Abstract
Esaurito il giudizio di prima istanza, il controllo sia di merito, sia di legittimità è conferito ad un giudice di seconda istanza. Si tratta di quello che, tradizionalmente definito appello, configura il c.d. doppio grado di giurisdizione. Ancorché questa regola non sia ritenuta un principio costituzionalmente garantito, l’appello conserva una sua tradizionale forza ed una solidità strutturale che ne rendono problematica l’eliminazione o la compressione.
Modulato diversamente in ordine alle forme di esercizio - tra pubblicità e camera di consiglio - resta sospeso tra la "riapertura" del giudizio ed una più rigorosa impostazione di controllo.
Il primo rimedio al quale tradizionalmente si ricorre per verificare eventuali errori nei quali può essere incorso il giudice di primo grado è il giudizio d’appello, cioè, un giudizio di secondo grado.
Si tratta di un istituto che rappresenta il crogiuolo di numerose problematiche e di non secondarie questioni giuridiche, spesso risolte con soluzioni di compromesso. Così, l’appello finisce per collocarsi in posizione ibrida tra la c.d. azione di impugnativa (di annullamento, o querela nullitatis) ed il c.d. gravame (un nuovo giudizio), cioè, tra l’azione finalizzata alla rescissione totale o parziale della sentenza con vincolo dei motivi sui poteri del giudice e l’atto diretto al superamento della decisione appellata con pienezza dei poteri del giudice. Così, il giudizio di secondo grado, ancorché attivato dalle parti con l’indicazione di motivi in fatto e in diritto (in numero non tassativo), non escluda poteri officiosi del giudice; così, la devoluzione, sostanziata dai motivi di gravame, si allarga coinvolgendo i capi e i punti toccati dalle ragioni delle parti; così, all’annullamento con regressione nei gradi precedenti si affiancano situazioni invalidanti che consentono al giudice d’appello di trattenere il giudizio.
Paradossalmente, il giudizio d’appello è ritenuto (astrattamente) incompatibile sia con il modello di tipo inquisitorio (puro), sia con quello di natura accusatoria (pura). Quanto al primo, la conclusione consegue alla considerazione che non è facile accettare – per una impostazione autoritaria – che le parti (soprattutto, l’imputato) possano porre nel nulla, con un loro atto, una decisione giudiziale, teoricamente perfetta, e tanto meno limitare i poteri di cognizione e di decisione del giudice. Quanto al secondo, l’impostazione deriva dal fatto che, potendosi la prova formare nel contraddittorio e nell’oralità, solo una volta, quella di prima istanza, un secondo giudizio sarebbe governato dal sistema degli atti assunti in primo grado (c.d. sistema cartolare) e, quindi, dalla lettura dei verbali, incompatibilmente proprio con l’essenza del modello di garanzia.
Peraltro, pur dovendosi misurare con il principio della durata ragionevole del processo e con la necessità di evitare un uso dello strumento a fini dilatori, l’esigenze di giustizia – sottese all’appello – hanno finito per prevalere e per espandersi, pur mancando una diretta copertura costituzionale (art. 24 Cost.) e una univoca indicazione convenzionale (v., tuttavia, art. 2 del VII Protocollo CEDU) alla previsione del doppio grado di giurisdizione nel merito, ferma, cioè, la garanzia del ricorso per cassazione per motivi di legittimità. Invero, esclusa ogni riferibilità del “doppio grado” alla possibilità che due giudici debbano sempre valutare tutte le questioni, la necessità d’una verifica della decisione di prime cure è percepita dalla società italiana come ineludibile.
Le considerazioni svolte consentono di comprendere come sia conferita al legislatore una certa flessibilità nel regolare sia le decisioni appellabili, sia i soggetti legittimati, sia i poteri di cognizione e di decisione del giudice, sia gli sviluppi procedimentali del giudizio. Non mancano, del resto, ipotesi di controllo alternative, come quelle della “doppia conforme” (cioè, sempre la doppia decisione sullo stesso oggetto), seppur variamente concepita e articolata.
