appello al lettore
. Numerose volte lungo il corso del suo poema (19 volte: lf VIII 94-96; IX 61-63; XVI 127-132; XX 19-24; XXII 118; XXV 46-48; XXXIV 22-27; Pg VIII 19-21; IX 70-72; X 106-111; XVII 1-9; XXIX 97-105; XXXI 124-126; XXXIII 136-138; Pd II 1-18; V 109-114; X 7-27; XIII 1-21; XXII 106-111; ma 20 volte se si considera anche Pd IX 10-12, o 21 se si considera doppio il caso di Pd X 7-15 e 22-27) D. sospende il racconto del suo viaggio per rivolgersi direttamente al lettore e richiamare l'attenzione sul significato della narrazione, sull'eccezionalità delle cose viste, per renderlo partecipe delle sue emozioni di meraviglia, di pietà, di sgomento e del suo impegno poetico di fronte all'ardua impresa prefissasi.
Questo espediente stilistico è un aspetto particolare della figura retorica dell'apostrofe (v.) di origine classica, e non è trattato dai teorici di retorica antica. I primi commentatori del poema considerano i passi in questione come altrettante apostrofi (un esempio tra i tanti, Guido da Pisa al v. 118 di If XXII: " Modo apostrophat Auctor ad legentem; et est apostrophare... sermonem convertere et dirigere ad absentem tamquam ad praesentem "); ma in realtà solo per affinità essi si possono accostare alla figura dell'apostrofe che consisteva, nell'arte oratoria classica, nel rivolgere improvvisamente il discorso in tono enfatico e solenne a persona presente o assente, viva o morta, a oggetti inanimati, o a personificazioni allegoriche, con lo scopo di suscitare nell'uditorio un'intensa emozione e partecipazione (cfr. Quintiliano Inst. IV I 63, IX II 38 e III 24).
Neppure nei trattati di retorica medievali, tributari dei testi classici, è riservato un posto a sé all'a. al lettore nell'ambito dell'apostrofe (Goffredo di Vinsauf, uno dei maggiori scrittori di retorica del sec. XIII, dedica circa duecento versi della sua Poetria nova alla figura dell'apostrofe). Ma qualche attinenza possono avere con gli a. danteschi le regole suggerite dai maestri dell'ars dictandi all'oratore che volesse con il suo discorso (in particolare nell'esordio) " fare l'uditore intento " (cfr. Brunetto: Latini Rettorica 102 " Intenti li faremo dimostrando che in ciò che noi diremo siano cose grandi o nuove o non credevoli, o che quelle toccano a tutti o a coloro che ll'odono o ad alquanti uomini illustri, ai dei immortali, a grandissimo stato del comune... ecc. "; ma anche Tresor VIII 24; e Fra Guidotto da Bologna Fiore di Rettorica III 1); infatti alcuni commentatori antichi del poema hanno fatto riferimento proprio a queste regole retoriche (come ad es. il Buti, nel commento a If XXII 118: " Questo è dell'arte della retorica di fare attento l'uditore ").
Esempi in cui l'autore si rivolga direttamente al pubblico cui è destinata la sua opera esistono, pur non essendo molto frequenti, già nei testi classici (Ovidio, Marziale, Apuleio, Fedro, ecc.); più numerosi essi diventano nella letteratura medievale sia in latino che in volgare, pur conservando lo stesso carattere di episodicità e di scarso rilievo stilistico; essi si trovano per lo più negli esordi dove l'autore annuncia il contenuto, si scusa per la sua pochezza, espone gl'intenti moraleggianti della sua opera, o chiede al lettore di pregare per lui (più comuni sono gli esempi nella letteratura di tipo giullaresco e nelle chansons de geste, ma si possono vedere, anche, gl'inizi del Cligès e dell'Yvain di Chrétien de Troyes, della Chanson d'Aspremont, della Passion di Clermont-Ferrand, dell'Aucassin et Nicolete, del Novellino: " Non gravi ai leggitori... "; e più tardi ancora nel proemio al Decamerone di Boccaccio, o nel primo verso del Canzoniere di Petrarca: "Voi ch'ascoltate in rime sparse il suono ", ecc.).
Ma a bene intendere, oltre che il particolare gusto retorico, soprattutto il senso profondo che gli a. di D. al lettore assumono nel contesto delle sue opere, converrà rifarsi piuttosto a un altro filone della letteratura medievale, quello cioè più vicino alla tradizione esegetica e apologetica cristiana, alle opere e agli autori, che, secondo la visione del mondo suggerita dal cristianesimo, consideravano i testi sacri e il divenire delle umane cose come altrettante testimonianze di verità, segni e dettati della volontà divina, da interpretare e commentare, spiegare e divulgare.
