Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Ciascuna guerra è espressione di un contesto: i modelli strategici adottati vanno letti come modelli di tipo culturale e non solo come tentativi di pianificare le azioni belliche in modo razionale; è per questo che nella storia si riscontra un’evoluzione continua dei modelli strategici, fatta di eredità, di passaggi fra periodi e conflitti diversi che portano alle diverse forme della guerra (dalla guerra totale alla guerra indiretta, dalla guerra nucleare alla guerra di guerriglia), fino a giungere, ai nostri giorni, alla guerra “virtuale” che fa uso delle armi della comunicazione oltre che degli armamenti tradizionali.
Una premessa necessaria: le strategie come modelli culturali
Carl von Clausewitz
Cos’è la guerra
La guerra non è che un duello su vasta scala. La moltitudine di duelli particolari di cui si compone, considerata nel suo insieme, può rappresentarsi con l’azione di due lottatori. Ciascuno di essi vuole, a mezzo della propria forza fisica, costringere l’avversario a piegarsi alla propria volontà; suo scopo immediato è di abbatterlo e, con ciò, rendergli impossibile ogni ulteriore resistenza.
La guerra è dunque un atto di forza che ha per iscopo di costringere l’avversario a sottomettersi alla nostra volontà.
La forza si arma delle invenzioni delle arti e delle scienze per misurarsi contro la forza. Essa è accompagnata da restrizioni insignificanti, che meritano appena di essere menzionate, alle quali si dà il nome di diritto delle genti, ma che non hanno capacità di affievolirne essenzialmente l’energia.
La forza intesa nel suo senso fisico (poiché all’infuori dell’idea di Stato e di Legge non vi è forza morale) costituisce dunque il mezzo; lo scopo è di imporre la nostra volontà al nemico.
Per raggiungere con sicurezza tale scopo occorre che il nemico sia posto nella impossibilità di difendersi; e questo è, per definizione, il vero obbiettivo dell’atto di guerra, esso rappresenta lo scopo, e lo respinge, in certo qual modo, come alcunché di non appartenente alla guerra propriamente detta.
C. von Clausewitz, Della Guerra, Milano, Mondadori, 1970
Le strategie – e le corrispondenti pratiche militari – non sono soltanto modi di pianificare le azioni belliche in vista del conseguimento di scopi o fini politici attraverso l’utilizzo di strumenti (secondo quella che è la tradizionale e più comune definizione), ma sono anche rappresentazioni e modi di espressione di una cultura. Elemento, questo, di tipo antropologico, talvolta sottovalutato dagli studi sulla guerra, che consente invece di valutare l’interessante legame fra la “vita” delle culture e delle forme di produzione culturale e l’ambito della “messa a morte”, dell’agire polemico-bellico.
Per studiosi come i francesi Alain Joxe (1931-) o Jean-Paul Charnay (1928-), fra i maggiori rappresentanti di questo approccio di tipo culturologico, una strategia di guerra è una “teoria della cultura” inserita all’interno di una storia delle diverse “civilizzazioni” delle forme di violenza: di una storia del disordine. Una storia delle forme della guerra – come sostiene Gérard Chaliand – sarà allora fatta di grandi opposizioni in lenta trasformazione, attraverso sviluppi non lineari: ad esempio sarà segnata da scontri tra gruppi diversi (nomadi e sedentari) o dall’evoluzione delle forme e degli scopi della battaglia (dalla battaglia “decisiva” e di annientamento alla battaglia fondata – come nelle cosiddette “strategie indirette” – sull’idea dell’evitare la battaglia stessa).
Motivazioni tematizzate e codificate dalle diverse società – differenze fra ordini e classi, desiderio di potenza, definizioni di razze ed etnie – spingerebbero al costituirsi di forme di “incitamento alla strategia” (Charnay). Tali forme di “pressione” culturale (legate al territorio, ai gruppi, ai confini e a vincoli geografico-naturali che tendono poi nel tempo a diventare geo-strategici) porterebbero “dall’accettazione del conflitto all’organizzazione della sua gestione” attraverso piccole “macchine tattiche”: da gruppi di guerrieri sul territorio, alla guerriglia strutturata, per poi arrivare a organizzazioni macro-strategiche di tipo operazionale (legate alla pianificazione di azioni concrete poi sempre più astratte e generali). Le tecnologie, come ci ricordano non solo gli antropologi, ma anche gli storici degli armamenti, divengono qui espressione materializzata, incarnata storicamente e culturalmente, dei programmi di azione. Anche gli armamenti, quindi, non fanno storia a sé: devono essere pensati come risultati di ragionamenti strategici e rappresentazione di modelli di azione culturalmente collocati. I modelli dell’agire si accumulano nel tempo e nello spazio, determinato sia dai luoghi delle battaglie, dalle geometrie e topologie dei combattimenti, che dagli itinerari di conquista, dalle linee geopolitiche di sviluppo delle forme di potere.
Secondo Joxe la guerra sarà da intendersi come momento del confronto armato e della gestione del “circuito culturale” della violenza (infra e inter-societario). Connessa a questa definizione è la questione inerente i dispositivi tattico-strategici di manipolazione: intesi come modi di gestire, anticipare, interpretare l’agire dell’“altro”, dell’avversario; nel loro generalizzarsi, essi tendono ad assumere, all’interno delle diverse forme di confronto, un’importanza sempre maggiore.
