Viene esaminata la disciplina giuridica dell’appello dinanzi al Consiglio di Stato, ponendo particolare attenzione all’evoluzione dell’istituto, nonché alla sua funzione e alle sue peculiarità nell’ambito del sistema delle impugnazioni previsto dal codice del processo amministrativo.
L’appello è un mezzo di impugnazione contro le sentenze di primo grado. Esso si risolve in una invocazione del giudice di grado superiore, affinché riveda, riesamini e cancelli o ripari difetti, vizi od errori della procedura o della sentenza. Si possono denunciare infatti oltre all’erronea soluzione di problemi di giurisdizione, di giurisdizione-competenza e qualche volta anche di competenza, le nullità del processo di primo grado, che, non sanate, si siano ripercosse in una nullità-annullabilità della sentenza, le nullità proprie od intrinseche della sentenza stessa, gli errori di giudizio o di apprezzamento (o “ingiustizie”) del giudice nell’accertamento dei fatti o nella soluzione di problemi di diritto afferenti al merito, alla procedura, alle spese o ad altre determinazioni accessorie. Con l’appello, finché sia proponibile, si possono proporre altresì motivi di revocazione della sentenza (artt. 395 e 396 c.p.c.). Si possono proporre domande accessorie postume, che abbiano origine, cioè, da fatti successivi alla sentenza di primo grado e finalmente, anche eccezioni e deduzioni nuove per correggere errori o deficienze di difesa delle parti stesse in primo grado, donde sia derivata una “ingiustizia” di cui non si può far carico al giudice.
Prima della riforma attuata con la l. 6.12.1971, n. 1034, istitutiva dei Tribunali amministrativi regionali, la giurisdizione amministrativa era esercitata in primo ed unico grado dalle Sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato, alle quali si era aggiunto nel 1948 (come ulteriore Sezione) il Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana, competente per i ricorsi contro provvedimenti emanati da autorità aventi sede in Sicilia.
Dopo l'istituzione dei Tribunali amministrativi regionali, i quali hanno assorbito quasi tutta la competenza in primo grado, che prima era esercitata dal Consiglio di Stato e dagli altri organi di giurisdizione amministrativa, poc'anzi menzionati, il sistema del doppio grado ha assunto carattere generale: infatti tutte le loro sentenze sono ricorribili in appello al Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, o al Consiglio di giustizia amministrativa se si tratta di sentenze del Tribunale amministrativo della Sicilia.
A quest'ultimo riguardo va rammentato che il Consiglio di giustizia amministrativa ha perduto le competenze che dalla sua istituzione aveva esercitato in primo grado o in unico grado, rimanendo soltanto giudice (unico) d'appello contro le sentenze del predetto Tribunale: ciò attraverso le note vicende, relative alla dichiarazione di illegittimità costituzionale dell'art. 40 della l. n. 1034/1971 e alla pronuncia del Consiglio di Stato in Adunanza plenaria, che aveva escluso ogni competenza in appello del Consiglio di Stato stesso su talune decisioni del TAR siciliano.
Il principio del doppio grado, finalmente attuato in via generale, in ottemperanza all'art. 125 Cost., ha, per la giurisdizione amministrativa, rilevanza costituzionale, proprio in virtù della suddetta norma, recante l'obbligo di istituire «organi di giustizia amministrativa di primo grado»: anche se ciò era stato negato in varie occasioni, prima che i Tribunali amministrativi venissero effettivamente istituiti.
Per la definizione degli appelli avverso le pronunce della sezione autonoma di Bolzano del Tribunale regionale di giustizia amministrativa Trentino Alto Adige la sezione giurisdizionale decidente deve essere integrata con un consigliere appartenente al gruppo di lingua tedesca della provincia di Bolzano.
Gli appelli avverso le pronunce del Tribunale amministrativo regionale della Sicilia sono proposti al Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana, nel rispetto delle disposizioni dello statuto speciale e delle relative norme di attuazione (art. 6, co. 6).
L’appello è il più ampio mezzo fra tutte le impugnazioni ordinarie e costituisce l’unico gravame in senso stretto, perché investe il giudizio nella sua giustizia, come nuovo esame della causa, sia pure nei limiti dei motivi dedotti dall’appellante. L'appello, in quanto mezzo di impugnazione ordinaria, prevale su tutti i mezzi di impugnazione straordinari, tanto è vero che se è stata proposta opposizione di terzo, il relativo giudizio si sospende ed il soggetto legittimato deve intervenire in appello.