In tal senso per gli a. di D. al lettore si potrà meglio risalire agli scrittori in latino di esegesi cristiana (si veda ad es. Girolamo, In Matth. 10, 29 " Prudens lector, cave semper superstiosam intelligentiam... "; Prudenzio Hamartigenia 624 " Sanctum lector percense volumen... "; Verecondo In Cant. Jonae 8 14 " Excita, lector, auditum... ", ecc.) o ai predicatori e scrittori in volgare di morale cristiana (si veda ad es. Giordano da Pisa Prediche, 24 ottobre 1305 e 29 marzo 1306: " Dunque vedi come è perfetta congiunzione... ", " E però ora intenderai quando odi dire... "; e meglio ancora Iacopo Passavanti Lo specchio della vera penitenza (tratt. dei sogni): " Rechisi alla mente chiunque legge o ode questo trattato, se mai sognò... "; e ancora dopo D., F. Sacchetti Sermoni Evangelici (XVII, XLIX): " E nota tu, lettore, quello che per molti non si vede... ", " E nota, lettore, che Santo Agostino dice... ").
A questi esempi di scrittori con intenti strettamente esegetici e moraleggianti, possono accostarsi anche quelli forniti dagli scrittori medievali di storia, se si tiene presente che la storiografia medievale concepì anch'essa il divenire delle vicende umane come una testimonianza perenne dell'attuarsi dei disegni di Dio e vi riconobbe il costante intervento della Provvidenza divina (si veda ad es. come Villehardouin, il primo cronista in prosa volgare, si rivolga nelle sue opere direttamente al lettore: " or oiez... ", " Lor veïssiez.; " o come G. Villani nella sua Cronica più volte si appelli al lettore affinché sappia trarre utile insegnamento dal racconto di improvvise sciagure, aguzzi il suo intendimento, rifletta sulle punizioni mandate da Dio sugli uomini per i loro peccati e ne tragga incitamento a pentirsi: " E acciocché di questa questione utile si tragga per gli lettori... E nota ancora, lettore, che la notte che cominciò il detto diluvio... E però, carissimi fratelli, e cittadini, che al presente sono e che saranno chi leggerà e intenderà, dee avere assai gran materia di correggersi e lasciare i vizi e' peccati per lo tremore e minacce della giustizia di Dio... E nota, lettore, che le sopraddette rovine e pericoli di tremoti sono grandi segni e giudicii di Dio..." (XI 2, XII 124).
D. si vale di questo nuovo tipo di rapporto creatosi in età cristiana tra lo scrittore e il pubblico a cui l'opera era destinata, un rapporto che implicava da parte del lettore o dell'ascoltatore una partecipazione attenta e indispensabile e da parte dell'autore la coscienza di essere in continuo vivo colloquio con il suo pubblico, e quindi un costante impegno ecumenico e didattico con pause esortative e sentenziose. Tale nuova urgenza dialettica e didascalica nasceva dalla nuova visione simbolica e cristiana del mondo, inteso come un ordito di segni e di cifre da interpretare, e delle vicissitudini umane intese come esplicazione estrinseca di un'unica eterna vicenda dell'anima cristiana dimidiata tra la dannazione e la salvezza. La narrazione dei testi della Fede, la registrazione dei fatti della cronaca storica, gli ‛ esempi ' di vicende umane, colti nel loro divenire occasionale nel mondo o nella loro più intima realtà psicologica, richiedevano in egual modo uno sforzo di interpretazione morale e dovevano condurre a conclusioni assolute di verità divine.
D. nell'immaginare l'allegoria del suo viaggio nell'oltretomba, i suoi incontri con i vari personaggi dell'Inferno, del Purgatorio e del Paradiso, il vario articolarsi della sua faticosa ascensione alla visione di Dio,si assunse il ruolo di guida, di vas d'elezione, e intese significare e rappresentare sotto il velame della finzione poetica l'itinerario della sua anima verso la salvezza, la propria esperienza spirituale di peccatore e di cristiano, che, come tale, poteva assumere il valore di esemplarità etica per ogni uomo, che toccato dalla grazia divina, decidesse come lui di intraprendere il faticoso cammino verso la redenzione. D. sapeva che il compito poetico e morale prefissosi era arduo e rischioso, sapeva che il racconto della sua Commedia esigeva, come il racconto dei Vangeli e le cronache delle cose umane, l'intelligenza, la partecipazione, la solidarietà del lettore, e a lui appunto si rivolge spesso con i suoi a., ora con tono profetico e autoritario, ora con tono dimesso e smarrito, perché lo segua, finché può, nella sua straordinaria esperienza, aguzzi l'ingegno quando i simboli della sua narrazione sono di più difficile interpretazione, si faccia più attento alle conclusioni etiche che la rappresentazione suggerisce, o dimostri comprensione per le difficoltà del poeta nell'esprimere con i suoi mezzi umani cose e verità del sovrumano.