La strategia di guerra: un modello che cambia con i tempi
Il padre della moderna polemologia, il teorico prussiano Carl von Clausewitz (1780-1831) sostiene che la guerra si caratterizzi come un atto di forza che consiste nell’obbligare un avversario a sottostare alla propria volontà. Egli riconosce, però, nei fenomeni bellici anche una camaleontica mutevolezza: il combattimento – con le sue regole più o meno codificate e così diversificate nel tempo – sembra divenire quasi indefinibile nei suoi limiti di durata, di spazio e di tempo, specie oggi, nelle forme che ha assunto negli ultimi decenni.
Anche il termine “strategia” oramai da molti decenni ha allargato la sua sfera semantica: si può parlare di strategie di marketing, di strategie di sviluppo e d’impresa, così come delle strategie di ricerca scientifica all’interno di un laboratorio ecc. Alcuni studiosi, come ad esempio Hervé Coutau-Bégarie, affermano – pur riconoscendo questa dilatazione del concetto di strategia – che il tenere insieme sotto un’unica categoria-ombrello fenomeni tanto diversi è tanto inutile quanto pericoloso. Nelle lotte economiche la vittoria di un concorrente non significa necessariamente la distruzione e la rovina dell’altro; e la competizione economica non degenera necessariamente in un duello. Tuttavia, la trasformazione subita negli ultimi tempi dalla guerra e dalle sue forme strategiche, insieme al fenomeno della globalizzazione inteso in senso culturale, spaziale e temporale, porta a una sempre maggiore indistinzione e ibridazione del concetto di strategia. Infatti di recente si manifestano sempre più guerre condotte con strumenti economici e lotte economiche condotte attraverso pratiche belliche; si tratta di forme di guerra che non prevedono più la distruzione o l’abbattimento dell’avversario, ma livelli diversi di “degradazione” e assoggettamento.
Pur tenendo conto di queste novità, possiamo comunque affermare che una strategia di guerra, in primo luogo, ragiona e progetta in termini di potenza; quindi pianifica e opera attraverso mezzi violenti; ha per fine la distruzione dell’altro; opera in un ambiente conflittuale; e da ultimo si presenta come arte del comando in vista di queste finalità e con tali mezzi. In questo senso il generale Lucien Poirier, teorico e padre della dottrina nucleare francese, afferma che, se da un lato il concetto di strategia si è talmente ampliato da alimentare una sorta di discorso retorico fino a incorrere nel rischio di una banalizzazione, d’altra parte, è anche vero che tale ampliamento semantico può davvero significare un cambiamento nel modo di concepire l’“agire” all’interno della nostra cultura. Max Weber (1864-1920) – riguardo le diverse forme di agire, e quella tipica dello “spirito del capitalismo” – aveva parlato di “agire razionale rispetto allo scopo”. Altri studiosi, come Hans Habermas (1929-), o i sociologi Michel Crozier (1922-) ed Erhard Friedberg (1942-), riprendendo il pensiero di Weber, hanno in seguito insistito proprio sul concetto di agire strategico: dietro questa estensione dell’idea di strategia (e di quella parallela di guerra), pare esserci una vera e propria trasformazione culturale avvenuta alla metà del XX secolo.
La trasformazione dell’idea stessa di strategia ha avuto corso negli anni successivi alla seconda guerra mondiale, in particolare con l’avvio della guerra fredda. Questa tendenza al progressivo allargamento del concetto – come afferma lo stesso Poirier – era già da tempo presente e preannunciata all’interno degli studi militari: un grande teorico e stratega dell’era cosiddetta classica, antecedente cioè alla seconda guerra mondiale – Alfred Thayer Mahan (1840-1914) – invocava, già nel 1911, una “strategia navale in tempo di pace”. Altri fondatori delle moderne concezioni strategiche integrali, come l’ammiraglio Castex (1937-), parlavano, qualche anno dopo, già dell’avvento della strategia come “arte generale del comando e delle operazioni”, in grado poi di estendersi su tutti gli spazi possibili (marittimo, terrestre, aereo): la grande stratégie o stratégie générale.
Le cause di questo ampliamento del concetto di strategia crediamo siano da imputare soprattutto alla percezione delle trasformazioni storico-politiche. La guerra è diventata prima “totale” e poi, ai giorni nostri, “globale”, tanto da essere percepita oramai come una sorta di presenza costante nella nostra società e soprattutto si è dilatata sempre di più – temporalmente e spazialmente – uscendo dai campi di battaglia tradizionali. Ecco che il frutto di un tale cambiamento di percezione consiste in una trasformazione sia di pratiche, sia di pensiero, sia di punto di vista.
La “crematistica” del conflitto: la guerra fine a se stessa
Ai giorni nostri la guerra – forse similmente al sistema capitalistico – è in grado, di inglobare, parassitare come fosse un organismo capace di produrre apparati e strumenti di cattura, di colonizzare e invadere altri spazi e altre forme di vita.