Quanto ai provvedimenti appellabili ed ai soggetti legittimati, la materia, dopo la riforma della c.d. legge Pecorella (l. 20.2.2006, n. 46) è stata ridisegnata dalla Corte costituzionale (C. cost., 6.2.2007, n. 26; C. cost., 4.4.2008, n. 85). Invero, con la sentenza n. 26/2007 la Corte costituzionale ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 593, co. 2, c.p.p. nella parte in cui limitava l’appello del pubblico ministero alla sussistenza di novum probatorio decisivo, con la conseguenza che ora l’accusa può appellare incondizionatamente tutte le sentenze di proscioglimento del Tribunale e della Corte di assise. Successivamente, con la sentenza n. 85/2008 è stata dichiarata l’incostituzionalità dell’art. 593, co. 2, c.p.p. nella parte in cui esclude che l’imputato possa appellare contro le sentenze di proscioglimento relative a reati diversi dalle contravvenzioni punite con la sola ammenda o con pena alternativa.
Pubblico ministero ed imputato potranno, invece, appellare le sentenze di condanna, fatte salve quelle con le quali sia stata applicata la sola pena dell’ammenda (art. 593, commi 1 e 3, c.p.p.).
Le specificità dei riti speciali a contenuto premiale trovano riscontro anche nella disciplina dei gravami. Con riferimento al rito abbreviato, si stabilisce che l’imputato non può proporre appello contro le sentenze di proscioglimento (l’analogo limite imposto al pubblico ministero dalla legge Pecorella è stato rimosso da C. cost., 10.7.2007, n. 320) e che il p.m. non può proporre appello contro le sentenze di condanna, salvo che si tratti di sentenza che modifica il titolo del reato (art. 443 c.p.p.) sentenze di condanna che saranno sempre appellabili dall’imputato.
Quanto al patteggiamento, le sentenze a pena concordata sono inappellabili, fatto salvo il caso in cui la decisione sia stata pronunciata nonostante il dissenso del p.m. che, allora, sarà legittimato a proporre appello. L’eventuale sentenza emessa dal giudice ex art. 129 c.p.p., nonostante l’accordo delle parti, dovrebbe seguire le riferite regole generali dell’appello ex art. 593, co. 2, c.p.p.
Norme particolari sono dettate per l’appello delle sentenze di non luogo a procedere, ormai escluso (art. 428 c.p.p.); delle decisioni del giudice di pace variamente articolato, sia in relazione ai soggetti, sia con riferimento alla tipologia (artt. 36, 37 e 38, d.lgs 28.8.2000, n. 274) e delle pronunce di condanna e di proscioglimento che applicano misure di sicurezza (artt. 579 e 680 c.p.p.).
La competenza a giudicare è attribuita alla Corte d'appello, se l’impugnazione riguarda le sentenze del Tribunale o le sentenze del giudice per le indagini preliminari per reati di competenza del Tribunale (art. 596, co. 3, c.p.p.); la competenza spetta, invece, alla Corte d'assise d'appello se il giudizio di secondo grado coinvolge le sentenze della Corte d'assise (art. 596, co. 2, c.p.p.) e quelle del giudice per le indagini preliminari per i reati di cui all'art. 5 c.p.p. (art. 596, co. 3, c.p.p.).
La parte che non ha appellato, pur essendo legittimata, potrà appellare, a sua volta, quando sarà stata informata ex art. 594 c.p.p. che un altro soggetto legittimato ha presentato appello: si tratta dell’appello incidentale. Indubbiamente pensato in funzione di sbarramento per le impugnazioni proposte con fini dilatori, il rimedio è stato costruito tenendo conto in larga parte della motivazione della sentenza C. cost. 17.11.1971, n. 177, con cui era stato dichiarato costituzionalmente illegittimo l'appello incidentale del pubblico ministero previsto dall'ultimo co. dell'art. 515 c.p.p. 1930.
