Applicazioni ed ecosistemi (APP)
Una piattaforma di applicazioni (e altri beni digitali: libri, musica, film, giochi) può essere vista come una grande vetrina espositiva, dove gli utenti iscritti possono scaricare o acquistare i beni, per servirsene sul proprio dispositivo mobile (prevalentemente di terza generazione, 3G). Questa visione del mercato costituisce un incrocio tra l’approccio del grande negozio di shopping on-line e una dimensione comunitaria, tipica dei social network, in cui utenti, produttori e sviluppatori di beni digitali si ‘incontrano’ nella stessa rete comune, che viene detta ecosistema. Dal punto di vista del consumatore il fattore chiave del successo delle applicazioni, e indirettamente degli ecosistemi, è costituito dalla possibilità, a volte più illusoria che reale, di possedere uno strumentario di ‘pezzi digitali’, così da arricchire e adattare alle proprie esigenze – ovvero ampliare la fornitura di base con nuovi servizi – il proprio dispositivo mobile. Per il proprietario dell’ecosistema (per es. iTunes o GooglePlay) significa invece avere riunite in un unico ambiente le diverse risorse in gioco, per poterle correlare in una più efficiente organizzazione del business: per es., un numero più grande di applicazioni si traduce nella possibilità di incrementare le comunità sia di sviluppatori sia di utenti, quindi di vendere più dispositivi, di fornire più servizi e così via, per alimentare un meccanismo di crescita virale e interdipendente delle correlazioni interne.
Dal punto di vista socioantropologico, l’offerta di strumenti componibili apparteneva già all’elettronica di consumo degli anni Sessanta, in particolare nell’alta fedeltà e nei ricevitori radio-tv, dove i protocomputer domestici erano venduti come kit di assemblaggio di componenti funzionali. Questa modalità non aveva retto all’avvento del personal computer di Apple e IBM, che privilegiavano l’offerta completa ‘chiavi in mano’ dei servizi necessari all’utenza domestica, seppur con la possibilità estensiva a quelli specialistici per l’utenza professionale. Grazie alle comunicazioni multimediali 3G dei dispositivi mobili (v.), e soprattutto attraverso l’enorme diffusione di essi, il concetto degli oggetti funzionali componibili, relegato a fenomeno di nicchia nel passato, è diventato massivo negli ultimi anni, secondo alcuni fattori nodali: un’infrastruttura di comunicazione molto più evoluta e standardizzata – in particolare quella a celle e wireless –, la diffusione di dispositivi mobili molto più potenti, veloci e variegati, fra cui quelli ‘indossabili’ (braccialetti e orologi dotati di comunicazione wireless), hanno rivitalizzato la precedente idea degli oggetti componibili, software e hardware, che potrebbero aprire una nuova fase nella storia delle comunicazioni e dell’informatica tout court.
Le applicazioni (app, secondo la dizione ormai più diffusa), ossia piccoli programmi digitali con una funzione ben definita, costituiscono una nuova fase evolutiva che incrocia la rete Internet (ma si differenzia dal web) insieme ai dispositivi mobili. A differenza di un sito web e di una web-application (che è un semplice indirizzamento a un sito web), l’app è vincolata al sistema operativo del dispositivo (non è possibile scaricarla e utilizzarla se non compatibile) ed è residente sul proprio smartphone o tablet. Alla luce di queste premesse, l’app viene vista come una modalità per estendere le funzionalità del dispositivo in cui è installata: ricevere informazioni, interfacciarsi con connettori, pilotare sensori e videocamere (per es. per misurare la distanza e l’altezza di elementi visibili nel panorama, per leggere un codice a barre, per funzionare da bussola, da altimetro, da barometro e altro). Da un punto di vista tecnologico questa caratteristica ha segnato una svolta molto importante, dato che su un dispositivo mobile anteriore al 2008 e perfino fino a pochissimi anni fa su un personal computer (esclusi utilizzi particolari), non erano previsti particolari arricchimenti funzionali, né agevoli modalità standard per aggiungere valore allo strumento con nuove appendici. Dal 2013, con il sistema operativo Windows 8 di Microsoft, invece, il concetto di app, native e scaricabili, ha iniziato a invadere anche la fascia personal computer, diffondendo l’idea di presentare l’interfaccia di uno strumento elettronico come una sorta di collage che l’utente può arricchire a piacimento con nuove applicazioni. Infatti è cambiata anche la veste grafica di molte interfacce utente, che vengono ora proposte come una sorta di ‘domino’ con grandi cellette colorate e componibili.
