apparire
Tra i due sensi principali – ‘emergere, comparire’ e ‘sembrare, parere’ – solo il secondo riveste una funzione concettuale. Né il concetto né il suo lessico subiscono mutamenti notevoli attraverso l’opera di Machiavelli. L’a. può riflettere la verità ma anche deformarla: «e quando con tuo onore possa governare la cosa in modo che da l’un canto la iustizia non paia maculata da noi, non ci perdiamo cotesti uomini, ci fia piacere» (M. a Paolo Davanzati, 6 ag. 1512, LCSG, 7° t., p. 132); contraddirla: «pare necessario volendo farsi defensore de la Chiesa, non aparire rattore de le cose sua» (M. ai Dieci, 21 nov. 1503, LCSG, 3° t., p. 390); rinforzarla: «acciò che tale pratica con più colore di verità si possa mantenere» (M. a Giuliano Lapi, 18 genn. 1499, LCSG,1° t., p. 190); sostituirla: «E quando [...] tu non possa senza scandolo operare che tale restituzione si faccia effettualmente, fara’ne almeno demostrazioni grandi» (M. a Benedetto Fortini, 9 apr. 1503, LCSG, 2° t., p. 603); precederla: «che le opere loro potranno corrispondere all’apparenza» (M. a Giovanni Ridolfi, 10 giugno 1506, LCSG, 5° t., p. 249).
L’a. ha un carattere artificiale, e il rapporto tra a. ed essere è mutevole: l’intenzione, l’interlocutore e la situazione ne determinano tre varianti principali: 1) l’a. del potere politico, con la sua autorità e credibilità nelle dimensioni interna ed esterna; 2) la messa a punto, oppure lo svelamento, delle apparenze fittizie; 3) lo spiegamento dell’a. politico come ‘messa in scena’. I testi di M. offrono non pochi esempi di ciascuna delle tre varianti: 1) «non è necessario avere in fatto tutte le soprascritte qualità, ma è bene necessario, parere di averle» (Principe xviii 13); «perché el vulgo ne va preso con quello che pare» (xviii 18); 2) «ogni volta che uno crede quello che non debba, o male finge quello che vuole persuadere, si può chiamare e leggiere e di nessuna prudenzia» (M. a un cancelliere di Lucca, 5 ott. 1499); 3) «Nessuna cosa fa tanto stimare uno principe, quanto fanno le grande imprese e dare de sé rari esempli» (Principe xxi 1).
Le tre varianti rinviano a lessici specifici. La gestione dell’a. dell’autorità politica (1) utilizza i verbi riputare, convincere, e i sintagmi far credere, disporre le menti. Quando riesce a convincere, il risultato del suo operato è indicato come ‘onore’, ‘riputazione’ (oppure, meno frequentemente, ‘credito’, ‘gloria’, ‘cerimonie estrinseche’, ‘dignità’, ‘titoli’ ecc.); in caso contrario: ‘disonore’, ‘vergogna’ (oppure: ‘vituperio’, ‘ingiuria’, ‘carico’, ‘offesa’, ‘insulto’, ‘infamia’).
L’a. fittizio (2) è dominato dai campi semantici del - l’‘inganno’, ‘simulazione’, ‘dissimulazione’, ‘colorare’ ecc. (secondari: ‘macchinazione’, ‘velame’, ‘fumo’, ‘frode’, ‘furto’, ‘stratagemma’, ‘mostrare’, ‘dimostrare’, ‘intrattenere’, ‘addolcire’, ‘allegare’, ‘usare buone parole’, ‘tenere disposto’, ‘imprimere [...] modelli nel capo’, ‘tenere bene edificato’, ‘ingrassare’, ‘vezzeggiare’, ‘addormentare’, ‘aggirare’, ‘uccellare’, ‘divertire’, ‘intorbidare’, ‘fare dondolare’, ‘fingere’, ‘dire bugie’, ‘celare’). Il fondamento dello Stato – territorio, finanze, armi – è refrattario all’a.: M. lo designa con i termini utile, soddisfazione; o anche: sicurezza, bene, comodo, forza, salute, cose, aiuto, quiete, denari, conservazione, potenzia, aumento, contento, possanza, benefizio nel registro positivo, e danno, inconveniente, pericolo, distruzione, in quello negativo.
Nel Principe sono definiti altri limiti all’espansione dell’a.: la solidarietà, esente da finzioni, tra ministro e principe (xxii), e lo svelamento delle false apparenze degli adulatori (xxiii). Se una dimensione didattica dell’a. emerge già nella corrispondenza amministrativa, lo spiegamento teorico della tematica interviene solo nel Principe, con definizioni delle apparenze adeguate per fondare l’autorità politica (xvxx) e costruire il parere fittizio. L’efficienza dell’a. è
basata sul paradosso che la vista è fra i sensi il più preciso, e però il più facile da ingannare (cfr. la citazione sopra riportata in Principe xviii 13); inoltre: «li uomini in universali iudicano più alli occhi che alle mani [...] tocca a vedere a ognuno, a sentire a pochi.
Ognuno vede quello che tu pari, pochi sentono quello che tu se’ » (xviii 17); «el vulgo ne va sempre preso con quello che pare» (xviii 18).
Segue, nei capitoli xx-xxi, l’a. come (3) spettacolarizzazione della politica (funzione paradigmatica di Ferdinando d’Aragona), tematica già accennata nel cap. vii (esecuzione di Ramiro de Orco).
L’a. rimane presente nei Discorsi, con una insistenza notevole sull’inganno, e (in I ii, iii, viii, xiii, xxxvi, xl, xli, xlv, xlvii, liii, liv; II xxii; III vi, xxiii) sull’a. bene o male usato: l’apparenza come risposta a una richiesta di maestà, di dignità, di riverenza, di gravitas, che può essere magari sbagliata, come nel caso di Appio (I xl-xlv). È presente anche nell’Arte della guerra e nelle Istorie fiorentine: in particolare per quanto riguarda l’onore, la maestà/dignità e l’inganno tattico. Nella Mandragola, l’a. fittizio diventa strutturante, come anche nella battuta conclusiva di una lettera a Guicciardini: «da un tempo in qua, io non dico mai quello che io credo, né credo mai quel che io dico, e se pure e’ mi vien detto qualche volta il vero, io lo nascondo fra tante bugie, che è difficile a ritrovarlo» (17 maggio 1521, Lettere, p. 373).
Bibliografia: S.S. Wolin, Politics and vision, Boston 1960, pp. 212-14; B. Guenée, L’Occident aux XIVe et XVe siècles. Les États, Paris 1971, pp. 85-90, 137-38, 141-48; J. Le Goff, La civilisation de l’Occident Médiéval, Paris 1977, pp. 210, 404-05, 409, 435-44; L. Vissing, La formation du concept de ‘parere’ chez Machiavel, København 1984, pp. 59-73, 84-85, 93-112; L. Vissing, La politique de l’apparence, Paris 1986, pp. 54-59, 73-84; W.A. Rebhorn, Foxes and lions. Machiavelli’s confidence men, Ithaca-London 1988, pp. 86-134; G. Ferroni, Machiavelli, o dell’incertezza. La politica come arte del rimedio, Roma 2003, pp. 65-85.