appetizione
Tendenza della volontà o desiderio istintivo che spinge a ricercare il raggiungimento di un fine, l’appagamento di un’aspirazione, o anche la soddisfazione di un bisogno materiale. Nella psicologia aristotelico-scolastica l’a. è l’atto dell’appetito e, in seguito, i due termini furono spesso usati come sinonimi. Aristotele indica con il termine ὂρεξις il desiderio o la brama (termine tradotto in latino con appetitus), che, in quanto principio che spinge all’azione, può essere posto sotto il controllo della parte razionale oppure dei sensi. Su questa base Tommaso e gli scolastici distinsero tra appetitus sensitivus, rivolto a un bene indicato dai sensi, e appetitus intellectivus (o rationalis), rivolto a un bene conosciuto tramite l’intelletto; il primo è propriamente da intendersi come desiderio, il secondo come volontà (Summa theologiae, I, qq. 80-82). Hobbes nel De homine (1658; XI, 1) scrive che a. e repulsione stanno al piacere e al dolore come il presente sta al futuro, nel senso che sono piacere e dolore proiettati nel futuro, cioè previsti o attesi. Spinoza mette l’a. in relazione con il conatus («sforzo») della mente di conservare il proprio essere per una durata di tempo infinita. Nella filosofia di Leibniz, a. è l’azione del principio interno della monade, cioè la spinta interiore che determina il passaggio da una percezione a un’altra per raggiungere percezioni nuove (Monadologia, 1714; 15). Per Kant l’a. costituisce la «facoltà di desiderare inferiore» che ha come punto di riferimento un oggetto sensibile, mentre la «facoltà di desiderare superiore» è determinata dalla semplice rappresentazione del dovere morale (Critica della ragion pratica, 1788; I, I, 3).