Il ricorso in appello al Consiglio di Stato è caratterizzato dall'effetto devolutivo, in virtù del quale il Consiglio di Stato riesamina l'intera controversia, ovviamente nei limiti di quanto devoluto (principio dispositivo) e del formarsi del giudicato interno (statuizione della sentenza di primo grado non oggetto di contenziosi in appello).
Pertanto, anche una omessa pronuncia del giudice di primo grado su un punto della controversia non ha effetti invalidanti sulla sentenza impugnata, ma comporta solo che la questione debba essere esaminata dal Consiglio di Stato.
Sono appellabili innanzi al Consiglio di Stato tutti i provvedimenti che abbiano un contenuto decisorio.
Sfuggono, pertanto, ad una contestazione tramite appello i provvedimenti interlocutori con i quali il giudice dispone adempimenti processuali, atteso che gli stessi sono, per loro natura, revocabili e funzionali allo svolgimento dell'istruttoria del giudizio e, come tali, privi di contenuto decisorio; tra questi rientra senz’altro la sentenza che si limita a disporre l'integrazione del contraddittorio, trattandosi di pronuncia che non è per sua natura in grado di pregiudicare la decisione della causa, nonché le sentenze di rimessione alla Corte costituzionale o alla Corte di giustizia CE, che sollevano una questione pregiudiziale ai sensi dell'art. 234 del Trattato e le sentenze che dichiarano l'interruzione o la sospensione del giudizio senza decidere su alcuna questione di carattere pregiudiziale o su alcun profilo delle domande formulate con il ricorso originario. Problematica appariva l'appellabilità delle sentenze emesse nell'ambito del giudizio di ottemperanza.
In particolare, secondo quanto precisato dalla giurisprudenza, non sono appellabili le sentenze che contengano misure meramente attuative del giudicato stesso, salvo che non contengano statuizioni aberranti o estranee all'ambito proprio del giudizio di ottemperanza, mentre sono state ritenute appellabili le sentenze rese in sede di ottemperanza che abbiano deciso questioni pregiudiziali e questioni inerenti l'elusività o meno del provvedimento adottato dall'organo amministrativo tenuto all'esecuzione della sentenza di merito.
L'art. 85, co. 7 del Codice, inoltre, conferma l'appellabilità delle ordinanze pronunciate dal Tar in sede di opposizione ai decreti presidenziali che dichiarano l'estinzione e l'improcedibilità di cui all'art. 35 c.p.a.
All'esito del giudizio di appello l'estinzione e l'improcedibilità sono dichiarate con sentenza se si verificano, o vengono accertate, all'udienza di discussione, ai sensi dell'art. 85, co. 9, c.p.a.
L'impugnabilità del decreto presidenziale che si pronuncia sull'istanza cautelare monocratica è espressamente esclusa dall'art. 56, co. 2, c.p.a.
Sono appellabili le sentenze parziali intese alla risoluzione di questioni specifiche nell'ambito del rapporto controverso, relativamente a profili di rito e di merito.
Come noto le sentenze dei giudici amministrativi possono essere “interlocutorie” o “definitive”. Le sentenze interlocutorie hanno solo la forma delle sentenze, mentre in nulla differiscono – nella sostanza – dalle ordinanze, delle quali hanno analoga funzione “ordinatoria litis”. Come queste ultime infatti, non decidono sul “petitum” del ricorso, ma si limitano a disporre incombenti istruttori o processuali. Esempi di sentenza interlocutoria sono: la sentenza che dispone la integrazione del contraddittorio; la sentenza che dispone la sospensione del processo in attesa della definizione di una questione pregiudiziale costituente oggetto di altro giudizio pendente; la sentenza che concede la rinnovazione del ricorso irregolare; la decisione che riconosce l’errore scusabile.
Fra le sentenze interlocutorie e le sentenze definitive esiste un tertium genus, per così dire intermedio: le “sentenze parziali”. Con esse il giudice definisce soltanto qualche questione (di merito o di rito) concernente la controversia, disponendo – per il resto – incombenti istruttori o processuali e riservandosi di decidere successivamente in ordine alle questioni non risolte.
Le sentenze meramente interlocutorie non determinano cosa giudicata e non sono appellabili (come non lo sono le ordinanze interlocutorie); le sentenze parziali, invece, relativamente alla parte a contenuto decisorio passano in giudicato e sono appellabili.