Così, a evitare che l'appello incidentale, consentito soltanto all'organo d'accusa, turbi l'equilibrio del contraddittorio, si è stabilito che esso operi a favore di tutte le parti (art. 595, co. 1, c.p.p.), disponendosi tuttavia che «l'appello incidentale perde efficacia in caso di inammissibilità dell'appello principale o di rinuncia allo stesso» (co. 4). In questi termini, l’appello incidentale del p.m. è stato ritenuto costituzionalmente legittimo (C. cost., 15.7.2005, n. 280). Per altro verso, fatta salva l'operatività dell'effetto estensivo ai sensi dell'art. 587 c.p.p., si stabilisce che l'appello incidentale del pubblico ministero non abbia effetti nei confronti del coimputato non appellante che non ha partecipato al giudizio di appello (co. 3). In altri termini, i coimputati non appellanti, regolarmente informati dell'iniziativa del pubblico ministero (art. 584 c.p.p.) e tempestivamente citati (art. 601, co. 1, c.p.p.), potranno orientarsi liberamente - tenendo conto di quanto disposto dal co. 2 dell'art. 592 c.p.p. in relazione alla condanna alle spese - circa la partecipazione al giudizio d'appello. Resta ferma, comunque, la possibilità per gli stessi di avvalersi, in forza dell'effetto estensivo, della decisione favorevole pronunciata dal giudice di secondo grado, a norma dell'art. 587 c.p.p.
Quanto agli altri aspetti dell'istituto, l'art. 595 c.p.p. prevede che l'appello incidentale venga proposto dalla parte non impugnante entro quindici giorni dalla comunicazione o notificazione disposta dalla cancelleria del giudice a quo (art. 584 c.p.p.); l’atto dovrà essere presentato e notificato a norma degli artt. 581, 582, 583 e 584 c.p.p., cioè, con le forme e le modalità previste per l'impugnazione.
E’ ormai chiarito che la legittimazione ad appellare in via incidentale spetti soltanto al soggetto legittimato ad appellare in via principale e che l'appello incidentale riguarda i soli punti lambiti dai motivi formulati in sede principale (Cass., S.U., 17.10. 2006, Michaeler, in Cass. pen., 2007, 2313).
Muovendo dalla premessa che il contenuto del giudizio d'appello non sempre si presenta omogeneo e che non risulta opportuno attivare un meccanismo complesso come quello dibattimentale, anche quando la materia sia circoscritta, il legislatore ha ritenuto opportuno adattare il rito all'oggetto della domanda. Con l'art. 599 c.p.p., infatti, si è prevista una procedura in camera di consiglio, da affiancare alla ordinaria ipotesi del giudizio d'appello in udienza pubblica. Ne discende la possibilità di due distinti riti: l'uno caratterizzato dall'udienza dibattimentale; l'altro destinato alla camera di consiglio.
A parte i particolari casi previsti dall'art. 443, co. 4, c.p.p., in relazione all'appello nei confronti delle sentenze emesse all’esito del giudizio abbreviato, c’è un’altra ipotersi per la quale si fa luogo alla procedura in camera di consiglio.
La previsione è regolata dall'art. 599, co. 1, c.p.p. e si realizza di per sé quando l'appello ha “esclusivamente” per oggetto la specie o la misura della pena, anche con riferimento al giudizio di comparazione fra circostanze, oppure l’applicabilità delle circostanze attenuanti generiche, delle sanzioni sostitutive, della sospensione condizionale della pena o della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale. Davanti al giudice d'appello, salvo quanto disposto dall'art. 599, co. 2, c.p.p., per il caso in cui l'imputato legittimamente impedito manifesti la volontà di essere presente, la partecipazione dell'accusa e della difesa è imprescindibile, ai sensi dell'art. 599, co. 3, c.p.p., solo quando occorra procedere alla rinnovazione dell'istruzione dibattimentale: conseguentemente, qualora il pubblico ministero e i difensori non siano presenti e venga disposta la rinnovazione, il giudice fissa una nuova udienza, ordinando che copia del provvedimento sia comunicata all'uno e notificata agli altri.
