apparenza
La famiglia di termini ricollegabili alla nozione di apparenza (φαινόμενον; φαίνεσϑαι; ecc.), connessa a quella di «opinione» (δόξα) e contrapposta a «verità», è presente nei filosofi presocratici, tra i quali Parmenide parla della «via dell’opinione» e delle «cose apparenti» come alternativa alla via dell’«essere» e della «verità».
Negli scritti platonici la contrapposizione fra a. e verità è analizzata discutendo lo statuto della conoscenza in relazione sia alla cosa conosciuta sia al soggetto conoscente. Nel Teeteto (➔), partendo dalla tesi relativista di Protagora («di tutte le cose è misura l’uomo»), Platone scrive a proposito dell’a. sensibile: «quale ciascuna cosa apparisce a me, tale codesta cosa è per me, quale apparisce a te, tale è per te» (152 a); da tale assunto prende avvio la riflessione sulla filosofia come amore della scienza suscitato dalla «meraviglia» e dall’impulso a superare l’a.: «io sono straordinariamente meravigliato di quel che siano queste «apparenze»; e talora, se mi ci fisso a guardarle, realmente ho le vertigini» (154 c-d). L’a. sensibile, da cui deriva l’«opinione», distinta dalla scienza, è tematizzata nella Repubblica (➔) in relazione al rapporto fra conoscenza sensibile e conoscenza intelligibile; l’a. è legata alle immagini e alle cose visibili, che sono ontologicamente imitazioni delle «idee»; «oggetti apparenti, ma senza effettiva realtà» (596 e). Soltanto tale rapporto di imitazione, ossia l’analogia che sussiste fra ciò che appare e ciò che effettivamente è, costituisce l’appiglio fra a. e realtà; nel mondo visibile: «l’oggetto simile sta al suo modello, come l’opinabile sta al conoscibile» (510 a-b).
Trattando la questione «non tutto quello che appare è vero» (Metafisica, IV, 5, 1010 b 2), lo Stagirita ridefinisce lo statuto e il ruolo dell’a. nella conoscenza. L’a. sensibile è il punto di partenza della ricerca scientifica della verità; occorre quindi determinare lo statuto sia della sensazione sia dell’immaginazione, come anche del giudizio che può determinarne la veridicità. Lo studioso della natura «al modo stesso dei matematici nelle loro esposizioni sull’astronomia» deve «osservare prima i fenomeni […] per poi spiegare il perché e le cause» (Parti degli animali, 639 b). L’esempio del modo di procedere degli astronomi, ossia l’elaborare calcoli che rendano ragione di quel che appare («perché si potesse dare un conto preciso dei fenomeni»; Metafisica, XII, 8, 1073 b 35), compendiato nella ricorrente espressione «salvare i fenomeni», è la via per rendere praticabile una scienza ipotetica a partire dall’apparenza. Tale è la posizione di C. Tolomeo nella sua grande sintesi astronomica, l’Almagesto (o Sintassi matematica dell’astronomia). Nella Lettera a Pitocle, inoltre, Epicuro, partendo dallo studio dei fenomeni celesti, scrive: «l’indagine sulla natura non si deve infatti compiere secondo vani enunciati e legiferazioni, ma secondo i dati offerti dai fenomeni stessi» (86).
È con lo scetticismo di Pirrone che l’a., ossia il fenomeno («alla parola fenomeni diamo, ora, il significato di ‘dati del senso’»; Schizzi pirroniani, I), viene assunta come unico ambito possibile di conoscenza, poste l’inconoscibilità dell’essenza e della sostanza. I fenomeni «senza il concorso della volontà», conducono «ad assentire in conformità dell’affezione che consegue alla rappresentazione sensibile». Al fenomeno, ossia all’a. ci si attesta senza poterne stabilire la verità o la falsità: «noi concediamo che [l’oggetto] appaia in quella data maniera, ma investighiamo non già intorno al fenomeno, ma intorno a ciò che si afferma del fenomeno» (I, 19).