Dovendo incidere su una decisione di primo grado esecutiva, la sentenza di appello, qualora sia di accoglimento, conterrà una parte rescindente, volta a privare di effetti la decisione appellata, e una rescissoria, con cui sarà decisa nel merito la controversia.
Vi sono delle ipotesi, tuttavia, in cui il giudice di appello deve rinviare la causa al giudice di prime cure: ai sensi dell’art. 105 c.p.a. ciò avviene se è mancato il contraddittorio o se è stato leso il diritto di difesa di una delle parti, ovvero se viene dichiarata la nullità della sentenza, riformata la sentenza che ha declinato la giurisdizione o ha pronunciato sulla competenza o ha dichiarato l’estinzione o la perenzione del giudizio.
L'individuazione dei soggetti legittimati a proporre appello è congegnata come segue: a) «possono proporre appello le parti fra le quali è stata pronunciata la sentenza di primo grado» (art. 102, co. 1) e b) «l'interventore può proporre appello soltanto se titolare di una posizione giuridica autonoma» (art. 102, co. 2).
Per quanto riguarda la prima categoria può osservarsi che sono legittimati a proporre appello solo le parti formali cioè a dire coloro che hanno assunto la qualità di parte in senso processuale nel giudizio di primo grado.
È da ritenere che la norma – nel prevedere la legittimazione a proporre appello dell'interventore solo in quanto titolare di una posizione giuridica autonoma – abbia inteso riferirsi all'interveniente ad opponendum in quanto titolare di una posizione giuridica sostanziale autonoma che potrebbe subire un pregiudizio dalle decisioni, a differenza dell'interventore ad adiuvandum che non riveste tale posizione ed è un semplice sostenitore delle ragioni del ricorrente.
Il co. 1 dell'art. 101 disciplina il contenuto del ricorso e riprende, oltre a quanto disposto dall'art. 342 c.p.c., quanto già prescritto dall'art. 40 per il contenuto del ricorso di primo grado.
Si specifica quindi in via preliminare che l’atto introduttivo del giudizio di secondo grado deve contenere l’indicazione del ricorrente, del difensore, delle parti nei confronti delle quali è prevista l’impugnazione, della sentenza che si impugna, nonché l’esposizione sommaria dei fatti, le specifiche censure contro i capi della sentenza gravata, le conclusioni, la sottoscrizione del ricorrente se sta in giudizio personalmente oppure del difensore con indicazione nella procura speciale, rilasciata anche unitamente a quella per il giudizio di primo grado.
Con riferimento agli elementi identificativi idonei a determinare la forma interna dell'atto di appello, il Codice ha mantenuto valido l'indirizzo giurisprudenziale e dottrinario antiformalistico, volto a ridurre i casi di inammissibilità in presenza di vizi formali superabili dall'atto nel suo complesso.
a) Devono emergere con chiarezza dall’atto le connotazioni di tutte le parti (ricorrente, resistente e controinteressati) e dei rispettivi difensori con l'indicazione della procura e del domicilio eletto, la sentenza che si impugna, l'esposizione dei fatti, i motivi di ricorso nonchè la sottoscrizione della parte e dell'avvocato ovvero solo dell'avvocato se munito di mandato speciale.
b) Sebbene sia stato dibattuto se oggetto del giudizio fosse la sentenza di primo grado ovvero il provvedimento amministrativo impugnato in primo grado, è ormai prevalente l'orientamento in virtù del quale l'oggetto è costituito dalla sentenza.
c) Per l’esposizione dei fatti ci si può contenere al rilievo che l’onere dell’esposizione sommaria dei fatti (anche tenendo conto dell’art. 3 del Codice) è soddisfatto quando, pur mancando nell’atto una parte narrativa di tali fatti, ad essi si sia fatto riferimento nella parte espositiva dei motivi dell’impugnazione, in modo da consentire al giudice, attraverso l’esame degli atti del processo già ritualmente acquisiti, di trarre gli elementi indispensabili per una cognizione dei termini della controversia e dello svolgimento del processo; tale esposizione, peraltro, deve coincidere con quella contenuta nella sentenza impugnata, perché, in caso contrario, si configura una carenza in ordine alla intelligenza delle censure, che si risolve nel difetto di specificità dei motivi.
d) L'atto di appello deve contenere l'indicazione di specifiche censure nei confronti della sentenza impugnata (art. 101, co. 1, che trova una corrispondenza nell'art. 342 c.p.c.), e non è sufficiente la semplice riproposizione dei motivi di ricorso già contenuti nell'atto introduttivo del giudizio di primo grado.