Alain Joxe, di recente, a proposito delle nuove forme della guerra globale permanente post 11 settembre (in particolare in Afghanistan e Iraq), ha parlato di “crematistica” della guerra, riutilizzando l’antico termine ripreso dalla Politica aristotelica. In quest’opera la crematistica, intesa come arte di produrre ricchezza attraverso la ricchezza (la moneta), veniva contrapposta all’economia intesa come capacità di produzione di beni. Applicando lo stesso concetto all’ambito bellico, Joxe sostiene che se il fine della guerra è la guerra stessa, non vi è più fine alla guerra. Anche se si potrebbe obiettare che nelle attuali forme della guerra globale i fini siano dichiarati (abbattimento di regimi tirannici, cattura di terroristi come Bin Laden, punizione di “Stati-canaglia”). A volte fin troppo dichiarati tanto da risultare pretestuosi. Di qui l’ipertrofia della guerra attuale. Essa si dilata nel tempo e nello spazio: nel tempo, in quanto non dichiara un proprio inizio e decreta una fine totalmente arbitraria; nello spazio, in quanto confonde la politica interna con quella estera e – come dice Joxe – non è più solo violenza statuale esercitata verso l’esterno, ma si mescola con operazioni di polizia interna.
Spesso ai nostri giorni la guerra assume la forma di spedizioni punitive. Tale metodologia necessita di una estesa rete organizzativa e logistica. La sua forma generale è quella dell’incursione, assai spesso accompagnata dal dispiegamento di una potenza militare-tecnologica e logistica notevole che le fa prendere le forme di una guerra totale, anche perché spesso ricade su obiettivi civili, provocando così vere e proprie regressioni, degradazioni e sprofondamenti di intere società e nazioni a ere preindustriali (è stato il caso dell’Iraq o della Serbia). Spesso si tratta di spedizioni “in stile coloniale” ma che non comportano – afferma Joxe – né la cultura, né la conoscenza, né la curiosità antropologica degli imperi coloniali; spedizioni che si trasformano per necessità contingente – per motivi sia logistici che di attitudine politica di tipo imperiale – in occupazione permanente (con la creazione di immense basi, come in Bosnia, Kosovo, o in Asia centrale) che portano inevitabilmente la vita della nazione al caos. Infine va anche tenuto in conto che tali forme di guerra sono intrinsecamente “mediatizzate”, ossia progettate per essere viste, o comunque, raccontate in televisione e dai media.
Se, con il caso dell’Iraq, la guerra, nella sua forma di lotta al terrore, si è “deterritorializzata” nel suo definirsi “globale”, oggi essa pretende di ritrovare un suo territorio – magari nei deserti o sulle cime innevate del confine afghano o forse, in un prossimo futuro, ancora nei Balcani – riqualificandosi come classica guerra di “terreno”, quasi che il modello attuale di guerra abbia necessità di ritrovare degli scenari tradizionali (la battaglia di una volta, con le sue mischie, le sue nebbie e i suoi fumi), degni di una classica rappresentazione guerresca. Ancora una volta, in questo emerge quella che definiamo l’attitudine “retorico-narrativa” della guerra attuale sfruttata dai media: essa, agendo, ostenta e rappresenta i propri caratteri.
La regola di questa nuova grammatica della guerra sta nell’incoerenza dei nuovi “conquistadores”, le cui reali motivazioni sono spesso nascoste dietro falsi pretesti di guerra: le attività belliche per questo sono governate dall’incoerenza e le scelte strategiche e operazionali sono strettamente legate alla contingenza che spesso offre nuovi motivi: guerre o spedizioni esterne si trasformano sovente in guerre civili interne, guerre di comunità, conflitti etnico-religiosi ecc. (pensiamo alla Somalia, all’Iraq, ma in parte anche alla Bosnia).
Le pratiche e le azioni delle nuove guerre non solo hanno intrecci con interessi commerciali ed economici, come già in passato, ma – ecco la novità – arrivano a indentificarsi con attività commerciali, speculazioni immobiliari o economico-finanziarie che mirano comunque alla distruzione/sottomissione del nemico per trarne profitto. Si pensi alle imprese multinazionali coinvolte direttamente nella logistica, ma anche nelle ricostruzioni postbelliche; alle operazioni bancarie e finanziarie, spesso accompagnate da omicidi o da azioni violente eseguite per mano militare che simulano rapine (come nel caso degli assalti-rappresaglie alle banche accusate di finanziare acquisti di armi ed esplosivi, verificatisi nel corso del conflitto israelo-palestinese); all’ammistrazione della giustizia che diventa strumento di vendette ordite dallo Stato contro singoli soggetti; o alle forme di guerre “transfrontalierie” – tema ricorrente anche all’interno del dibattito politico sulla sicurezza della nostra società contro il terrorismo – ossia alle operazioni militari di controllo di nuove o antiche frontiere (pensiamo al caso del controllo delle rotte dei migranti nel Mediterraneo o alla frontiera Messico-Stati Uniti).
