Abstract
L’analisi si focalizza sugli elementi descrittivi e normativi della fattispecie di cui all’art. 646 c.p. e segue un percorso metodologico di tipo sistematico, volto a evidenziare specificità e interrelazioni dello schema tipico prescelto dal legislatore rispetto alla categoria dei delitti contro il patrimonio.
La condotta di appropriazione è presente nel sistema penale italiano in più fattispecie normative, anche extracodicistiche e non necessariamente accomunate dal nomen iuris prescelto. Volendo procedere a una rapida ricognizione, è possibile richiamare, accanto alla figura di cui all’art. 646 c.p., su cui è incentrata la presente disamina, quella “minore” prevista dall’art. 647 c.p. («Appropriazione di cose smarrite, del tesoro e di cose avute per errore o caso fortuito»), le ipotesi contemplate agli artt. 235 e 236 del c.p.mil.p. e agli artt. 114 e 1147 del c.nav. e, infine, il «Peculato» di cui all’art. 314 c.p. e l’«Infedeltà patrimoniale» di cui all’art. 2634 c.c. (per un quadro generale, Cipolla, P., I delitti di appropriazione indebita, Padova, 2005).
La tesi risalente (Petroccelli, B., L’appropriazione indebita, Napoli, 1933, 83 ss. e 133 ss.) secondo cui l’oggetto di tutela andrebbe individuato nel rapporto di fiducia che intercorre tra il proprietario e il soggetto su cui grava l’obbligo di restituire la cosa, se trovava un aggancio nella previsione vigente sotto l’imperio del Codice Zanardelli (art. 417), dove si richiedeva un atto di “affidamento o consegna” della cosa per un qualsiasi titolo che comportasse “l’obbligo di restituirla o di farne un uso determinato”, non rispecchia l’essenza dell’attuale disciplina, nella quale intenzionalmente non si contempla l’estremo dell’affidamento, proprio ad evitare che la figura debba inquadrarsi nella prospettiva della violazione della fiducia, anziché della proprietà (Relazione del Guardasigilli al progetto definitivo, Lav. Prep., vol. V, II, 470). Del resto, l’esplicito riferimento del co. 2 dell’art. 646 c.p., in termini di circostanza aggravante, all’appropriazione di cose possedute a titolo di deposito necessario, nonché quello operato dall’art. 647 c.p. al rinvenimento di cose smarrite o di un tesoro, conferendo rilevanza a una tipologia di rapporti che non presuppone “a monte” una scelta, conferma che il rapporto di fiducia non rappresenta un profilo indefettibile del reato (Antolisei, F., Manuale di diritto penale. Parte speciale, vol. I, XV ed., Milano, 2008, 344).
La tesi dominante, che trova conforto nella Relazione del Guardasigilli al progetto definitivo (Relazione, cit., 470), individua l’oggettività giuridica tutelata nel diritto di proprietà. Pertanto, il reato si sostanzierebbe nell’abuso di colui che è in possesso della cosa altrui, il quale ne dispone uti dominus (Antolisei, F., Manuale di diritto penale, cit., 345). Portando a sviluppo tale lettura, si è giunti a estendere il raggio d’azione della fattispecie fino a ricomprendervi qualsiasi diritto, reale o personale sulla cosa, in ragione del quale il possesso spetti legittimamente al soggetto, diverso dal proprietario, che ha consegnato la cosa a colui che successivamente se ne è appropriato in modo illegittimo (Manzini, V., Trattato di diritto penale italiano, IX, V ed., 1987, 793). In tal senso, la giurisprudenza, a proposito del soggetto passivo del delitto, ha concepito l’elemento normativo dell’ “altruità” come altrui titolarità di ogni tipo di diritto, così facendo confluire nello spettro tuzioristico della norma chiunque, diverso dal proprietario della cosa, eserciti su di essa un diritto reale o anche personale (si pensi al conduttore, al comodatario ecc.) (Cass. pen., 23.1.1971, n. 229). In questa prospettiva, si segnala che la Suprema Corte, negando che il soggetto passivo del reato debba necessariamente identificarsi col soggetto proprietario, ha individuato il bene protetto dalla norma in quel rapporto fiduciario la