Nel processo amministrativo, ripetesi, il giudizio d’appello ha per oggetto non già il provvedimento impugnato in primo grado, ma la sentenza con cui è stato deciso il relativo ricorso.
La cognizione del giudice resta circoscritta alle questioni dedotte dall'appellante attraverso l'enunciazione di specifici motivi; tale specificità dei motivi esige che, alle argomentazioni svolte nella sentenza impugnata, vengano contrapposte quelle dell'appellante, volte ad incrinare il fondamento logico-giuridico delle prime, non essendo le statuizioni di una sentenza separabili dalle argomentazioni che le sorreggono; ragion per cui, alla parte volitiva dell'appello, deve sempre accompagnarsi una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice; pertanto, non si rivela sufficiente il fatto che l'atto d'appello consenta di individuare le statuizioni concretamente impugnate, ma è altresì necessario, pur quando la sentenza di primo grado sia stata censurata nella sua interezza, che le ragioni sulle quali si fonda il gravame siano esposte con sufficiente grado di specificità, da correlare, peraltro, con la motivazione della sentenza impugnata.
e) Relativamente alla sottoscrizione si ammette quella del ricorrente "se sta in giudizio personalmente"; tale previsione, in considerazione della preclusione ex art. 95 (Parti del giudizio di impugnazione), co. 6, (che esclude che nei giudizi di impugnazione possa farsi ricorso alla difesa personale, senza l'assistenza del difensore, prevista dall'art. 23 per i giudizi in materia di accesso, in materia elettorale e nei giudizi relativi al diritto dei cittadini dell'Unione europea e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri), deve essere ragionevolmente intesa come sottoscrizione del ricorrente che sia avvocato (abilitato all'esercizio della professione dinanzi le giurisdizioni superiori) e si difenda in proprio.
Per quanto concerne la sottoscrizione, peraltro è stato rimarcato che non sussiste la nullità dell’atto di appello quando la stessa sia stata apposta soltanto sotto la certificazione dell’autenticità della firma della parte, in caso di procura alle liti redatta in calce o a margine dell’atto, dato che nell’ipotesi considerata la firma del difensore ha il duplice scopo della sottoscrizione dell’atto medesimo e della certificazione dell’autografia del mandato.
I termini mandato e procura tendono ad essere usati indifferentemente. Ma s’intende che mandato è il contratto che lega cliente e patrono, mentre procura è l’atto unilaterale ed astratto attribuito a quest’ultimo del potere di compiere manifestazioni di volontà in nome e per conto del rappresentato.
La procura può essere stesa a margine ed alla fine del ricorso essendo, in entrambi questi casi, contestuale. La firma può venire autenticata dal legale-procuratore, cui è pertanto attribuita la relativa potestà fidefacente (art. 93, co. 3, c.p.c.).
f) Il ricorso in appello così predisposto deve essere notificato presso il luogo individuato dall'art. 93 c.p.a. e depositato, unitamente a una copia della decisione appellata e alla prova dell'avvenuta notifica, presso la segreteria del giudice adito, a pena di decadenza, entro il termine di trenta giorni dall'ultima notificazione.
L'art. 104 concorre, con il precedente art. 101, co. 2, a definire il contenuto dell'atto di appello, dettando prescrizioni che sono conseguenza logica della natura devolutiva che connota il giudizio di appello.
Tale natura, strettamente connessa alla funzione rinnovativa del giudizio di secondo grado in quanto revisio prioris instantiae, comporta la devoluzione al giudice di appello del materiale cognitorio (domande, eccezioni, deduzioni, difese, ecc.) introdotto in prime cure nonché degli stessi poteri di cognizione e di decisione spettanti a quello di primo grado.
L'effetto devolutivo dell'appello è temperato, in assenza di poteri inquisitori nel processo amministrativo, dal principio dispositivo il quale comporta che il giudice amministrativo possa conoscere e definire soltanto le questioni sottoposte dalle parti e nei termini in cui sono state dedotte.
Quale corollario del principio dispositivo e dell’effetto devolutivo, l’estensione del giudizio di appello è circoscritta, da un lato, a quanto dedotto dal ricorrente con il ricorso in primo grado e, dall’altro, a quanto espressamente devoluto al giudice di seconde cure con l’atto di gravame.