Una seconda ipotesi di giudizio d’appello in camera di consiglio regolata dagli artt. 599, commi 4 e 5 e 602, co. 2, c.p.p. ove era disciplinato il c.d. concordato sui motivi e sulla pena è stata abrogata dalla l. 24.7.2008, n. 125, di conversione del d.l. 23.5.2008, n. 92.
Resta confermata, ancorché collocata su di un altro piano rispetto a quello sin qui considerato, la procedibilità in camera di consiglio per i provvedimenti relativi all'esecuzione delle condanne civili. Ai sensi dell'art. 600 c.p.p., infatti, il giudice d'appello provvede ex art. 127 c.p.p., sia nei confronti dell'impugnazione della parte civile, qualora il giudice di primo grado (artt. 539-540 c.p.p.) abbia omesso di pronunciarsi sulla richiesta di provvisoria esecuzione ovvero l'abbia rigettata (art. 600, co. 1, c.p.p.); sia relativamente al gravame del responsabile civile e dell'imputato che chiedano la revoca o la sospensione della provvisoria esecuzione oppure la sospensione dell'esecuzione della condanna alla provvisionale, “quando ricorrano gravi motivi” (Corte cost., 27.7.1994, n. 353). Le decisioni del giudice d'appello sull'azione civile sono immediatamente esecutive (art. 605, co. 2, c.p.p.).
Al di fuori dei casi appena delineati, il giudizio d’appello si celebra in pubblica udienza: nel relativo procedimento, per la parte non regolata espressamente dagli artt. 601-605 c.p.p., trovano estrinsecazione, in quanto applicabili, le disposizioni relative al giudizio di primo grado. Conseguentemente, l'iter processuale, può essere così ricostruito.
Nella fase predibattimentale, superato il momento relativo all'accertamento dell'ammissibilità del gravame (art. 591 c.p.p.), si procederà a citare l'imputato appellante e, se vi è appello del pubblico ministero, ovvero trovi estrinsecazione l'effetto estensivo, oppure l'appello sia proposto per i soli interessi civili, si citerà anche l'imputato non appellante, il quale, se potrà beneficiare dell'effetto estensivo, qualora partecipi al giudizio d'appello, dovrà rispondere delle spese processuali in caso di “soccombenza” (art. 592, co. 2, c.p.p.).
Inoltre, tra gli altri adempimenti, si disporrà la citazione del responsabile civile, della persona civilmente obbligata, della parte civile (quest'ultima anche quando ha appellato il solo imputato contro una sentenza di proscioglimento) e del querelante che abbia impugnato o nei cui confronti sia stato proposto appello relativamente a spese e danni (artt. 574, 575 e 576 c.p.p.). Infine, venti giorni prima della data fissata per il giudizio, l'avviso dovrà essere dato anche ai difensori.
Per la fase dibattimentale, invece, i momenti più significativi sono segnati sempre dalla relazione della causa ad opera del presidente o del consigliere da lui delegato (art. 602, co. 1, c.p.p.) .
Le successive cadenze sono caratterizzate dalla lettura, disposta anche d'ufficio, degli atti del giudizio di primo grado nonché, nei limiti di cui agli artt. 511-513 c.p.p., degli atti compiuti nelle fasi precedenti (art. 602, co. 3, c.p.p.) e dalla rinnovazione dell'istruzione dibattimentale. Terminata la discussione (il cui inizio segna ex art. 589 c.p.p. il momento limite per la rinuncia al gravame), che si svolgerà secondo lo schema delineato dall'art. 523 c.p.p. (art. 602, co. 4, c.p.p.), si procederà alla deliberazione, redazione e pubblicazione della decisione, mentre per gli aspetti esecutivi dovranno applicarsi le previsioni dell'art. 605, co. 2 e 3, c.p.p.