Storicamente le app possono essere viste come un’evoluzione dei widget (ossia una semplice applicazione software comoda all’uso, realizzata in modo tale da essere installabile su una o più piattaforme: microgiochi, suonerie, calendari, calcolatrici e altro) presenti nei telefoni mobili nei primi anni del nuovo secolo. Sebbene in certi casi si trattasse di oggetti realizzati da sviluppatori esterni rispetto al produttore del telefono, mancava ancora una modalità standard di installazione e una piattaforma comune per la commercializzazione, e molte difficoltà tecniche impedivano agevoli soluzioni di consumo. L’idea della piattaforma comune di largo consumo giunse con Facebook nel 2007. Il social network ha anticipato di pochi anni la concezione delle app, come gioco o servizio facilmente installabile, diviso in categorie, corredato di un ambiente di sviluppo per i programmatori e fornito quasi sempre in modo gratuito. Il fenomeno ha avuto subito molto successo, diffondendo un modello di economia free o freemium, basata fondamentalmente su incentivi e su guadagni pubblicitari. Il modello freemium permette di separare una prima fase, in cui il prodotto è offerto gratuitamente, da una seconda a pagamento. L’abilità del produttore è quella di sfruttare il lancio iniziale, per indurre dipendenza nel fruitore. Questa visione è stata ereditata e ampliata dalle piattaforme di beni digitali mobili nel 2009.
Sono rari i casi in cui l’app è veramente un’applicazione innovativa: un motivo, questo, che carica il fenomeno di un notevole peso illusorio e precario, rendendo difficile un’analisi predittiva del mercato. Spesso si tratta delle versioni mobili di grandi servizi, come Facebook o Google mail, oppure di giochi ‘usa e getta’, che rappresentano l’ambito di maggiore interesse economico e competizione tra gli sviluppatori. Tra i casi rari di successo di app non appartenenti a queste tipologie si citano WhatsApp, che sfrutta un sistema di messaggistica molto diffuso, e permette un’alternativa agli SMS gestiti tramite operatore, oltre al recente scambio di foto e video condivisi; Shazam, che permette il riconoscimento di un brano musicale a partire dal semplice ascolto da parte del dispositivo; Instagram, che nasce per la condivisione di foto e video e deve il suo successo alla fondazione di una comunità proprietaria, che incrocia la tecnologia degli smartphone con l’engagement collettivo tipico dei social network. Esistono inoltre molte app dedicate al fitness, allo shopping, alle mappe e all’orientamento geoposizionale, al riconoscimento di libri, etichette di prodotti vari e insegne, alla lettura delle news, alla consultazione di orari di servizi e ad altre funzioni utili in mobilità. Il denominatore comune delle app è tuttavia che sono pochissime quelle che vengono usate da milioni di utenti e, in maniera complementare, milioni quelle non utilizzate affatto.
Il termine deve il suo successo a un libro premonitore, Software ecosystem, scritto nel 2003 da David G. Messerschmitt e Clemens Szyperski. Il testo prefigurava nuove funzionalità di architetture informatiche, economiche e legali, prendendo spunto da iTunes della Apple, piattaforma per la distribuzione di audio digitali che coinvolgeva soggetti eterogenei: i dispositivi della stessa Apple (in particolare il player iPod), attori esterni come i distributori musicali e i musicisti, e infine gli acquirenti. L’idea alla base era quella di racchiudere in un unico ambiente strumenti (dispositivi mobili, computer, player audio/video), contenuti fruibili tramite questi strumenti, produttori e fornitori di questi contenuti. La piattaforma delle app non ha fatto altro che estendere e standardizzare sistemi di questo tipo (il termine ecosistema è usato spesso in una condizione più generalista, per indicare una galassia comune di risorse riunite in uno stesso marchio, per es. ecosistema Apple, mentre l’accezione corretta sarebbe nello specifico ecosistema iTunes). In precedenza, le piattaforme informatiche erano verticalmente dedicate a funzioni predefinite e indipendenti tra loro, fondamentalmente perché non esisteva un effettivo statuto del bene digitale: i programmi software non venivano considerati come beni, ma come servizi da installare in un ambiente più o meno complesso, mentre i contenuti digitali non godevano di esistenza autonoma se svincolati dal supporto fisico (per es. dai CD e dai DVD). Un ecosistema digitale coinvolge direttamente il corrispettivo ecosistema commerciale, e l’esempio delle app ne chiarisce l’interazione. Queste ultime, come detto, sono una sorta di bene digitale facilmente installabile e quindi integrabile nel proprio smartphone, a pagamento oppure gratuito; la loro installazione è regolata da un accordo commerciale tra l’organizzatore della piattaforma e gli autori, o comunque chi ne detiene i diritti. Il bene è realizzato, inserito nell’ambiente di distribuzione e venduto con una modalità molto più automatizzata e agevole rispetto a un generico bene fisico venduto nelle piattaforme di e-commerce.