In tale prospettiva, ed in applicazione di tale principio, devono intendersi rinunciate – secondo quanto prescritto dall’art. 101, co. 2 – le domande e le eccezioni dichiarate assorbite o non esaminate nella sentenza di primo grado che non siano state espressamente riproposte nell’atto di appello o, per le parti diverse dall’appellante, con memoria depositata a pena di decadenza entro il termine per la costituzione in giudizio.
D’altra parte, la natura devolutiva dell’atto di appello implica a contrario il divieto di proporre domande nuove, ovvero nuove eccezioni non rilevabili d’ufficio, secondo la prescrizione di cui all’art. 104, co. 1 (divieto dello ius novorum).
Il divieto di ius novorum subisce – per espressa previsione della medesima norma – alcune deroghe.
Viene espressamente fatto salvo il caso dell’art. 34, co. 3, c.p.a., a tenore del quale quando nel corso del giudizio l’annullamento del provvedimento impugnato non risulta più utile per il ricorrente, il giudice accerta l’illegittimità dell’atto se sussiste l’interesse a fini risarcitori.
Si tratta di una disposizione innovativa introdotta dal c.p.a. e specifica per il processo amministrativo, di cui non vi era traccia nel sistema previgente.
La portata dell’eccezione al divieto di domande nuove, fatta dall’art. 104, co. 1, c.p.a., mediante richiamo all’art. 34, co. 3, è da intendersi nel senso che la domanda di accertamento dell’illegittimità in funzione dell’interesse risarcitorio (indispensabile atteso che il giudice non può pronunciarsi ex officio ritenendo compresa la richiesta di accertamento in quella di annullamento) formulata per la prima volta in appello, non costituisce domanda nuova inammissibile, rispetto all’originaria domanda di annullamento se, nelle more tra giudizio di primo grado ed appello, è venuto meno l’interesse all’annullamento dell’atto, ma residua l’interesse al riscontro della sua illegittimità.
Ulteriore eccezione al divieto di ius novorum è costituita dalle domande aventi ad oggetto interessi ed accessori maturati dopo la sentenza di primo grado ed il risarcimento dei danni subiti dopo la sentenza medesima. Tali domande possono essere formulate per la prima volta in appello. La previsione trae origine dal processo civile (art. 345, co. 1, c.p.c.). Con specifico riferimento alla domanda di interessi ed accessori maturati dopo la sentenza di primo grado, risulta codificata in senso ampliativo la conclusione alla quale la giurisprudenza del giudice amministrativo era già pervenuta da tempo limitatamente agli interessi maturati prima della sentenza di primo grado e non richiesti nel corso del relativo giudizio, sulla base del rilievo che la richiesta di interessi e rivalutazione monetaria, configurandosi alla stregua di uno strumento di determinazione del petitum originario, può essere avanzata per la prima volta anche in sede di appello.
Maggiori considerazioni merita invece la disposizione nella parte in cui consente di proporre in sede di appello la domanda di risarcimento dei danni subiti dopo la sentenza di primo grado; possibilità peraltro confermata dall'art. 112 c.p.a., nella parte in cui è consentita la possibilità di proporre l’azione risarcitoria in sede di ottemperanza.
Ulteriore eccezione al divieto di ius novorum ha ad oggetto l’ammissibilità, entro ristretti limiti, di motivi aggiunti. Si tratta, in questo caso, di una previsione specifica per il processo amministrativo.
I motivi aggiunti in appello sono consentiti solo per dedurre ulteriori censure in relazione ad atti e provvedimenti già impugnati con il ricorso di primo grado (o con rituale atto di motivi aggiunti proposto in prime cure), allorché i vizi ulteriori emergano da documenti non prodotti dalle altre parti nel giudizio di primo grado (art. 104, co. 3).
Nel giudizio di appello, inoltre, non possono essere prodotti nuovi documenti né sono ammessi nuovi mezzi di prova.
Il divieto è attualmente sancito dal co. 2 dell'art. 104 del Codice, il quale dispone che non sono ammessi nuovi mezzi di prova e non possono essere prodotti nuovi documenti, salvo che «il Collegio li ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa ovvero che la parte non dimostri di non aver potuto proporli o produrli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile».