Sembra riemergere ai nostri tempi – sempre secondo Joxe – l’antica idea della necessità di domare i “popoli fieri” (predoni, barbari e banditi ai bordi dell’impero) attraverso spedizioni punitive contro gli infedeli e ripartizione di premi per i fedeli. Si ritiene che così si potrà evitare che quei popoli, sempre pronti alla ribellione, insorgano suscitando la necessità di nuove guerre di spedizione. Ma in realtà così non è perché nuove guerre sussumono e inglobano conflitti precedenti, trasformandone i caratteri o accentuandone le valenze. Pensiamo ancora al caso del conflitto israelo-palestinese, che ai nostri giorni viene integrato nella lotta globale al terrorismo: lo Stato di Israele – dice Joxe – ancora di più rispetto ai tempi della guerra fredda, accentua il suo ruolo-simbolo di estremo baluardo della civiltà, ma è oramai ridotto a “un esperimento di un modello di guerra urbana stereotipata, con i suoi cicli miseri e sanguinanti di attentati e rappresaglie”; una guerra urbana che produce territori tristi, spezzati da check-point, da muri e corridoi, da enclave e da bantustan, da nuove forme di apartheid.
Un altro elemento di novità pare essere quello della diffusione a livello mondiale – potremmo dire della “globalizzazione” – dei kamikaze, gli uomini-bomba che seminano terrore e massacrano civili nei ristoranti, nelle stazioni e negli autobus. Tuttavia, interpretando tale fenomeno con la coerenza dell’approccio “scientifico” (culturologico, sociologico), dobbiamo ammettere che si tratta pur sempre, in senso semiotico, di “attori”, ossia di manifestazioni terminali di processi, di valori e di forme articolate di violenza governate da volontà criminali che hanno nomi precisi. Dal punto di vista semiotico, infatti, gli uomini-bomba sono definiti “ibridi”: esseri compositi – per dirla con Paolo Fabbri e con Bruno Latour – che hanno una dimensione che potremmo definire logistica-organizzativa (organizzazione degli attentati, reclutamento dei corpi che fanno da vettore di esplosivi) e un’altra legata a dinamiche valorial-passionali e affettive (frustrazione, senso di impotenza rispetto alla forza dell’avversario, clima di paura sentito fin dall’infanzia, anche racconti di indottrinamento, al tempo stesso pensati per i media e magari registrati in una videocassetta). Infine, si tratta pur sempre di “atti in interazione” (come già sosteneva Clausewitz) con quello che fa – o mostra di poter/voler fare, o farà – il nemico.
La guerra totale
Considerando l’attività bellica nelle sue pratiche codificate e tradizionali, lo storico olandese Johan Huizinga (1872-1945) aveva ipotizzato che la guerra moderna, grazie all’introduzione del diritto e delle convenzioni internazionali, potesse mettere fine al ciclo della vendetta (o comunque alla violenza incontrollata e privata). Oggi, invece, la vendetta sembra ibridarsi con la guerra stessa. Se, come abbiamo già visto, Clausewitz aveva evidenziato il tratto camaleontico della guerra, oggi questo concetto ha assunto il carattere di una profezia realizzata. Sempre secondo Clausewitz, la guerra di fatto consisteva nel gestire e nel trasformare in azioni la “tendenza ai tre estremi” a cui sono spinti i due contendenti: in primo luogo la tendenza reciproca all’impiego senza limiti della violenza, ottenuta attraverso il medium delle armi, e attraverso la ricerca di armi sempre più potenti; quindi la tendenza reciproca all’abbattimento dell’altro, mossa dal timore che “se io non lo faccio, sarà lui a farlo”; infine il calcolo della resistenza dell’altro. Paradossalmente proprio questo ragionamento rendeva possibile il controllo della guerra entro i suoi limiti.
Ai nostri giorni, invece, la guerra, rende immediatamente possibile – anche se talvolta in modo virtuale – questa ascesa verso forme di violenza sempre più aspre. Per Clausewitz “toccare l’estremo” non significava arrivare alla guerra assoluta attraverso una escalation – come invece è stato spesso malamente interpretato il pensiero del generale-filosofo, accusato di essere il responsabile teorico dei massacri delle trincee della Grande Guerra o dell’escalation nucleare degli anni della guerra fredda – ma gestire questi “estremi” nell’ambito di una subordinazione del comando militare alle decisioni politiche. Oggi, i momenti di questa “scalata” si confondono sempre di più: si rimescolano i diversi livelli e i tempi si fanno concitati (Joxe); potenza tecnologica, innovazione tecnica e gestione logistico-economica si confondono con le strategie politico-militari, che ottengono consensi tramite i mezzi di comunicazione, il lavoro di lobbying e la propaganda.
Oggi – talvolta come forma di minaccia, spesso come azione effettiva – si dispiegano in campo tutte le potenzialità distruttive di questa metaforica e caotica scalata alla guerra assoluta, come gli antichi guerrieri si pavoneggiavano della loro panoplia: dalla minaccia di uso di “mini-bombe” nucleari (enorme potenza concentrata ad alta tecnologia) al dispiegamento di intere armate per grandi spedizioni punitive e di conquista; dalla dimostrazione di tutto il sapere in termini di tecnologia, precisione, rapidità, forza, all’ostentazione della potenza economico-politica fino a quello che pare essere un ideale contrappunto a tale scalata al caos della “nuova” guerra: il terrorismo.