La considerazione che si è già celebrato un giudizio di prima istanza e che spetta alle parti indicare – con i motivi di
impugnazione – le ragioni per le quali si chiede un nuovo giudizio ha suggerito al legislatore di articolare una disciplina sui poteri di cognizione del giudice d’appello. Il giudizio d’appello potrà riguardare l’intera sentenza o solo alcuni punti di essa: le parti, cioè, potranno chiedere al giudice di secondo grado di riconsiderare i capi o i punti di una decisione. Infatti, il co. 1 dell'art. 597 c.p.p. nel delineare la materia oggetto del giudizio del gravame afferma che ove non sia toccata l’intera sentenza (cioè, l’intero capo della decisione) «l'appello attribuisce al giudice di secondo grado la cognizione del procedimento limitatamente ai punti della decisione ai quali si riferiscono i motivi proposti». Resta confermato, in altri termini, che la “domanda” dei soggetti appellanti opera sotto un duplice profilo: da un lato, giustifica la proposizione del rimedio, senza vincolare il giudice con il suo contenuto; dall'altro, delimita l'area del controllo e del giudizio da parte del giudice dell'impugnazione ai capi e ai punti della sentenza oggetto dell’appello (si tratta del c.d. principio del tantum devolutum quantum appellatum, con conseguente inserimento dell'appello tra i mezzi parzialmente devolutivi) . Sotto questo profilo, si segnala che per “punto” di una sentenza deve intendersi ogni decisione suscettibile di autonomia all’interno di un capo e che per “capo” di una sentenza deve intendersi quanto ha bisogno di un provvedimento nella forma della sentenza per essere definito.
Peraltro, pur nella sua linearità concettuale, questa ricostruzione ha suscitato non pochi interrogativi sulla effettiva materia devoluta al giudice di secondo grado. Invero, sia la mancata predeterminazione ex lege dei motivi d'appello, con conseguente possibilità di dedurre, con ampio spettro, sia errores in iudicando, sia errores in procedendo, seppur non tale da consentire la deduzione di qualsiasi eccezione (ad es., una irregolarità improduttiva di conseguenze processuali), sia la difficoltà di definire quali siano i punti della decisione (tra una impostazione atomistica ed una meno frazionata) hanno ingenerato non poche questioni applicative, favorendo le soluzioni più rigide. Proprio al fine di evitare questo tipo di incertezze, l'art. 581 c.p.p. prevede che nell'atto d'impugnazione, oltre alle richieste ed ai motivi (con specifica indicazione delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta), siano enunciati i capi ed i punti della decisione impugnata: un reticolo di indicazioni così strutturato dovrebbe sicuramente contribuire a ridurre le riferite aree di incertezza. Queste scelte, tuttavia, non escludono alcune deroghe, che ne restringono in parte la portata.
Da un lato, il giudice ad quem potrà indirizzare la sua attenzione a quei punti della decisione di primo grado che, sebbene non impugnati, si trovano in rapporto di pregiudizialità, di dipendenza, di inscindibilità o di connessione essenziali con quelli appellati; dall'altro, il giudice d'appello – seppur eccezionalmente – potrà considerare profili implicitamente contenuti nella domanda o sopravvenuti alla presentazione della stessa, non formanti oggetto della decisione impugnata. Inoltre, resta confermato che il giudice potrà comunque considerare d’ufficio numerose questioni: il difetto di giurisdizione (art. 20 c.p.p.), l'incompetenza per materia (art. 21, co. 1, c.p.p.), l'errore di persona (art. 68 c.p.p.), le cause di non punibilità (art. 129 c.p.p.), le situazioni di nullità (artt. 179 e 180 c.p.p.), l'inutilizzabilità delle prove illegittimamente acquisite (art. 191, co. 2, c.p.p.), la preclusione connessa al ne bis in idem (art. 649, co. 2, c.p.p.), le questioni di legittimità costituzionale (art. 23, co. 3, l. 11.3.1953, n. 87), la situazione prevista dall'art. 1 c.p., nonché applicare la sospensione condizionale della pena, la non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale e una o più circostanze attenuanti, effettuando quando occorre, il giudizio di comparazione a norma dell'art. 69 del c.p. (art. 597, co. 5, c.p.p.).