Detto tutto questo, bisogna tuttavia subito aggiungere che nella storia della poesia in volgare del Medioevo gli a. di D. al lettore costituiscono un fatto del tutto nuovo e originale, come eccezionale fu il suo poema in volgare per la complessità della sua materia, per la potenza della sua espressione poetica, per la funzione assunta dal poeta nella sua opera. E nuovo è il pubblico a cui D. intendeva rivolgersi. Era la prima volta che una grande opera in versi volgari trattasse non più temi fiabeschi o lirici, ma temi altamente dottrinali e intensamente etici, patrimonio sino ad allora del latino, della lingua dell'erudizione, e si rivolgesse non più a un pubblico di eruditi, ma ai litterati e non litterati, alla nuova classe colta della società comunale del sec. XIV.
Né d'altro canto gli a. danteschi al lettore temono accostamenti o confronti, per potenza espressiva e varietà di stile, con altri simili esempi nella letteratura medievale.
La forma più comune adottata da D. è costituita da un imperativo e da un vocativo (sul tipo, molto frequente, di Pensa, lettor...). Tuttavia sia l'uno che l'altro sono in alcuni casi sostituiti da parafrasi e forme verbali diverse: così al posto del vocativo si trova in due a. la formula di tono solenne e più vicina al tipo dell'apostrofe classica: ‛ O voi che... ' seguita dall'imperativo (If IX 61 ss. O voi ch'avete li 'ntelletti sani, / mirate...; Pd II 1 ss. O voi che siete in piccioletta barca / ... non vi mettete in pelago... / Voialtri pochi che drizzaste il collo / per tempo al pan de li angeli... / metter potete ben per l'alto sale / vostro navigio...); un tono più dimesso hanno in altri due casi l'invocazione: ‛ O tu... ' seguita dal futuro (If XXII 118 0 tu che leggi, udirai nuovo ludo) e la clausola relativa introdotta dal pronome ‛ chi ', preceduta dall'imperativo (Pd XIII 1 ss. Imagini, chi bene intender cupe / quel ch'i' or vidi...).
All'interno di questi schemi formali gli a. di D. si colorano di toni e sfumature diverse nei vari momenti della narrazione secondo le diverse intenzioni del poeta e la differente urgenza espressiva.
In tre a. (uno per ogni cantica) D. invita esplicitamente il lettore a concentrare la sua attenzione e a richiamare a sé tutte le sue facoltà intellettive per bene intendere il significato oscuro di ciò che egli va narrando. È il caso di If IX 61 ss. O voi ch'avete li 'ntelletti sani, / mirate la dottrina che s'asconde / sotto 'l velame de li versi strani; di Pg VIII 19 ss. Aguzza qui, lettor, ben li occhi al vero, / ché 'l velo è ora ben tanto sottile, / certo che 'l trapassar dentro è leggero; e di Pd XIII 1 ss. Imagini, chi bene intender cupe / quel ch'i' or vidi...
Ma il numero più cospicuo di a. riguarda il momentaneo stato di orrore, di smarrimento, di pietà o di gioia intensa di D. di fronte allo spettacolo ora terribile, ora doloroso, ora meraviglioso che gli è davanti, o la consapevolezza da parte sua della difficoltà del lettore a immaginarsi le varie vicende della sua straordinaria esperienza. È il caso di If VIII 94 ss. Pensa, lettor, se io mi sconfortai / nel suon de le parole maladette; XVI 127 ss. per le note / di questa comedìa, lettor, ti giuro / ... ch'i' vidi per quell'aere grosso e scuro / venir notando una figura; XX 19 ss. lettor ... or pensa per te stesso / com'io potea tener lo viso asciutto, / quando la nostra imagine di presso / vidi sì torta...; XXII 118 0 tu che leggi, udirai nuovo ludo; XXV 46 ss. Se tu se' or, lettore, a creder lento / ciò ch'io dirò, non sarà meraviglia, / ché io che 'l vidi, a pena il mi consento; XXXIV 22 ss. Com'io divenni allor gelato e fioco, / nol dimandar, lettor, ch'i' non lo scrivo, / però ch'ogne parlar sarebbe poco; di Pg XVII 1 ss. Ricorditi, lettor, se mai ne l'alpe / ti colse nebbia per la qual vedessi / non altrimenti che per pelle talpe / ... e fia la tua imagine leggera / in giugnere a veder com'io rividi / lo sole in pria, che già nel corcar era; XXXI 124 ss. Pensa, lettor, s'io mi maravigliava, / quando vedea la cosa in sé star queta, / e ne l'idolo suo si trasmutava; XXXIII 136 ss. S'io avessi, lettor, più lungo spazio / da scrivere, i' pur cantere' in parte / lo dolce ber che mai non m'avria sazio.