Gli attori mutevoli dell’azione bellica
Ritorniamo al concetto di strategia che ci pare utile per connettere teorie e pratiche dell’azione a forme culturali. Strategia sarebbe, per quanto detto sopra, l’organizzazione di attori che pianificano e deliberano decisioni, tenuto conto delle trasformazioni culturali in cui queste si sviluppano, e che incidono chiaramente sulle “condizioni di terreno”.
L’approccio strategico (secondo Joxe) consisterebbe nell’analisi delle “identità decisionali”, qualunque sia la loro forma organizzativa, e di tutto quello che è “implicato nella lotta a morte” – per esempio i contenuti culturali che definiscono vita e morte in una data società – e nel tener conto del prodursi di forme spaziali e temporali che delimitano il terreno della loro lotta.
Gli attori concreti saranno così una sorta di “luoghi di convergenza” di diverse componenti (dai valori che compongono i significati delle azioni e le motivano, ai programmi e ai processi che organizzano queste azioni) e al tempo stesso figure che vanno a costituire i sistemi di rappresentazione dell’azione e della guerra. Ecco, quindi, in parte spiegato il nesso rappresentazione-azione, figure-prassi: si tratta, anche per quanto riguarda la guerra, di un nesso prettamente semiotico, dei modi di costruirsi del significato interno alle stesse forme della guerra, per quanto esse siano complesse e stratificate.
Queste forme della guerra si legano chiaramente alla questione dell’interpretazione delle mosse dell’“altro”: con l’avversario si crea, di fatto, sempre un principio di condivisione di metodologie e pratiche, anche nelle situazioni conflittuali. In questo senso lo stesso generale Lucien Poirier afferma “il postulato del linguaggio comune con l’avversario” (perlomeno all’interno di una forma strategica riconosciuta, condivisa e relativamente stabile: si pensi al caso della Mutual Assured Destruction che stava alla base dell’equilibrio del terrore durante la guerra fredda).
A ogni modo, molti studiosi, sia in campo strategico che semiotico, sottolineano come al di sotto delle interazioni conflittuali, vi possano essere diversi modelli di “razionalità polemologica”, come si può dire dei diversi modelli culturali di strategia, come ad esempio quella cinese – studiata da François Jullien (1951-) –, orientale o araba (indagata dal già citato generale Poirier, o negli studi di Juan Aldama sulla figura di Lawrence d’Arabia). Tali diverse forme di razionalità strategica comportano differenti modelli di “sintassi dell’interazione”: diverse regole di organizzazione sequenziale delle dinamiche del confronto (attuate, ad esempio, con procedure di enfatizzazione o, al contrario, di “sordina” operata sulle regole stesse, nel corso dell’interazione stessa).
Dunque la strategia si manifesta più come un insieme di “regolarità” nei comportamenti interattivo-conflittuali, che non di norme da seguire: si tratta piuttosto di vincoli, frutto anch’essi di continue negoziazioni da parte degli “inter-attori” dotati di un potere e di una competenza: “molecole di base” delle soggettività e delle identità costituite che agiscono nel concreto delle situazioni.
Strategie virtuali
L’ampliamento delle applicazioni del concetto di strategia ha il suo “grande evento” nell’inizio della guerra fredda. Dobbiamo chiederci in cosa sia consistito tale cambiamento di pensiero, che porterà allo sviluppo della scuola americana di strategia – un nome su tutti è quello di Thomas Schelling – ma anche alla nascita e sviluppo di una scuola europea, grazie in gran parte all’intenso lavoro di riflessione svolto in Francia. Pensiamo appunto ai lavori di Thomas Schelling, in particolare a Strategy of Conflict del 1963; o ai classici studi di Herman Kahn in Thinking about the Unthinkable del 1962; mentre, per quanto riguarda l’esperienza francese, si pensi al già citato Raymond Aron in Penser la guerre, Clausewitz (1976), al testo di André Beaufre Introduction à la stratégie (1976), e di Gérard Chaliand, Anthologie mondiale de la strategie (1990) fino a Jean-Paul Charnay (1995) e Alain Joxe; e allo stesso Lucien Poirier in Essais de stratégie théorique (1982).
La risposta del generale Poirier ci conduce in direzione di una vera e propria “semiotica della strategia”. Le armi nucleari ampliano sempre di più la possibilità di utilizzare non già il ricorso alla forza, ridotto nella sua praticabilità, ma la minaccia. Prevale l’idea di una dissuasione, di un potenziale impiego dell’arma, che, di fronte a una minaccia, agita una controminaccia.
In questo senso i teorici e gli studiosi della guerra fredda hanno articolato tale categoria non certo pensando a un’impossibilità assoluta della guerra nucleare, ma a una sua declinazione relativa. Anzi, uno dei più noti strateghi della guerra fredda, Herman Kahn, contestando vigorosamente la visione di una “fine del mondo” causata dalla guerra termonucleare (e in qualche modo bollandola come argomento “tipico di scienziati e intellettuali idealisti dell’Occidente”), affermava la necessità di predisporre scenari che concepissero la credibilità della minaccia verso l’avversario, convincendolo che se avesse attaccato per primo avrebbe pagato un prezzo insostenibile. Insomma, si trattava di “pensare l’impensabile” (come recitava il titolo di un celebre libro di Kahn) pur con la certezza che “si sarebbe usciti vivi” e comunque meglio degli avversari; l’obiettivo era quello di dimostrare determinazione.