cui violazione perfezionerebbe l’appropriazione indebita (Cass. pen., 1.7.2009, n. 26805). A ben vedere, calibrare il disvalore della fattispecie esclusivamente sulla lesione del diritto di proprietà, aderendo in tal modo a una concezione restrittiva, di stampo civilistico, dell’ “altruità” della cosa (come cosa che è in proprietà di altri), significherebbe negare l’integrazione del reato in talune ipotesi che paiono espressive del disvalore tipico dell’appropriazione. È il caso dell’appropriazione di “cose fungibili”, quali il denaro, bene il cui possesso implica (almeno di regola) la proprietà: a parte, e in generale, l’ipotesi classica del soggetto che dispone liberamente di somme di denaro ricevute, che - stando ai principi civilistici - mai potrebbe perfezionare il reato (cfr., Cass. pen., 3.3.1989, n. 11628, in Riv. pen., 1990, 563, secondo la quale il riferimento civilistico al concetto di “altruità” non può trovare applicazione nell’ambito dell’appropriazione indebita; in senso analogo, Cass. pen., 20.3.2003, n.12965, in Cass. pen., 2004, 866), si pensi a quella (più problematica) in cui il datore di lavoro non versi il denaro – di cui pure è proprietario – a copertura degli importi relativi alle ritenute fiscali o alle quote retributive e previdenziali a carico dei lavoratori (conclusione contraria si ricava, tuttavia, da Cass. pen., S.U., 25.5.2011 – dep. 20.10.2011, n. 37954, e ancor prima da Cass. pen., S.U., 27.10.2004 – dep. 19.1.2005, n. 1327, in Cass. pen., 2005, 3345, entrambe escludenti il reato, con l’effetto di impedire la riconducibilità alla nozione di “altruità” di qualsivoglia diritto di credito). Detto altrimenti, non dovrebbero frapporsi ostacoli alla configurazione penalistica dell’appropriazione del proprietario ovvero all’ammissibilità penalistica dell’idea che la cosa possa essere di proprietà del soggetto e al contempo altrui (cfr. Carmona, A., Tutela penale del patrimonio individuale e collettivo, Bologna, 1996, 160 ss.) L’“altruità”, dunque, nel “contesto” dell’appropriazione indebita, va intesa come «vincolo attuale di destinazione a uno scopo cui altri ha interesse» (Fiandaca, G.-Musco, E., Diritto penale. Parte speciale, vol. II, V ed., Bologna, 2007, 112).
Nel concludere sul tema dell’oggettività giuridica del reato, è opportuno allora depurare la relativa definizione da implicazioni derivanti da figure concepite secondo la loro origine civilistica ovvero da visioni troppo insistenti sulla violazione di un pactum fiduciae non sempre rinvenibile nella dinamica dell’appropriazione penalmente rilevante; e al contempo valorizzare l’elemento rappresentato dalla violazione di quel vincolo di destinazione che riempie di contenuto il concetto penalistico di altruità nel campo in esame.
Poste tali premesse, non resta allora che far corrispondere il bene tutelato con l’interesse, di cui è titolare la vittima, a che venga rispettato l’originario vincolo di destinazione della cosa (così, sostanzialmente, Pedrazzi, C., Appropriazione indebita, in Enc. dir., Milano, 1958, 848; Sgubbi, F., Patrimonio (Delitti contro il), in Enc. dir., Milano, 1982, 331; Fiandaca, G.-Musco, E., Diritto penale, cit., 103).
La fattispecie incriminatrice presuppone che l’agente abbia il possesso a qualsiasi titolo della cosa di cui si appropria.
Terreno di scontro tra opposte visioni teoriche ( “civilistica” e “autonomistica”), percorse da più o meno marcate venature ideologiche (significative del ruolo – meramente sanzionatorio o meno – da doversi ascrivere al diritto penale), la definizione del presupposto possessorio segna il discrimen tra la fattispecie penale in esame e quella di furto (art. 624 c.p.) e pone la classica e delicata questione relativa al contenuto da attribuire agli elementi normativi della fattispecie (sul punto, da ultimo, Carmona, A., Appropriazione indebita, in Dizionario di diritto pubblico, diretto da S. Cassese, Milano, 2006, 392 ss.).