La norma subordina dunque l’ammissibilità della produzione di nuovi fatti di prova all’esistenza di due presupposti alternativi: un presupposto oggettivo, ravvisabile nella indispensabilità della prova per la risoluzione della questione controversa; un presupposto soggettivo, ravvisabile nella impossibilità, per causa non imputabile, di produzione della prova in primo grado.
Traendo ispirazione dal principio dispositivo e dall’art. 346 c.p.c., il co. 2 dell'art. 104 del Codice considera “rinunciate” le domande e le eccezioni dichiarate assorbite o non esaminate nella sentenza di primo grado ove non siano state espressamente riproposte nell’atto di appello, prevedendo altresì, a tutela del contraddittorio, che la riproposizione delle domande e delle eccezioni formulate dalle parti diverse dall’appellante debba essere effettuata con apposita memoria da depositare, a pena di decadenza, entro il termine previsto per la costituzione in giudizio.
Il divieto della proposizione di domande nuove nel giudizio di appello è un‘applicazione del principio del doppio grado di giurisdizione e tende ad evitare l’ampliamento della decisione portata all’esame del giudice di primo grado.
Va anche precisato che, se;condo l'orientamento ormai gene;ralizzato di cui si è detto, ove la sentenza appellata sia fondata su una pluralità di motivi di accogli;mento di cui uno solo ritualmente contestato, l'appello è inammissi;bile giacché l'eventuale riconosciuta fondatezza dell'unico motivo contestato non sarebbe idonea a determinare l'annullamento di una decisione che si fonda su ragioni non censurate.
Di particolare rilievo è, infine, la disposizione dell'ultima parte del co. 2 dell'art. 101 del Codice. Tale disposizione afferisce alla posizione di un soggetto che non è appellante, ma era parte nel giudizio di primo grado. Costui potrà costituirsi nel termine di sessanta giorni dalla notificazione, e, solo in quella occasione, potrà riproporre in memoria eventuali domande o eccezioni; la mancata riproposizione sarà considerata rinuncia alle stesse.
In caso di fondatezza dei motivi del ricorso, i motivi assorbiti in primo grado potevano essere riproposti dall'appellato (vincitore in primo grado) con semplice memoria senza indicazione di un termine decadenziale; come già detto, invece, ora per il Codice (art. 101) i motivi assorbiti potranno ancora venir riproposti con semplice memoria (con disposizione assolutamente innovativa), ma entro il termine per la costituzione (60 giorni dal perfezionamento della notifica dell'appello).
La giurisprudenza amministrativa ha chiarito che la riproposizione in appello dei motivi assorbiti esige che la parte appellata indichi specificamente le censure che intende siano devolute alla cognizione del Consiglio di Stato, al fine di consentire, per un verso, al giudice una compiuta conoscenza delle relative questioni e, per altro, alle controparti di contraddire consapevolmente sulle stesse, con la conseguenza che un indeterminato rinvio agli atti di primo grado, senza alcuna ulteriore precisazione del loro contenuto, si rivela inidoneo ad introdurre nel thema decidendum del giudizio di appello i motivi in tal modo dedotti, salva, come detto, la possibilità che la riproposizione avvenga mediante semplice memoria difensiva non soggetta, quindi, alle forme e ai termini dell’appello incidentale.
Strettamente connessa alla disciplina della riproposizione delle domande ed eccezioni dichiarate assorbite è l’art. 9 che, al secondo alinea dell’unico comma, dispone che nei giudizi di impugnazione il difetto di giurisdizione è rilevato se dedotto con specifico motivo avverso il capo della pronuncia impugnata che, in modo implicito o esplicito, ha statuito sulla giurisdizione.
Strettamente connessa a tale problematica è anche la norma dettata dall'art. 11, co. 3, c.p.a. secondo cui, quando il giudizio è tempestivamente riproposto davanti al giudice amministrativo, quest'ultimo, alla prima udienza, può sollevare anche d'ufficio il conflitto di giurisdizione.
Con particolare riferimento al giudizio innanzi al Consiglio di Stato, è interessante notare che, secondo la recente giurisprudenza della Corte di Cassazione, tale norma – da interpretare alla stregua di quella dettata dall'art. 59, co. 3, l. n. 69/2009 – non preclude che, nel giudizio tempestivamente riproposto innanzi a sé, il giudice amministrativo di seconde cure sollevi d'ufficio il conflitto di giurisdizione; ciò è ammissibile ogniqualvolta il giudizio di primo grado si sia concluso previo rilievo di questione attinente all'ordine del processo, logicamente pregiudiziale rispetto alla stessa questione di giurisdizione.