Le filosofie platoniche della tarda antichità riprendono la contrapposizione dualistica fra a. e verità (o realtà intelligibile). In epoca carolingia, Scoto Eriugena, differenziandosi dall’esemplarismo, articola il rapporto fra idee (divine) e molteplicità della creazione sulla base dell’a. intesa come «manifestazione» delle cause, e mediante queste di Dio, vale a dire «teofania» (De divisione naturae, I, 10), in una prospettiva tesa alla risalita della creatura verso il creatore. In età rinascimentale, oltre che alla ripresa delle filosofie platoniche, con la consueta svalutazione dell’a., si assiste anche all’approfondimento dei temi astronomici ove, sulla scorta della nuova fioritura di studi matematici (anche mediante l’apporto di testi e autori arabi), si propongono nuove ipotesi astronomico-cosmologiche basate sullo studio delle a.; basti pensare a Copernico e alla celebre prefazione del suo scritto curata dall’allievo A. Osiander (De revolutionibus orbium caelestium, 1543) o anche a T. Brahe e al sistema «ticonico», compromesso fra i modelli tolemaico e copernicano.
A partire dalla riedizione moderna dell’opera di Sesto Empirico (1562) la nozione di a., intesa come fenomeno, torna a circolare nella cultura scettico-erudita. Nel 2° libro delle Exercitationes paradoxicae adversus Aristoteleos, (pubbl. nel 1658, ma del 1624) Gassendi propone una scienza fondata sull’a., «più vera e più utile» di quella aristotelica, perché scienza «sperimentale e dell’a. delle cose» (II, ex. VI, 7); egli parla, inoltre, di una «scientia apparentialis». Criticando il rinnovato interesse per lo scetticismo e la ripresa della nozione di a., Mersenne scrive nella Vérité des sciences contre les Septiques (1625) che essi «intendono per ἔστί o è la stessa cosa che per φαίνεται o appare» con una pericolosa unificazione fra piano dell’essere e piano dell’a.; come ha già scritto, sbrigativamente, nelle Quaestiones in Genesim del 1623, la filosofia scettica «oppone ai νοοῦμενα i φαινόμενα, ossia le cose che dipendono dai sensi». In epoca cartesiana, lo statuto dell’a. viene ridefinito in rapporto al fondamento di una scienza empirico-ipotetica da Hobbes, che dedica la parte 4a del De corpore (1655) ai Fenomeni della natura, riprendendo la nozione di phainomenon e definendo la fisica, intesa come scienza di cause naturali, a partire dall’apparire stesso: il φαίνεσϑαι, «il più mirabile di tutti i fenomeni che sono intorno a noi»; l’a. sussume in sé ciò che, in riferimento alla vista, «si chiama in greco εἶδος e εἴδωλον ed ἰδέα, in latino species ed imago». È questo il consolidarsi di una prospettiva empirista alternativa al tentativo cartesiano (come poi malebranchiano e spinoziano) di fondare metafisicamente una scienza al di là dell’a.; in tale prospettiva Descartes problematizza non soltanto i dati sensibili e le percezioni, ma arriva, con l’argomento del Dio ingannatore, a supporre le stesse verità matematiche e i principi per sé noti come apparenti («dubiteremo […] anche delle dimostrazioni matematiche, anche di quei principi che finora abbiamo considerato noti per sé stessi»), introducendo il problema dell’a. all’interno della verità stessa: «Noi infatti ignoriamo se egli [cioè Dio] per caso non abbia voluto crearci tali che ci inganniamo sempre, anche nelle cose che ci appaiono più note» (I principi della filosofia, I, 5). Locke, nel Saggio sull’intelletto umano (➔) (1690; I, 2, 1) definisce in relazione all’a. la percezione dell’idea semplice: «è atomica e non contiene in sé altro che un’unica uniforme a.»; la conoscenza, fondata e resa possibile a partire dall’a. sensibile, è definita come «ricerca sulla conoscenza che la mente ha delle cose, tramite quelle idee e quelle apparenze che Dio ci ha reso atti a ricevere dalle cose stesse» (II, 21, 73). Pertanto il potenziamento dei nostri sensi, modificando la struttura esteriore delle cose e la loro a., «sarebbe incoerente rispetto al nostro essere».
