aposiopesi
Aposiopesi o reticenza (dal gr. aposiṓpēsis, dal verbo aposiōpáō «mi interrompo, taccio»; in latino si traduce reticentia «reticenza») è la figura retorica che consiste nell’improvvisa interruzione di un messaggio con la soppressione di una sua parte o nell’allusione diretta a qualcosa che viene taciuto.
Tra le figure retoriche, assieme all’ellissi, l’aposiopesi, interrompendo il discorso, impone un sovrappiù interpretativo (di tipo enfatico) circa le ragioni della sospensione. Queste possono comportare
(a) la brusca interruzione del messaggio e il cambio di argomento o (b) l’allusione a qualcosa che va sottaciuto o è inesprimibile. L’effetto retorico dell’interruzione si basa visivamente per iscritto sull’uso di puntini sospensivi (o «tre puntini»: …) e oralmente su una pluralità di interventi sull’intonazione e anche su codici visivo-gestuali (➔ gesti). Per queste ragioni, si è spesso collegata l’aposiopesi ai valori emotivi del messaggio (ira, rassegnazione, preoccupazione, ecc.).
La Retorica a Gaio Erennio (opera del I sec. a.C. per tradizione attribuita a Cicerone ma in realtà di autore ignoto, il cosiddetto Pseudo-Cicerone) prevede l’aposiopesi e la chiama praecisio (IV, 41) con un esempio che pone in rilievo proprio il calcolato grado di coscienza retorico-pragmatica:
La reticenza (o aposiopesi) è quando, dette alcune cose, il resto del pensiero che si è cominciato a esprimere si lascia incompiuto, così: «Non mi è data pari contesa con te, perché il popolo romano me… non voglio dirlo, perché non paia forse a qualcuno troppo arrogante; te invece ha spesso stimato degno di infamia».
Ma fu Quintiliano, nella sua Institutio oratoria, a collegare l’aposiopesi a un moto dell’animo (adfectus), nel senso dell’ira o della sollecitudine e dello scrupolo (quasi religionis), ampliando l’impiego della figura anche al passaggio da un argomento all’altro. Nel medioevo l’aposiopesi si sviluppa soprattutto in collegamento con l’idea di brevitas (come artificio per comprimere i discorsi), e in questo senso si avvicina all’allusione e alla preterizione (il dire che si tacerà qualcosa). In ➔ Dante si prospetta, attraverso la reticenza allusiva, una nuova poetica dell’inesprimibile creando una conoscenza largamente condivisa che viene taciuta. Ne sono esempi molto noti gli endecasillabi seguenti:
(1) quel giorno più non vi leggemmo avante (Inf. V, 138)
(2) Poscia, più che il dolor, poté il digiuno (Inf. XXXIII, 75)
Spesso poi in Dante la reticenza (da lui menzionata col termine tecnico, si veda preciso in Par. XXX a proposito della bellezza di Beatrice) è l’unico modo per cantare le lodi di quanto percepisce e vede (Tateo 1996).
Nei secoli successivi, Pierre Fontanier (1971: 135) la pone fra i tropi «impropriamente detti» a più parole e in particolare come figura di espressione «per riflessione» (assieme alla litote). Ma la definizione è ancora quella classica di interruzione del pensiero per far intendere, attraverso poche parole, molto di quello che si è inteso sopprimere.
In italiano, nel Novecento, l’aposiopesi ha impiego nei poeti più attenti al circuito comunicativo col lettore. Così Guido Gozzano la usa come artificio (anche visivo) di sovradeterminazione conoscitiva (3) e come modalizzatore del tempo narrativo testuale interno o per rendere il senso della conversazione (4):
(3) stupito di che? non mi sono
sentito mai tanto bambino …
(I colloqui, “L’assenza”, vv. 27-28)
(4) Verrete? Quando i manghi fioriranno …
– Sorella, già si chiudono le foglie,
trema la prima stella …
(I colloqui, “Paolo e Virginia”, vv. 79-81)
Ma è soprattutto Eugenio Montale a combinare l’aposiopesi con la preterizione, la litote e l’epifonema nella celeberrima chiusa di “Non chiederci la parola che squadri da ogni lato”:
(5) Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo
(Ossi di seppia, “Non chiederci la parola che squadri da ogni lato”, vv. 11-12)
Ancora in Montale si può notare come l’uso dell’aposiopesi preluda a un tempo di riflessione interno al testo per risolversi nell’epifonema finale:
(6) e qualcosa che va e tropp’altro che
non passerà la cruna …
Occorrono troppe vite per farne una
(Le occasioni, “L’estate”, vv. 13-15)
Nell’italiano popolare d’oggi (soprattutto nella lingua di mail e chat), l’aposiopesi ha straordinaria fortuna e conserva traccia di una oralità scritturale che tende all’inarticolato anche nei testi più sorvegliati. Si confermerebbe così una tendenza dell’italiano meno attento: quella a non concludere le frasi: come notò Italo Calvino, «vediamo che l’italiano parlato nella conversazione corrente tende a svanire continuamente nel nulla, e se si dovesse trascriverlo si dovrebbe fare un uso continuo di puntini di sospensione» (1993: 1830).
Cicerone, Marco Tullio (1992), La retorica a Gaio Erennio, a cura di F. Cancelli, Milano, Arnoldo Mondadori.
Fontanier, Pierre (1971), Les figures du discours, Paris, Flammarion (1a ed. Des figures du discours autres que les tropes, Paris, Maire-Nyon, 1827).
Gozzano, Guido (1980), Tutte le poesie, testo critico a cura di A. Rocca, Milano, Mondadori.
Montale, Eugenio (1981), L’opera in versi, edizione critica a cura di R. Batterini & G. Contini,Torino, Einaudi.
Quintiliano, Marco Fabio (2001), Institutio oratoria, a cura di A. Pennacini, Torino, Einaudi, 2 voll.
Calvino, Italo (1993), Tradurre è il vero modo di leggere un testo, in Id., Saggi: 1945-1985, a cura di M. Barenghi, Milano, Mondadori, 2 voll., vol. 2°.
Lausberg, Heinrich (1960), Handbuch der Literarischen Rhetorik. Eine Grundlegung Litteraturwissenschaft, München, Max Hueber Verlag.
Mortara Garavelli, Bice (1997), Manuale di retorica, Milano, Bompiani.
Tateo, Francesco (1996), Preterizione, in Enciclopedia dantesca, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, 6 voll., vol. 4°, ad vocem (1a ed. 1970-1978, 6 voll.).