Apologia di Socrate
(gr. ᾿Απολογία Σωκράτους) I. Opera di Platone, la prima nella raccolta che abbiamo nei dialoghi platonici; non è un dialogo, ma il discorso che, secondo Platone, Socrate avrebbe pronunciato in propria difesa nel processo che terminò con la sua condanna. Combattendo le accuse (di empietà e corruzione dei giovani) presentate da Antino, Meleto e Licone, e quelle anche più temibili dei più «antichi» accusatori (per es., Aristofane), Socrate afferma la bontà e il disinteresse della sua predicazione filosofica, a cui un dio (l’Apollo di Delfi) lo ha spinto, e che egli non potrebbe quindi ripudiare ora per rispetto delle leggi umane, per timore della morte o per qualsiasi altra pena. Avendo facoltà, secondo le leggi ateniesi, di proporre egli stesso la pena, Socrate si dichiara degno d’essere nutrito a spese pubbliche nel Pritaneo, come benemerito della città: atto di orgogliosa fierezza, che doveva spingere i giudici a severità più che a benevolenza. Lo scritto è senza dubbio, tra quelli di Platone, il più legato a circostanze reali della vita di Socrate; e forse quello in cui più vivamente sono rappresentati alcuni atteggiamenti morali del filosofo, che ebbero largo seguito, e varia interpretazione, nelle diverse scuole socratiche; è tuttavia difficilissimo sceverare quanto in esso sia creazione platonica intesa a colorire la figura di Socrate. II. Scritto di Senofonte, in cui si narrano il processo e gli ultimi momenti della vita di Socrate; è molto inferiore all’omonima opera di Platone; tanto che si è tentato di negarne l’autenticità.