Consapevole degli sviluppi radicali dell’empirismo nell’immaterialismo di Berkeley e nello scetticismo di Hume, Kant ridefinisce l’a. (Schein) in rapporto al «fenomeno» (Erscheinung), connotato non più in senso limitativo, ma come fondamento della conoscenza scientifica fondata sull’intuizione sensibile, e contrapposto al noumeno, la cosa in sé, inattingibile scientificamente, in quanto oggetto di un’intuizione intellettuale. Nella Dissertatio de mundi sensibilis atque intelligibilis forma et principiis (1770), chiarendo il rapporto fra condizioni spazio-temporali della sensibilità, a., fenomeno, esperienza e «uso logico» dell’intelletto, Kant scrive: «nelle conoscenze sensibili (sensualibus) e nei fenomeni ciò che precede l’uso logico dell’intelletto, si chiama apparenza […]. Dall’a. all’esperienza pertanto non c’è altra via che quella della riflessione secondo l’uso logico dell’intelletto. I concetti comuni dell’esperienza si dicono empirici e gli oggetti fenomeni (phaenomena)» (II, 5). Nella Critica della ragion pura (➔) (1781) chiarisce ulteriormente che il fenomeno non è mera a. (Schein), ma «dato»; l’intuizione si riferisce agli oggetti «così come essi modificano i nostri sensi, cioè come essi appaiono, ciò non vuol dire che questi oggetti siano una semplice parvenza [Schein]. […] Sarebbe un errore il mio, se io facessi una pura parvenza di ciò che devo considerare come fenomeno» (Dottrina trascendentale degli elementi, I, 2, 3). Inizia con Kant una nuova impostazione del problema del fenomeno (➔) che avvia le successive prospettive di riflessione fino alla fenomenologia (➔). Abbandonata, infatti, la contrapposizione con il «noumeno», è unicamente il fenomeno, nel suo rendersi tale, nel manifestarsi, a occupare l’orizzonte della riflessione filosofica, sia esso manifestazione storico-dialettica dello Spirito (Hegel), oggetto che rinvia alle strutture intenziona- li della coscienza trascendentale (Husserl) o anche fondamento di «parvenza» e «apparenza», giacché inteso come «ciò-che-si-manifesta-in-sé-stesso» (Heidegger, Essere e tempo, § 7). Nell’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio (➔) (1817; 2a ed. 1830; parte I, sez. II, § 131) Hegel afferma la coincidenza di apparire, fenomeno (l’apparire sviluppato) ed essenza: «L’essenza deve apparire. Il suo apparire è in essa il sopprimer sé stessa facendosi immediatezza […]. L’apparire è la determinazione, per mezzo di cui l’essenza non è essere, ma essenza; e l’apparire sviluppato è il fenomeno». L’identificazione di a. (Schein) e fenomeno (Erscheinung), e di questo con l’essenza, è presente già nella Fenomenologia dello spirito (➔) (1807; III, 2): «chiamiamo comunemente “parvenza” [Schein] quell’essere che, in sé stesso, è immediatamente un non-essere: in effetti però non si tratta soltanto di una parvenza [Schein], ma di apparenza, di fenomeno [Erscheinung], di un tutto della parvenza». Si è soliti identificare con l’opera di Bradley, Apparenza e realtà: saggio di metafisica (1893; 2a ed. 1897); l’ultima riflessione sul rapporto fra a., intesa come totalità dei fenomeni, e realtà, in senso classico.