appetito
È il moto dell'animo per cui si tende a un oggetto, la " tendenza ", il " desiderio ", l'" inclinazione ", e si distingue dalla facoltà conoscitiva, per la quale un oggetto è presente all'intelletto (cfr. Pg XXII 41). In Vn XXXVIII 5-7 ricorre cinque volte ed è inteso come sinonimo di ‛ cuore ': L'una parte chiamo cuore, cioè l'appetito; l'altra chiamo anima, cioè la ragione (§ 5). Il termine ricorre ancora in Cv II III 9, IV XXI 13 XXII 4, 5, 6 (2 volte) e 10 (3 volte), dove D. svolge la dottrina sull'a., ripresa brevemente in Pg XVII 91 ss., a proposito dell'amore, e in Rime CVI 143. Del resto anche nel discorso del Convivio sull'a., i termini ‛ amore ' e ‛ amare ' sono usati da D. come sinonimi di a. e ‛ appetire '. Per spiegare che cosa sia la nobilitade, ossia la umana bontade, la bontà propria dell'uomo (ogni ente ha infatti una sua bontà) e come essa sia ‛ seme di felicitade ', messo da Dio ne l'anima ben posta (Cv IV XX 9 e Le dolci rime 119-120), D. parla prima dell'origine dell'uomo per opera delle cause naturali e dell'azione creatrice divina. Nella natura dell'uomo è il seme della virtù (Cv IV XXI 11-12) come nella virtù è il seme della felicità. Ora 'l primo e lo più nobile rampollo di quel seme che è la natura umana si è l'appetito de l'animo, lo quale in greco è chiamato ‛ hormen ' (Cv IV XXI 13 e XXII 4). La fonte citata espressamente da D. è Cicerone, e infatti nel De Finibus V VI 17 leggiamo: " appetitum animi, quem ὁρμὴν Graeci vocant " (cfr. anche III VII 23). Per tutta la dottrina sull'a. è citata, insieme al De Finibus di Cicerone, l'Etica di Aristotele, e l'associazione si capisce benissimo perché nel quinto libro de De Finibus Cicerone espone la dottrina dei peripatetici, che egli ritiene sostanzialmente identica a quella dell'antica Accademia (Fin. V III 7). Ogni ente ha insito in sé l'a. del proprio bene, ma l'uomo, a differenza degli altri animali, non si dirige al proprio bene se non sa in che cosa consista (male tragge al segno quelli che nol vede, Cv IV XXII 2). Di qui il compito del filosofo morale di determinare qual sia il sommo bene o il fine ultimo dell'uomo. Tale fine ultimo è quello dove dirittamente ogni umano appetito trova appagamento (IV VI 8, dove il termine ricorre due volte). Da ciò nasce il diritto appetito (III XV 12 [il termine ricorre due volte], viri 16, XI 11) e grazie all'esercizio delle virtù si genera l'uomo di diritto appetito e di vera conoscenza (IV XLII 15), il quale con l'intelletto conosce il vero bene (vera conoscenza) e con la volontà rettamente lo persegue (diritto appetito; cfr. l'ὀρθὴ ὂρξις di Aristotele Eth. nic. VI 2, 1139a 22-24 " Quare quia moralis virtus habitus electivus, electio autem appetitus consiliativus, oportet quidem propter hoc rationem veram esse, et appetitum rectum "; v. anche Cv III XI 13). Così pure l'animo... è diritto, cioè d'appetito, e verace, cioè di conoscenza (IV XIII 16). A quest'immagine dell'a. che diritto non si distoglie dalla retta via, va ricondotta l'espressione di Pd XVI 5, ove il Paradiso è designato come là dove appetito non si torce. Seguendo la verace oppinione d'Aristotile e de li altri Peripatetici (Cv IV XXII 4) così come è presentata da Cicerone, D. afferma che l'a. è dapprima tendenza alla propria conservazione in genere, è naturale appetito (§ 5), ed è comune all'uomo e agli altri animali: Dico adunque che dal principio se stesso ama, avvegna che indistintamente (§ 7; cfr. Cicerone: " Hanc initio institutionem confusam habet et incertam, ut tantum modo se tueatur ", Fin. V IX 24; cfr. XV 41); poi viene distinguendo quelle cose che a lui sono più amabili e meno, e più odibili [e meno], e seguita e fugge e più e meno, secondo la conoscenza distingue... in sé, che ama principalmente (§ 7; e cfr. IV XXVI 5 dove il termine compare due volte; " Cum autem... perspicere coepit, tum sensim incipit progredi seseque agnoscere et intelligere ", Fin. V IX 24). E, conoscendo che l'anima è più nobile del corpo, l'uomo ama la propria anima più del proprio corpo e delle cose esterne (Cv IV XXII 8; Cic. Fin. V XII 34): così nasce l'a. razionale, più nobile che 'l sensuale (§ 10), e l'a. razionale si identifica con la volontà. Dell'a. irascibile e concupisci bile, distinto dal razionale, D. parla in Cv IV XXVI 6 (dove il termine ricorre due volte) come quello che conviene essere cavalcato da la ragione, la quale lo guida con freno [la temperanza] e con isproni [la fortezza], in modo che l'a. caccia quello che e quanto si conviene, e fugge quello che e quanto si conviene (§ 5; cfr. Arist. Eth. nic. III 15, 1119b 16-17 " et concupiscit temperatus quae oportet et quando "). All'a. sensuale si riferisce Pg XXVI 84. L'a. razionale viene dalla natura umana, ma, a differenza di quello sensitivo, ha bisogno di essere coltivato. Sembra che possa essere attribuito all'a. ciò che D. dice del seme divino (Cv IV XXIII 3), poiché seme è la natura stessa data da Dio (XXI 2), seme di felicità è la nobilitade umana (XX 9), e fra l'una e l'altra sta l'a., del quale si dice che deve essere coltivato e addirittura innestato (l'‛ insetare ' di XXII 12), verbo che conviene più al termine rampollo col quale l'a. era stato prima designato. Tale seme germoglia in tutte le potenze dell'anima: vegetativa, sensitiva e razionale e, come a. razionale, dibrancasi per le vertuti di quelle tutte (XIII 3) finché ritorna al seminatore, cioè a Dio. Nella piena soddisfazione dell'a. razionale consiste nostra felicitade e nostra beatitudine (XXII 9).