Una disciplina particolare è dettata anche per i poteri decisionali, dovendosi distinguere a seconda che l'appello sia stato proposto (anche) dal pubblico ministero oppure dal solo imputato.
Nella prima ipotesi, infatti, deve escludersi che l'iniziativa dell'organo d'accusa ponga limiti al contenuto della pronuncia del giudice di secondo grado.
La normale ampiezza dei poteri decisionali del giudice d’appello subisce, invece, una deroga nel caso di appello proposto dal solo imputato: con esclusione, quindi, dell'ipotesi di appello (principale o incidentale) concorrente del pubblico ministero. In questa situazione, infatti, il giudice, pur potendo dare al fatto una diversa ed anche più grave definizione giuridica, nel rispetto dei limiti della competenza del giudice di primo grado, risulta vincolato dal divieto della reformatio in peius (art. 597, co. 3, c.p.p.). In particolare, il giudice d'appello non potrà aumentare la pena per specie o per quantità e neppure revocare i benefici; è, invece, consentita l'applicazione delle pene accessorie obbligatorie (non di quelle discrezionali), la modifica del grado di colpa, l'aggravamento delle disposizioni di natura civilistica, il mutamento della motivazione ed una diversa valutazione delle prove. Estendendo l’incidenza del divieto, così da superare i pregressi contrasti dottrinali e giurisprudenziali, si prevede che lo stesso operi sia in relazione alla misura di sicurezza (“nuova e più grave”), sia con riferimento alla formula di proscioglimento (“meno favorevole di quella enunciata nella sentenza appellata”).
Va richiamata l’attenzione sul fatto che il riferimento alla pena applicata in primo grado non viene più assunto come valore assoluto. Il co. 4 dell'art. 597 c.p.p. prevede, infatti, che «se è accolto l'appello dell'imputato relativo a circostanze o a reati concorrenti, anche se unificati per la continuazione, la pena complessiva irrogata è corrispondentemente diminuita». Stante l’ampiezza della formulazione della previsione (“in ogni caso”), la regola dovrebbe operare al di là del divieto e, quindi, in tutti i casi di accoglimento del gravame dell’imputato.
Se il regime delle letture, finalizzato ad una valutazione critica del materiale probatorio già in atti, costituisce l'ipotesi tipica considerata dal legislatore (art. 602, co. 3, c.p.p.), ciò non significa che nel giudizio d'appello, seppur in via residuale, non sia prevista la possibilità di acquisire nuovi elementi probatori, ove ciò si renda necessario per completare l'attività svolta o per rinnovare gli atti già assunti (per i relativi profili procedurali si veda l'art. 603, commi 5 e 6, c.p.p., dove si specifica, altresì, che «il giudice provvede con ordinanza, nel contraddittorio delle parti»). Rendendo flessibili le varie opzioni alla varietà delle situazioni prospettabili, dei soggetti agenti, degli sviluppi procedimentali di prima istanza, il legislatore prospetta un panorama alquanto articolato.
A parte le ipotesi previste dall'art. 604, co. 5, c.p.p. (possibile rinnovazione degli atti viziati da nullità non sanate), dall'art. 604, co. 6, c.p.p. (possibile rinnovazione del dibattimento a seguito di riforma della sentenza di proscioglimento perché il reato è estinto o perché l'azione non poteva essere iniziata o proseguita) e dall'art. 627, co. 2, c.p.p. (rinnovazione del dibattimento nel giudizio di rinvio a seguito di annullamento della sentenza d'un giudice d'appello), la materia è regolata dall'art. 603 c.p.p. e tiene conto della nuova impostazione della disciplina delle prove nel contesto di un processo di parti.