Altrove infine D., di nuovo in atteggiamento di maestro e di guida, ma con tono meno perentorio, quasi fraterno e caritatevole, si rivolge al lettore per incitarlo a seguirlo via via che la materia e l'arte del suo poema si vanno elevando, a non scoraggiarsi lungo il cammino alla narrazione degli effetti della giustizia divina, a penetrare e a contemplare con lui l'ordine sublime della creazione, e a integrare per suo conto la sua esperienza e il suo breve narrare. È il caso di Pg IX 70 ss. Lettor, tu vedi ben com'io innalzo / la mia matera, e però con più arte / non ti maravigliar s'io la rincalzo; X 106 ss. Non vo' però, lettor, che tu ti smaghi / di buon proponimento per udire / come Dio vuol che 'l debito si paghi; XXIX 97 ss. A descriver lor forme più non spargo / rime, lettor; ch'altra spesa mi strigne, / tanto ch'a questa non posso esser largo; / ma leggi Ezechiel... / e quali i troverai ne le sue carte, / tali eran quivi...; Pd II 1 ss. O voi che siete in piccioletta barca, / desiderosi d'ascoltar, seguiti / dietro al mio legno che cantando varca, / tornate a riveder li vostri liti: / non vi mettete in pelago, ché forse, / perdendo me, rimarreste smarriti. / L'acqua ch'io prendo già mai non si corse; / Minerva spira, e conducemi Appollo, / e nove Muse mi dimostran l'Orse. / Voialtri pochi che drizzaste il collo / per tempo al pan de li angeli, del quale / vivesi qui ma non sen vien satollo, / metter potete ben per l'alto sale / vostro navigio, servando mio solco / dinanzi a l'acqua che ritorna eguale; V 109 ss. Pensa, lettor, se quel che qui s'inizia / non procedesse, come tu avresti / di più Bavere angosciosa carizia; / e per te vederai come da questi / m'era in disio d'udir lor condizioni, / si come a li occhi mi fur manifesti; X 7 ss. Leva dunque, lettore, a l'alte rote / meco la vista, dritto a quella parte / dove l'un moto e l'altro si percuote; / e li comincia a vagheggiar ne l'arte / di quel maestro che dentro a sé l'ama, / tanto che mai da lei l'occhio non parte. / Vedi come da indi si dirama / l'oblico cerchio che i pianeti porta, / per sodisfare al mondo che li chiamai /... Or ti riman, lettor, sovra 'l tuo banco, / dietro pensando a ciò che si preliba, / s'esser vuoi lieto assai prima che stanco. / Messo t'ho innanzi: omai per te ti ciba; / ché a sé torce tutta la mia cura / quella materia ond'io son fatto scriba.
L'ultimo a. di D. al lettore è in Pd XXII 106-111 S'io torni mai, lettore, a quel divoto / triunfo per lo quale io piango spesso / le mie peccata e 'l petto mi percuoto, / tu non avresti in tanto tratto e messo / nel foco il dito, in quant' io vidi 'l segno / che segue il Tauro e fui dentro da esso. Questi versi descrivono con una similitudine molto efficace la rapidità del passaggio di D. dal cielo di Saturno al cielo stellato, ma suonano anche come l'estremo commiato del poeta al lettore prima di passare a trattare della parte più sublime della sua eccezionale esperienza, con accenti di trepida speranza di ritornare dopo la sua morte a contemplare di nuovo e in eterno la beatitudine trionfante del Paradiso.
Bibl. - A parte le notazioni più o meno estese dei vari commentatori della Commedia all'argomento (si veda in particolare il comm. dello Scartazzini a Pd XXII 106 ss., e di Casini-Barbi al l. cit.), studi specifici sono stati condotti da H. Gmelin, in " Deutsches Dante-Jahrbuch " XXIX-XXX (1951) 130-140; E. Auerbach, Dante's Addresses to the Reader, in " Romance Philology " VII (1954) 268-278 (ora in traduz. italiana col titolo Gli appelli di D. al lettore, nel vol. Studi su D., Milano 1963, 309-323); L. Spitzer, The Addresses to the Reader in the " Commedia ", in " Italica " XXXII (1955), poi nel vol. Romanische Literaturstudien (1936-1956), Tubinga 1959, 574-595; e ancora E. Auerbach, nel vol. Literatursprache und Publikum in der lateinischen Spätantike und im Mittelalter, Berna 1958, 226 ss. (ora in traduz. italiana: Lingua letteraria e pubblico nella tarda antichità latina e nel Medioevo, Milano 1960, 269 ss.); G. Petronio, Appunti per uno studio su D. e il pubblico, in " Sonderdruck aus Beiträge zur Romanischen Philologie " IV (1965) 2.