 532; L., p. 94, fig. 182; HA., I, p. 104, n. 157. Per l'Apollo Steinhauser di Basilea, Arch. Zeit., 1878, tav. 2; Ausonia, III, tav. 4. Per l'Apollo di Dafne di Briasside, in Berichte d. Sächs. Gesell. der Wissensch., 1886, p. 20. Per l'Apollo Nomios Ludovisi: R. Paribeni, op. cit., pagina 114, n. 153; HA., II, p. 106, n. 1313. Per l'Apollo di Cirene: S., p. 360, fig. 641. Per l'Apollo di Centocelle: BB., tav. 434; HA., I, p. 164, n. 254. Per l'Apollo della Gigantomachia di Pergamo. S., p. 379, fig. 688. Per l'Apollo di Tralle: G. Mendel, Cat. des sculpt. des Musées Impér. Ottomans, II, Costantinopoli 1914, f. 169, n. 548. Per la testa delle Terme di Caracalla: B., tav. 217. Per l'Apollo del Delta: B., tav. 71. Per i Miti di Apollo, si può ricorrere all'Overbeck e al Roscher, poi alle pubblicazioni di vasi dipinti, tra cui il Répertoire di S. Reinach. Per l'Apollo di Veio: G. Q. Giglioli, in Not. Scavi, 1919, p. 13 segg., tav. 1-4; id., in Rassegna d'Arte, VII, fasc. 2, febbr. 1920; id., in Antike Denkmäler, III, fasc. 5. Per l'Apollo di Falerii: Ducati-Giglioli, Arte Etrusca, Roma-Milano 1927, p. 131, fig. 23. Per l'arte romana, v. A. Bell-Th. Ashby, A topographical dictionary of ancient Rome, 1929, s. v.