Όρμή è termine che appartiene al vocabolario accademico, ripreso poi dagli stoici, mentre nel De Anima e nell'Ethica Aristotele usa di preferenza il termine ὂρξις (Gauthier - Jolif, Commentaire à Aristote, L'Ethique à Nicomaque, Lovanio 1958-59, II 95). Nel De Anima (III rx, 432b 3 - 433a 30), dopo aver distinto la facoltà appetitiva (ὀρεχτιχόν) dalle altre, afferma che l'a. può essere razionale e irrazionale: l'a. razionale è la βούλησις (voluntas), quello irrazionale è l'ἐπιτυμία e il θυμός (concupiscibilis et irascibilis). Nell'Etnica non c'è una trattazione dedicata ex professo all'a.; se ne parla specialmente nel primo, nel terzo e nel sesto libro, e nel commentare questi passi ne parlano per solito gli scolastici. " Nullus autem appetitus movetur nisi propter aliquod bonum. Actus igitur omnis per suam ipsam rationem quoddam bonum est ", dice Alberto Magno nella parafrasi dell'Ethica (I III 4; ed. Borgnet VII 35). A ogni grado nell'essere corrisponde un certo grado di a. del bene: " sicut sunt gradus entium, ita sunt gradus bonorum quae appetuntur. Quaedam autem entia sunt juxta primum, quod est unum simpliciter et verum bonum, in multis convenientia cum ipso bono, et quaedam sunt distantia ab illo et quaedam remotissima ab illo. Et ideo dicit Aristoteles in ir de Coelo et Mundo, quod in primo gradu entia propinquissima primo capacia sunt boni primi... et ideo tale bonum appetunt, quod non quoddam est, sed simpliciter. Distantiora autem remotissima illius primae bonitatis non sunt perceptibilia, sed alicuius bonitatis proportionatae sibi " (ibid. 6 38).
" Duo sunt principia humanorum actuum - dice s. Tommaso commentando il primo capitolo del primo libro -, scilicet intellectus seu ratio, et appetitus, quae sunt principia moventia, ut dicitur in tertio de Anima [nel luogo citato sopra]. In intellectu autem vel ratione consideratur speculativum et practicum. In appetitu etiam rationali consideratur electio et executio " (Comm. Eth. I I, n. 8).
In Pd I 103-135, pur senza nominare esplicitamente l'a., D. (che parla però di istinto al v. 114) presenta la sua visione del finalismo di tutta la natura in un quadro che ricorda da vicino ciò che s. Tommaso dice quando parla dell'a. in generale nella Sum. theol. I 80 1(" considerandum est quod quamlibet formam sequitur aliqua inclinatio, sicut ignis ex sua forma inclinatur in superiorem locum "): Le cose tutte quante / hanno ordine tra loro, e questo è forma / che l'universo a Dio fa simigliante /... Ne l'ordine ch'io dico sono accline tutte nature... / Questi [l'istinto] ne porta il foco inver' la luna, Pd I 103-105, 109-110, 115. " Sicut igitur, continua Tommaso, formae altiori modo existunt in habentibus cognitionem supra modum formarum naturalium, ita oportet quod in eis sit inclinatio supra modum inclinationis naturalis, quae dicitur appetitus naturalis. Et haec superior inclinatio pertinet ad vim animae appetitivam, per quam animal appetere potest ea quae apprehendit "; e cfr. né pur le creature che son fore / d'intelligenza quest'arco saetta, / ma quelle c'hanno intelletto e amore (Pd I 118-120). L'a. che segue una conoscenza può essere a. sensitivus o animalis e a. rationalis: quest'ultimo è la volontà, determinata al bene in generale, ma libera di fronte ai beni particolari e tale che può anche fallire nella sua scelta (così da questo corso si diparte / talor la creatura, c'ha podere / di piegar, così pinta, in altra parte, vv. 130-132). Cfr. per questo la voce ARBITRIO; V. anche VE II II 8, Mn I XII 3, 4 e 5, Ep XIII 71.