Per chiarire meglio il concetto di ecosistema digitale è utile operare un confronto con gli ecosistemi sociali, anch’essi molto cresciuti nell’ultimo decennio grazie ai social network (v.). Un sistema sociale può essere visto come un grafo che raccoglie utenti, connessioni tra utenti e scambi di informazioni attraverso queste connessioni. Sebbene questi ultimi siano percepiti come mondi di natura differente rispetto agli ecosistemi digitali, quelli sociali sfruttano il contributo di molti utenti per arricchire un valore (l’informazione) che sarebbe rimasto più rarefatto, nel caso di utente isolato. Negli ecosistemi digitali, in teoria, si possono incrementare indefinitamente i contenuti e le funzioni del proprio smartphone, grazie alla comunità di terze parti che li sviluppano e li distribuiscono nell’ecosistema. Ed è proprio questo aspetto, ossia la possibilità di sfruttare il concetto di comunità nelle sue diverse forme, che promuove il successo o l’insuccesso dei beni digitali. Più una piattaforma è in grado di creare delle comunità – sia di sviluppatori sia di utenti –, e di metterle in contatto, più essa crea aggregazioni e quindi potenziali vendite. Viene in questo modo messo in evidenza il carattere social degli ecosistemi: la crescita di un dibattito rispetto a un prodotto emerge ormai anche nelle piattaforme web di e-commerce, grazie a un sistema di recensioni e di forum; tuttavia è soltanto negli ecosistemi che i fattori di successo di un prodotto sono spiccatamente legati al verdetto degli utenti, e alla possibilità di quest’ultimi di scoprirlo in breve tempo. Per gli ecosistemi digitali, in particolare le grandi piattaforme di distribuzione e vendita di app (come iTunes e GooglePlay), invece, la relazione tra fornitore e acquirente del bene ottiene benefici immediati grazie alle comunità che incrociano domanda e offerta. Innanzitutto più del 99% delle app è gratis, quindi non genera benefici economici diretti dalla vendita, ma indirettamente attraverso sistemi di promozione e visibilità, gestiti da circuiti pubblicitari complessi e articolati basati fondamentalmente su formule freemium e sulle aggregazioni social. In secondo luogo si tratta di beni ludici o accessori di vita piuttosto effimera, quindi non particolarmente differenziati, e di consumo immediato, per cui la comunicazione opportuna segna in maniera radicale la condizione di successo. Le piattaforme hanno un contributo essenziale, in quanto non solo organizzano il mercato, ma lo supportano anche tecnicamente, fornendo anche gli ambienti di sviluppo opportuni per la realizzazione di app da parte dei produttori.
Il mercato app è un caso particolare di market long-tailclosed to great-hits, ossia dotato di una coda lunga di milioni di articoli, ma dove meno dell’1% realizza quasi tutto il volume economico del mercato. Queste cifre costituiscono la punta di un fenomeno che, a causa di un ciclo di vita sempre più breve della merce esposta, e della crescita e competizione continua tra brands, si va imponendo in ogni tipo di marketplace. Per fare un confronto, il fenomeno è più penalizzante di quello relativo ad Amazon book’s, perché le nicchie di coda lunga di libri e film hanno comunque un loro pubblico segmentato e particolare, mentre le app sono spesso prodotti di valore scadente, e molte si somigliano tra loro. Questa distribuzione prevede conseguentemente un’importanza sempre maggiore delle classifiche nei siti (virtuali) di maggior successo, e degli opinion leaders del mercato. Nonostante il movimento d’opinione sollevato da Chris Anderson sui mercati a coda lunga, tipici del web, i modelli statistici applicati ai grandi siti di e-commerce confermano che il mercato ricco rimane quello tradizionale del numero limitato di beni di grande visibilità espositiva e conseguente successo di pubblico (great hits economy) mentre quello della coda lunga (long tail), legato alla promozione di una fascia enorme di prodotti, in modo da accontentare molte nicchie di pubblico, è fallimentare nel rapporto costi/profitti, a livello globale.
D.G. Messerschmitt, C. Szyperski, Software ecosystem: understanding an indispensable technology and industry, Cambridge (MA) 2003; C. Anderson, The long tail: why the future of business is selling less of more, New York 2008.