È noto come la lettura civilistica (ex art. 1140 c.c.) del possesso nel diritto penale – che richiede ai fini dell’integrazione della figura il concorso dell’elemento materiale (cd. corpus), ossia il potere di fatto sulla cosa, e di quello spirituale (cd. animus), vale a dire la consapevolezza di utilizzarla come titolare del diritto di proprietà o altro diritto reale – non si adatti alla struttura del fatto tipico di cui all’art. 646 c.p. In particolare, adottando la predetta lettura dovremmo concludere per l’esclusione dal delitto in esame e l’integrazione di quello di furto nei casi in cui il mandatario usi la somma che gli è stata affidata in maniera difforme dal mandato ricevuto o in cui il depositario-“garagista” si appropri dell’altrui auto posta sotto la sua custodia.
Tale conclusione, oltre a non riflettere il comune modo di pensare (giuridico), che nelle ipotesi esemplificate riconosce un’appropriazione indebita (Antolisei, F., Manuale di diritto penale, cit., 298), si scontra col dato positivo: il co. 2 dell’art. 646 c.p. prevede l’appropriazione di «cose possedute a titolo di deposito necessario» quale circostanza aggravante, in tal modo denotando come lo svolgimento “patologico” della fase esecutiva del deposito in quanto tale (ossia scevro della nota di “necessarietà” che ne costituisce il quid aggravatore) debba rientrare nella figura base contemplata nel co. 1 (Fiandaca, G.-Musco, E., Diritto penale, cit., 34).
La qualità di possessore che il sistema penale attribuisce al depositario rende palese l’inadeguatezza della costruzione teorica fondata sull’art. 1140 c.c. Si spiega dunque il riscontro di approcci al problema di tipo “autonomistico”, ossia tesi a concepire una nozione di possesso a fini eslcusivamente penalistici. Senza indugiare sui profili di diversificazione delle varie posizioni in tale alveo sorte (cfr. Bassi, A., Art. 646 c.p., in Marinucci, G.-Dolcini, E., Codice penale commentato, Milano, 2011, 6509), si può richiamare, con l’intento di coglierne il nucleo comune, la definizione classica – invalsa nella costante giurisprudenza (cfr., tra le più recenti, Cass. pen., 9.7.2008, n. 34851, in Cass. pen., 2009, 4724; Cass. pen., 18.10.2007, n. 39909, in Cass. pen., 2008, 3714) – secondo cui il possesso nel diritto penale consisterebbe nel potere di disporre della cosa in modo autonomo, al di fuori della sfera di vigilanza di colui che abbia sulla cosa un potere giuridico maggiore (accompagnato dal corrispondente animus rem sibi habendi); e, al contempo, rammentare la conseguente definizione della (correlata) figura della detenzione, intesa dunque come il potere di fatto sulla cosa all’interno della sfera di vigilanza del possessore (per tutti, cfr. Antolisei, F., Manuale di diritto penale, cit., 299). Le perplessità generate da tale approccio si evidenziano riferendosi all’ipotesi dell’ospite commensale che riponga in tasca la posata di valore e la porti via con sé alla fine del pranzo: costui non sarebbe possessore, perché sotto l’altrui qualificata vigilanza, e dunque non potrebbe rispondere di appropriazione indebita; ma, invero, neppure di furto, poiché detentore (quando, invece, la detenzione dovrebbe rappresentare un elemento negativo del furto), a meno che non si voglia forzare il dato letterale dell’art. 624 c.p., e ritenere necessaria per l’integrazione del furto – conformemente al pensiero di parte della dottrina e della giurisprudenza, teso a razionalizzare il sistema – la mancanza del (solo) possesso e non (anche) della detenzione (Mantovani, F., Diritto penale. Parte speciale, vol. II, III ed., Padova, 2009, 46).