Con disposizione transitoria l’art. 3 (Disposizione particolare per il giudizio di appello) dell’allegato 3 (Norme transitorie) dispone che l’art. 102, co. 2, non si applica agli appelli depositati prima dell’entrata in vigore del Codice (16.9.2010).
Costituisce principio di carattere generale, sebbene enunciato espressamente soltanto per l'appello, anche il principio dell'acquiescenza (che trova una corrispondenza negli artt. 329 e 346 c.p.c.) secondo cui si intendono rinunciate le domande e le eccezioni dichiarate assorbite o non esaminate nella sentenza di primo grado che non siano state espressamente riproposte nell'atto di appello o, per le parti diverse dall'appellante, con memoria depositata a pena di decadenza entro il termine per la costituzione in giudizio.
L'acquiescenza, riguardo all'oggetto, può essere totale o parziale e, con riferimento alle modalità della sua esternazione, espressa o tacita.
L’acquiescenza presuppone atti o comportamenti univoci posti liberamente in essere dall’Amministrazione che dimostrino la chiara ed irrefutabile volontà di accettarne gli effetti e l’operatività.
L'acquiescenza totale si verifica quando la parte legittimata ad impugnare, prima della scadenza dei termini di decadenza, accetti integralmente gli effetti della sentenza già pubblicata.
L'acquiescenza parziale (o impropria) è quella che si determina quando la parte legittimata impugni soltanto alcuni capi della decisione. Anch'essa, come quella totale, può essere espressa o tacita.
Qualora non sia esternata in modo esplicito, l'acquiescenza si risolve in una "rinuncia" tacita ad un'impugnazione concretamente proponibile e, non a caso, l'art. 329, co. 1, c.p.c. esclude la possibilità di prestare acquiescenza rispetto ai motivi della revocazione straordinaria.
Il co. 2 dell'art. 329 c.p.c. e il co. 2 dell'art. 101 del Codice, secondo cui l'impugnazione parziale comporta acquiescenza alle parti di sentenza non impugnate, contemplano invece un'ipotesi particolare (e qualificata) di acquiescenza tacita.
Nella prospettiva di armonizzare il giudizio amministrativo alle regole del processo civile e, comunque, apprestare uno strumento di tutela più effettivo ed efficace a vantaggio delle parti, è stata prevista la possibilità per la parte soccombente in primo grado di formulare una riserva di appello. Questa infatti deve essere esternata con atto notificato, formulata nello stesso termine previsto per l'appello (art. 92) ed infine depositata presso la segreteria del giudice di primo grado (dunque non di quella del Consiglio di Stato).
Con l'art. 103, attraverso la sostanziale riproduzione dell’art. 340 c.p.c., viene superato quell’indirizzo giurisprudenziale che, nel silenzio della legge istitutiva dei TAR e del T.U. delle leggi sul Consiglio di Stato, negava l’estensione al processo amministrativo dell’istituto di procedura civile della riserva di appello contro le sentenze non definitive; indirizzo per la verità da tempo superato da pronunce di segno opposto.
La disposizione in esame non richiama tuttavia l’ultimo comma dell’art. 340 c.p.c, per cui rimangono tuttora delle incertezze sull’efficacia di tale riserva quando la sentenza sia già stata impugnata da una delle altre parti.
Peraltro, atteso che è impensabile che se una parte abbia impugnato la sentenza parziale il processo di appello possa essere ritardato o intralciato dal perdurare del giudizio di primo grado, sembra che la parte (che ha formulato la riserva) potrà semmai costituirsi nel giudizio di appello, ma non vedrà mai compromessa la sua posizione in merito alle eventuali future iniziative con le quali tradurrà la riserva formulata.
L'art. 105 c.p.a. disciplina in modo organico un istituto sul quale l'apporto della giurisprudenza era stato ampio e soddisfacente.
Il giudice di appello annulla con rinvio la sentenza del giudice di primo grado se: a) è mancato il contraddittorio; b) è stato leso il diritto di difesa di una delle parti; c) dichiara la nullità della sen;tenza; d) riforma la sentenza che ha erroneamente declinato la giurisdizione; e) riforma la sentenza che ha erroneamente pronunciato sulla competenza; f) riforma la sentenza che ha dichiarato l'estinzione o la perenzione del giudizio.
Artt. 100-105 c.p.a.
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