Si stabilisce così: a) che il criterio dell'impossibilità d'una decisione allo stato degli atti operi soltanto in relazione alle prove già acquisite nel dibattimento di primo grado, oppure con riferimento alle prove nuove preesistenti, vale a dire a quelle prove che - sebbene richieste dalle parti nel giudizio precedente - non furono ammesse dal giudice di primo grado (art. 603, co. 1, c.p.p.); b) che in caso di prove nuove, sopravvenute o scoperte dopo il giudizio di primo grado, la rinnovazione sia ammissibile alle stesse condizioni previste dall'art. 495, co. 1, c.p.p. per il giudizio (art. 603, co. 2, c.p.p.); c) che, considerato l'ambito nel quale si esplicano i poteri d'intervento ex officio del giudice in materia probatoria (art. 507 c.p.p.), anche nel giudizio d'appello la possibilità della rinnovazione operi soltanto se il giudice “la ritiene assolutamente necessaria” (art. 603, co. 3, c.p.p.); va, tuttavia, sottolineato come quest’ultima previsione risenta, inevitabilmente, dell'interpretazione che la Corte costituzionale (C. cost., 26.3.1993, n. 111) e le Sezioni Unite hanno prospettato in relazione all'ambito di operatività dell'art. 507 c.p.p.; d) che, in presenza d'un imputato contumace in primo grado, la rinnovazione sia possibile quando la sua mancata comparizione sia dovuta a caso fortuito, a forza maggiore, ad un non colpevole difetto di conoscenza del decreto di citazione ovvero, qualora l'avviso sia stato consegnato al difensore ex artt. 159, 161, co. 4 e 169, c.p.p., quando non consegua ad una volontaria sottrazione alla conoscenza degli atti del procedimento (art. 603, co. 4, c.p.p.).
Più articolato, rispetto alle indicazioni deducibili dall'art. 605, co. 1, c.p.p., si presenta il novero dei provvedimenti in forma di sentenza pronunciabili a seguito del giudizio di appello.
In primo luogo, infatti, va segnalata la sentenza di inammissibilità dell'impugnazione che il giudice pronuncerà ai sensi dell'ultimo co. dell'art. 591 c.p.p.. In secondo luogo, occorre far riferimento alle decisioni di annullamento con conseguente informativa al pubblico ministero (condanna per un reato concorrente o per un fatto nuovo non contestati). Inoltre, bisogna considerare le decisioni di annullamento che implicano la trasmissione degli atti al giudice competente ovvero al pubblico ministero presso il giudice di primo grado competente, in caso di incompetenza per materia ex art. 23, co. 1, c.p.p. (art. 24, co. 1, c.p.p., secondo quanto stabilito da C. cost., 5.5.1993, n. 214); ovvero di incompetenza per territorio, se l'incompetenza è stata eccepita a norma dell'art. 21 c.p.p. e l'eccezione è stata riproposta nei motivi d'appello (art. 24, co. l, c.p.p. secondo quanto deciso da C. cost., 15.3.1996, n. 70); ovvero in caso di incompetenza per connessione (art. 24, co. 1, c.p.p.); ovvero in caso di difetto di giurisdizione (art. 20, co. 2, c.p.p.), ovvero in caso di condanna per un fatto diverso o applicazione di una circostanza aggravante non contestata, ovvero qualora emerga una delle nullità di cui all'art. 179 c.p.p., oppure una nullità di cui all'art 180 c.p.p. non sanata, tale da inficiare il provvedimento che dispone il giudizio o la sentenza di primo grado.
Al di fuori dei casi finora considerati, l'area delle decisioni pronunciabili dal giudice d'appello annovera, infine, le sentenze di merito, che possono naturalmente essere di conferma (compresa quella che impedisce di aumentare la pena per effetto del divieto della reformatio in peius) oppure di riforma (totale o parziale), con ovvi riflessi in tema di libertà personale (per le varie ipotesi prospettabili, si rinvia a quanto disposto dagli artt 275, commi 1 bis e 1 ter, e 300 c.p.p.). In questo contesto, sono comprese anche le decisioni di conferma o di riforma in caso di nullità che non sono state sanate, qualora il giudice riconosca che l'atto non fornisce elementi necessari al giudizio.