A questo punto si coglie l’opportunità di aderire a un ulteriore percorso metodologico. Piuttosto che derivare la ricercata definizione del possesso penalistico da letture vincolanti a priori, perché (negli intenti) valide una volta per tutte (per il settore giuridico di riferimento), occorre procedere secondo il canone offerto dal criterio «esegetico-sperimentale» (Nuvolone, P., Il possesso nel diritto penale, Milano, 1942, 42 ss.), valorizzando in tal modo le peculiari esigenze poste dalle singole fattispecie in funzione dello specifico scopo dell’incriminazione: «… sarà l’interpretazione delle singole fattispecie, secondo lo scopo, a determinare le nozioni di possesso e di detenzione», senza che ciò pregiudichi l’eventualità di addivenire – per l’appunto, ex post – a una nozione valida per l’intero settore o per classi di fattispecie ovvero a una nozione che – valida o meno per il sistema o per una sua parte – coincida con una di quelle prima commentate (Carmona, A., Appropriazione indebita, cit., 393).
Approfondendo l’indagine in tale prospettiva, si deve tenere presente un dato emerso in merito alla fattispecie di furto, ma utile ai fini del nostro tema, atteso la consueta e già segnalata interdipendenza delle figure incriminatrici di cui agli artt. 624 e 646 c.p. La coppia concettuale sottrazione-detenzione, che si presenta quale elemento costitutivo della fattispecie, si rivela, nell’interpretazione (dottrinale e giurisprudenziale) che si dà della norma, privata di una delle sue componenti. In sintesi, sulla scorta delle letture penalistiche col tempo formatasi intorno alla figura della detenzione e accomunate dall’effetto di dilatarne i profili essenziali del corpus e soprattutto dell’animus detinendi in modo da giustificare la punibilità di una nutrita serie di ipotesi concrete che altrimenti vi sarebbero sfuggite, si arriva a sostenere che la detenzione non costituirebbe presupposto indispensabile della fattispecie, e nella sua portata positiva (nel senso della necessità che la condotta sottrattiva intervenga su un rapporto di detenzione materiale) e in quella negativa (nel senso della necessità, come sopra indicato, che l’autore del fatto non sia detentore) (cfr., per una ricognizione di tali letture, Carmona, A., Appropriazione indebita, cit., 393 ss.).
Al contempo, riguardo alle fattispecie appropriative in generale, si è evidenziata la non coessenzialità del requisito-presupposto del possesso, che nel sistema, laddove presente, renderebbe solo più grave l’indipendente figura dell’appropriazione penalmente rilevante. Si pensi a tal proposito innanzitutto alle appropriazioni indebite minori ex art. 647 n. 1 e 2, le quali non contemplano il possesso quale presupposto della condotta appropriativa («chiunque, avendo trovato denaro o altre cose da altri smarrite, se li appropria, senza osservare le prescrizioni della legge civile sull’acquisto di proprietà di cose trovate»; «chiunque, avendo trovato un tesoro, si appropria, in tutto o in parte, la quota dovuta al proprietario del fondo»), nonché – e negli stessi termini – agli artt. 236, n.1 c.p.mil.p., 1146-1147 c.nav. (Mantovani, F., Furto (diritto penale comune), in Nss. D.I., VI, Torino, 1961, 700).
Il ridimensionamento del ruolo delle figure della detenzione (per il furto) e del possesso (per le condotte appropritaive), precipitato delle riflessioni di cui poc’anzi si è dato conto, condiziona significativamente le nostre conclusioni.
Se “detenzione” e “possesso” non sono elementi indispensabili delle fattispecie furtive e appropriative, allora l’individuazione del differente ambito operativo non deve correre lungo il crinale segnato dalla nozione di possesso (in rapporto a quella detenzione), non potendo questa esplicare un’essenziale e assoluta funzione discretiva tra gruppi di fattispecie. L’unica figura a cui ancorare una concreta possibilità distintiva resta dunque quella della sottrazione (Mantovani, F., Furto, cit., 700): e così, l’art. 646 c.p. non potrà dirsi integrato quando l’appropriazione derivi da sottrazione e, allo stesso modo, non potrà dirsi integrato l’art. 624 c.p. quando l’impossessamento – che, punto conclusivo della condotta, si sostanzia nella possibilità di comportarsi uti dominus e quindi nell’appropriazione della cosa – non segua a una sottrazione.