Naturalmente ciò avveniva in modo reciproco, anche se la letteratura sovietica aveva ovviamente una circolazione piuttosto ridotta almeno fino agli ultimi anni della guerra fredda (si pensi agli scritti degli strateghi sovietici come Nikolai Ogarkov e Vasily Sokolovsky).
Ecco allora che (ad esempio nel lavoro di Kahn, On Thermonuclear War del 1960) si articola un vero e proprio paradigma interno alla stessa categoria semantica di “minaccia” volta a evitare lo scoppio della guerra o a ridimensionarne i danni. Questo paradigma si sviluppa in scenari di comportamento in vista di una possibile scalata all’impiego degli armamenti (specie per quanto riguarda la superpotenza degli USA). Il concetto di “minaccia” di guerra si lega a una declinazione di categorie diverse della “garanzia” contro la guerra. È il caso della teoria della “deterrenza minima” basata sul possesso di un armamento missilistico nucleare minimo, al minor costo possibile, tale da dissuadere da eventuali attacchi i nemici “ragionevoli”, ossia consci dei rischi dell’uso di armi nucleari (dissuasione “finita”). A tale proposito, va tenuto presente che la stessa idea di dissuasione si arricchisce – in una fase avanzata della guerra fredda (fino agli anni Ottanta) – del concetto di dissuasione “realista” e “qualitativa”, adottato da strateghi sovietici come Ogarkov, consistente nel far comprendere che le nuove armi nucleari sono più potenti, e dunque più “convincenti”. Successivamente il paradigma viene arricchito di due nuovi gradi: l’attacco limitato preventivo (“contro-forze” in caso di impossibilità di impiego della deterrenza finita) e l’attacco preventivo generalizzato e definitivo (teorizzato da Kahn).
Il modello di Kahn, relativo alla scalata agli armamenti atomici e alla “gestione” della guerra nucleare, prevede due poli estremi: da un lato un “governo mondiale” amministrato da un’unica superpotenza vincente o da più superpotenze egemoni (e in grado di controllare eventuali potenze ribelli); dall’altro futuribili progetti di difesa impenetrabile alle salve nucleari nemiche.
Queste strategie si inseriscono in quella nuova dimensione che gli studiosi di conflitto definiscono proprio come “guerra semiotica” che si serve, appunto della “gesticolazione strategica”: la guerra verrà d’ora in avanti considerata soprattutto come un teatro di possibilità, un campo virtuale di “voleri”, per mostrare all’altro le proprie volontà, le proprie intenzioni e le proprie potenzialità. Dunque, lo spazio di interazione e di comunicazione con l’altro diviene ora fondamentale come vero e proprio campo di manovra relativamente autonomo.
“Immagini”, spazi e tempi delle strategie virtuali
Ed è per questo che, a detta degli stessi esperti militari, possiamo parlare di vera e propria semiotica di guerra: semio-guerra. Il generale Poirier parla di una categoria di “immagini” in base alle quali si rappresentano le origini, le condizioni, le modalità di una eventuale azione bellica nucleare, e in particolare si chiede: come tali immagini influiscono nelle valutazioni e nelle decisioni dei politici che governano il mondo?
Crediamo sia proprio questo il punto nodale che lega guerre e sue rappresentazioni; ma, soprattutto, il punto di svolta sta in quella che possiamo ora definire la “strategizzazione delle immagini e delle rappresentazioni della guerra”. Iniziata anch’essa con la guerra fredda, evidentemente ha raggiunto la sua apoteosi solo ai giorni nostri, con le guerre mediatiche e globali. Lo stesso Poirier prosegue sottolineando che il potere di queste immagini consiste sostanzialmente nella potenzialità della “panoplia balistico-nucleare”, nell’offerta cioè di scenari e di visioni di distruzione (proprio come sostiene Kahn) che intervengono nel corso delle grandi decisioni politiche.
Una virtualizzazione della guerra ne trasforma le dimensioni e lo stesso significato: le sue ultime conseguenze sono che la guerra, intesa in senso specifico, diventa soltanto uno dei possibili modi della violenza armata (Poirier, 1997). E lo stesso ricorso alla forza diviene soltanto una delle possibili opzioni all’interno di un campo di manovre strategico che comprende anche “armi semiotiche” come quelle della minaccia, della dissuasione, della manipolazione, della sanzione.
Crediamo, a questo proposito, che all’interno di questa virtualizzazione e semiotizzazione della guerra rientri anche quella linea di sviluppo della teoria strategica definita come “strategia indiretta”; anzi ne costituisce un ottimo esempio, nonché un suo possibile esito, un suo corollario ma anche una sua generalizzazione.