Dalla ricostruzione così effettuata emerge, dunque, che, sotto il profilo definitorio, l’appello può essere qualificato come mezzo di impugnazione ordinario, estensivo, totalmente o parzialmente devolutivo (secondo il criterio del tantum devolutum, quantum appellatum), sospensivo, con il quale si chiede al giudice di secondo grado una verifica nel merito, sulla materia già valutata nel grado precedente.
Quanto all'aspetto dogmatico, dal sistema del nuovo codice emerge con molta linearità l'opzione per una configurazione del giudizio di appello ispirato a una logica di controllo e, quindi, per un rifiuto dell'idea di un nuovo giudizio. Alla logica del controllo sono, infatti, ispirati la prevista relazione della causa (art. 602, co. 1, c.p.p.), la disciplina selettiva e circostanziata della rinnovazione dibattimentale (art. 603 c.p.p.), la limitazione dei poteri di cognizione del giudice (art. 597, co. 1, c.p.p.) nonché i vincoli posti ai poteri di decisione in presenza dell’appello del solo imputato (art. 597, co. 3, c.p.p.). In altri termini, la mediazione rappresentata dalla indiretta conoscenza degli atti della causa; la circoscritta e non automatica integrazione del materiale probatorio; gli effetti limitativi sui poteri di cognizione del giudice determinati dalla domanda di parte; l'ampliamento dell'operatività dei divieto della reformatio in peius; il parziale affacciarsi di un principio dispositivo nel caso di accoglimento dell'appello dell'imputato (art. 597, co. 4, c.p.p.) sono tutti elementi che consolidano la configurazione del giudizio d'appello come strumento di controllo, senza che l'allargamento dei poteri d'ufficio (art. 597, co. 5, c.p.p.) e di quelli relativi alla determinazione della pena (art. 604, co. 1 e 2, c.p.p.) possano intaccare l’attendibilità di questa conclusione.
L’introduzione a livello costituzionale dei principi del giusto processo (e della sua legge attuativa: l. 1.3.2001, n. 63) – con il conseguente riconoscimento della formazione della prova in contraddittorio - e della durata ragionevole dei giudizi dischiude ora nuovi scenari per l’evoluzione dell’appello nel contesto del sistema dei controlli. Improponibile nell’attuale contesto sociale, politico, giudiziario una soppressione del giudizio di seconda istanza, il ventaglio delle opzioni potrebbe coinvolgere la stesura delle motivazioni in forma abbreviata; la riduzione degli uffici del p.m. legittimati ad impugnare; la limitazione dei poteri d'ufficio del giudice. Tuttavia, ogni riforma sarà del tutto inadeguata se non sarà possibile ridurre i tempi di passaggio del processo dal giudice di primo grado a quello di seconda istanza, attraverso la riorganizzazione degli uffici, compresi quelli di cancelleria, e un più efficace sistema delle notificazioni, senza sacrificare – alla durata del processo – la garanzia del controllo nel merito e nei limiti costituzionalmente necessari – della decisione di primo grado.
artt. 593 – 605 c.p.p.
Fiorio, C., L’appello, in Le impugnazioni penali, t. I, a cura di A. Gaito, Torino, 1998, 299 ss.; Gaeta, P. - Macchia, A., L’appello, Trattato di procedura penale, a cura di G. Spangher, V, Torino, 2009, 279; Spangher, G., Appello (dir. proc. pen.), in Dig. pen., I, Torino, 1987, 192; Tranchina, G. – Di Chiara, G., Appello (dir. proc. pen.), in Enc. dir., Aggiornamento, Milano, 1999, 200 ss.