A questo proposito, André Beaufre, altro teorico della strategia nucleare e fra i maggiori esponenti della scuola francese, ci ricorda – riprendendo gli sviluppi di uno dei più importanti teorici della strategia, Basil Liddell Hart (1895-1970) – che tale strategia indiretta ha origini molto antiche, sottolineando così, ancora una volta, l’importanza della trasmissione di “forme” e di “gesti” tattico-strategici, che nella tradizione delle culture bellico-strategiche fondano le pratiche e il pensiero, prima ancora che le tecniche. Beaufre, a questo riguardo ricorda come un gesto tipico di strategia indiretta è quello di Alessandro Magno che prima di marciare sulla Persia si impossessa di Palestina ed Egitto o quello degli Alleati che sbarcano in Africa del Nord nel 1942. Lo scopo è quello di rovesciare i rapporti di forza “per manovra” e non “attraverso il combattimento” che di solito è anticipato. Tuttavia l’approccio indiretto si fa propriamente manovra strategica quando si generalizza e diviene manifestazione di decisioni strategico-politiche più ampie, che vanno anche al di là della vittoria militare. Ecco che allora la strategia indiretta – non lontana dai modelli “orientali”, ma diffusissima anche in Occidente – è caratterizzata da manovre pensate per una molteplicità di scopi e obiettivi apparentemente secondari: per vie “esterne” e su uno spazio globale, attraverso tecniche della dissuasione, o per “manovre interne”, attraverso il raggiungimento di obiettivi limitati e di continuo interrotte da negoziazioni. È questo il caso di Hitler dal 1936 al 1939 con il continuo avanzare, colpo dopo colpo; o, sul versante opposto, quello difensivo, il caso degli Israeliani nelle diverse campagne del Sinai.
Guerra totale e strategia indiretta, guerra preventiva e pace preventiva
La forma strategica indiretta – il “modo minore” della guerra totale, come dice Beaufre riprendendo in modo evocativo la forma musicale che sottolinea la virtualità della forma maggiore – è caratterizzata da tattiche specifiche, come quella dello “sfogliare”, del colpo dopo colpo, detta anche del “carciofo”.
L’alternativa è il modello della guerra totale: è il caso della prima guerra mondiale che dà inizio al “secolo breve”, il Novecento, secondo la definizione di Eric Hobsbawn (1917-2012). Si tratta di una guerra condotta con una progressiva escalation di mobilitazioni, che danno luogo a un impiego crescente di uomini e mezzi, e che tuttavia presto si ripiega su se stessa, proprio a causa di questo peso logistico e fisico delle strategie e dei materiali. La macchina da guerra del conflitto totale è una macchina integrata e simmetrica. Secondo il grande storico militare Liddell Hart, all’inizio della prima guerra mondiale le strutture e i sistemi militari delle grandi potenze sono pressoché identici, i sistemi di addestramento anche; talvolta la differenza sta nelle capacità economiche e tecnico-organizzative impiegate, che tuttavia nel corso della guerra tendono a eguagliarsi e stabilizzarsi. Casomai le grandi differenze si hanno sul piano “morale” e “mentale”, riguardano la motivazione alla guerra (pensiamo al caso della Russia o alle crisi, causate dalle carneficine, che investirono gli eserciti italiano e francese nel 1917) e i fattori psicologici – insiste Liddell Hart – in un esercito “nazionale” svolgono un ruolo molto più importante che in eserciti professionali.
Questa simmetria porta allo stallo della guerra di trincea; e l’unica possibilità di uscita consiste nell’applicazione di nuove tecnologie (carri armati, artiglierie più potenti, fortificazioni ecc). Si parte dall’idea dell’“offensiva a oltranza”, condotta da tutti i comandi su tutti i fronti, e basata sulla scommessa di un cedimento del fronte avversario e si arriva allo stallo e al logorio, all’usura dei materiali, dei corpi e degli spiriti, con i periodici tentativi di sfondamento e nel tentativo di arrivare alla battaglia “decisiva”. È il modello della cosiddetta “macchina tritacarne di Verdun”. In tal caso – come afferma Liddell Hart – si trasforma non solo la tecnica della battaglia e della guerra, ma anche il suo tempo e il suo spazio: nei millenni precedenti la battaglia era una questione di ore o, al limite, di giorni, nel caso delle battaglie napoleoniche – che rappresentano tuttavia già una prima forma di guerra totale. Durante la Grande Guerra le battaglie durano settimane o mesi e, facendosi sempre più informi, sostituiscono intere campagne e prendono la forma di un infinito assedio, con il massimo impiego di uomini e di mezzi. Ancora una volta i mezzi e le tecniche si mescolano ai concetti e alle strategie, i corpi si identificano con gli strumenti, e gli strumenti sono concepiti in rapporto con i corpi che devono di volta in volta distruggere o difendere.
La strategia indiretta, invece, ha una configurazione specifica: quella “dello sfiancamento” (una forma di usura di tipo diverso rispetto a quella della guerra totale) che è tipica di conflitti di lunga durata e soprattutto condotta da chi è dotato di forze deboli contro avversari forti. In questo caso – sostiene il già citato Beaufre – l’inferiorità delle forze militari e materiali deve essere compensata “da una crescente superiorità di forze morali” proporzionate alla lunga durata della lotta. Tale tattica strategica, una volta generalizzata, diventa o una forma tipica del paradigma della guerra fredda, volta a evitare lo scontro diretto, o una forma di difesa del debole contro il più forte nel paradigma della guerriglia, sebbene di recente sia utilizzato nella lotta tra più forte e più debole.
Tuttavia la vera strategia indiretta è soprattutto quella che deve essere attuata “nei prodromi della guerra”, ossia nel dispiegarsi dei suoi elementi manipolatorio-psicologici (che si possono definire semiotici, in quanto elementi che operano sulle costruzioni di senso e di significato) antecedenti lo scoppio della guerra stessa.
Qui possiamo trovare le radici di una generalizzazione della stessa idea di deterrenza, così importante per il modello della guerra fredda, e anche le basi della dottrina della guerra preventiva propria del nuovo millennio: un’idea paradossale perché trasforma una minaccia e una dissuasione virtuale in qualcosa che è allo stesso tempo attuale e potenziale: da farsi subito e da estendersi indefinitivamente. Tale tattica è ancora più esplicitamente semiotica: la dottrina della guerra preventiva rimescola e manipola – sia nella teoria che nella pratica – le dimensioni del senso, sconvolgendolo e riorganizzandolo.
Tuttavia non è escluso che, proprio grazie al dispiegarsi di questa dimensione comunicativa e virtuale della “nuova” guerra si stia anche aprendo la possibilità di strategie di dissuasione alla guerra stessa, di strategie di “pace preventiva” messe in atto da reti civili di osservatori internazionali e di war-watching, costituite da organizzazioni di volontariato internazionale, o da movimenti di opinione pubblica.
Lo spazio e il tempo, precedenti e contornanti la guerra, sono essi stessi investiti dalle manovre e dai gesti strategici e in questo senso tale dilatazione dell’idea di strategia avviene non solo in estensione, ma anche in profondità: essa trasforma la natura stessa del concetto, oltre che la forma del conflitto. Pensiamo che le ultime manifestazioni della guerra (dalla prima guerra del Golfo, al Kosovo, e alle spedizioni in Afghanistan e Iraq) possano rappresentare l’esito estremo – per quanto caotico e contraddittorio – di tale originaria trasformazione.
Se proviamo allora a definire meglio queste armi “semiotiche”, vediamo che concernono soprattutto il campo della trasformazione e deviazione dell’agire: dallo “spingere a fare o a non fare” (manipolazione) all’“impedire all’altro di fare” (dissuasione), all’“obbligare a fare” (costrizione), alla seduzione (intesa come un “mostrare di essere in un certo modo, affinché l’altro faccia qualcosa”) e così via. Dunque in questa interpretazione semiotica rientra, insieme alle concrete operazioni di guerra, tutto l’ambito della comunicazione, della propaganda di guerra, delle public relation (come è accaduto per le guerre della ex Jugoslavia) intese non come semplice “rappresentazione” mediale o giornalistica dei conflitti, ma come vere e proprie armi.
La comunicazione e i nuovi guerrieri
Si potrebbe replicare che l’arma della comunicazione all’interno delle strategie e delle condotte belliche è sempre esistita, sebbene se ne discuta tanto solo negli ultimi tempi. È chiaro che non si tratta di una novità “in sé”: l’innovazione sta essenzialmente nella pianificazione dell’uso di tali “armi”, nel cambiamento dei modi o dei punti di vista della stessa pianificazione strategica, e quindi della logistica dei segni e della comunicazione.
D’altra parte, è anche vero che oggi, a molti anni dalla fine della guerra fredda – come sottolineano gli studiosi di strategia e come attestano drammaticamente le vicende di questo ultimo decennio – l’uso delle armi (anche nucleari, sempre più “miniaturizzate”, potenti e precise) è tornato di nuovo possibile e soprattutto pensabile e praticabile. In particolare il generale Fabio Mini, Capo di Stato Maggiore del Comando Forze Alleate del Sud Europa nonché teorico delle nuove guerre, insiste sul fatto che il ritorno della guerra “di terreno” possieda comunque uno statuto ibrido, coinvolgendo figure diverse (dall’umanitario al gendarme, dal funzionario-burocrate al mercenario). Constatiamo, quindi, come l’uso sempre più frequente e congiunto di armi “reali”, anche in spazi geo-politici prossimi all’Europa (come l’area balcanica per lungo tempo “congelata” dal sistema bipolare USA-URSS) rientri all’interno di un piano strategico-tattico che fa uso anche di armi “virtuali” semiotico-discorsive, sia “classiche” (come la minaccia, la promessa, la sfida e la contro-sfida), sia di tipo “arcaico” (come la vendetta). L’uso e l’adesione a logiche di vendetta è una delle critiche mosse da Alain Joxe alla NATO e agli USA in riferimento al recente conflitto del Kosovo, al di là delle ovvie responsabilità di Milosevic (1940-2006) e della dirigenza serba.
Le armi “discorsive” vengono inoltre accompagnate dall’utilizzo sempre più massiccio di nuove armi tecnologiche dell’informazione e della comunicazione (satelliti, web, cellulari, sistemi di comando e controllo evoluti) che “materializzano” e rendono sempre più operative e funzionali le stesse armi virtuali o semiotiche. Ecco che negli ultimi 15 anni, la guerra – pur sempre “cangiante e camaleontica”, come la definiva Clausewitz – è ritornata, quasi di sorpresa, in zone del mondo ritenute ormai pacificate e “civilizzate”; oggi questa dimensione sembra assumere nuovamente una lunga durata e invadere la totalità dello spazio a discapito della politica e della strategia che sembrano essere sempre più fragili.