Atteso che la condotta sottrattiva, per tradizione giurisprudenziale, può manifestarsi sia come un “togliere a” che come un “togliere da”, deve descriversi il termine relazionale della medesima come un rapporto con la cosa “materiale e attuale” (ossia la detenzione in senso stretto) o “psichico e potenziale” (quando la cosa stia in un determinato luogo al di fuori della sfera di controllo del soggetto, che tuttavia ne abbia consapevolezza e volontà di ristabilire la natura materiale della relazione); ulteriormente e per via di sintesi definibile, attingendo all’elaborazione dottrinale, come «disponibilità effettiva» (così, Carmona, A., Appropriazione indebita, cit., 396). Pertanto, la “sottrazione” è la condotta eliminatrice della suddetta disponibilità.
Se si segue tale linea di pensiero, deve ammettersi, come premessa alle considerazioni conclusive, che il perfezionamento della condotta appropriativa in generale richiede che la cosa non sia nell’effettiva disponibilità di altri; e che all’interno del “campo” concettuale così delimitato potrà rinvenirsi il presupposto possessorio, la cui sussistenza – come anticipato – rileva ai fini della tipizzazione della gravità delle varie ipotesi appropriative. Si avrà quindi “possesso” quando la relazione che il soggetto ha instaurato con la cosa è tale «… per i caratteri di modo, di spazio e di tempo» da consentire di farla propria senza la necessità di doverla sottrarre ad alcuno; detto altrimenti, il possesso di cui all’art. 646 c.p. consiste in una relazione uomo-cosa incompatibile con l’esistenza di una contemporanea disponibilità effettiva altrui anche soltanto di pari livello (Carmona, A., Appropriazione indebita, cit., 396).
Anche la lettura appena lumeggiata manifesta a ben vedere un profilo di criticità. Ritornando all’esempio da cui siamo partiti, ossia quello relativo al rapporto che si instaura tra il depositario-“garagista” e il proprietario dell’automobile, l’impressione è che in assenza di ulteriori precisazioni non sarebbe impossibile obiettare come il secondo versi in uno stato di disponibilità effettiva (secondo il modulo del rapporto “psichico e potenziale”) dell’automobile e come, pertanto, la condotta illecita del primo assuma la forma della sottrazione, con l’effetto di escludere la ricorrenza del possesso (e dell’appropriazione indebita) contrariamente a quanto emerge dal dato normativo. Non resta allora che constatare l’inadeguatezza anche dell’approccio interpretativo in esame oppure provvedere a una sua puntualizzazione che dovrebbe consentirne una “copertura” comprensiva delle ipotesi riconducibili a quella poc’anzi esemplificata. Si potrebbe cioè aggiungere che invero lo stato di disponibilità effettiva (anche sub forma di rapporto “psichico e potenziale”) non permane, instaurandosi dunque una tipica condizione possessoria, allorquando la vittima “affidi” (come avviene, ad esempio, nel deposito) il bene a un altro soggetto, che poi se ne appropri.
Quanto al “titolo” possessorio, la disposizione non prevede che la fonte debba avere natura specifica, potendo dunque identificarsi con la legge, un contratto o qualsiasi altra causa. Nondimeno, dalla struttura dell’art. 646 c.p. è ricavabile una prima limitazione: essendo il “titolo” attributivo del possesso, non potrà trattarsi di una fonte giuridica attributiva della proprietà.
Inoltre, il possesso non potrà avere origine illecita, ossia derivare da una condotta criminosa, in quanto appare necessario che esso debba esistere giuridicamente in modo valido. Del resto, laddove la modalità di acquisizione del possesso sia di per sé punibile, in quanto ad esempio furtiva, è evidente che la successiva condotta di appropriazione sarà da considerarsi assorbita o integrante un post factum non punibile (cfr. Pedrazzi, C., Appropriazione indebita, cit., 838; Mantovani, F., Diritto penale, cit., 120).
Secondo la lettura tradizionale, la condotta incriminata si sostanzia nel comportamento dell’agente nei confronti della cosa come se ne fosse proprietario.
Atteso che per “patrimonio”, secondo la visione dominante in campo giuridico, deve intendersi quel complesso di “rapporti giuridici” che fanno capo a una persona e che abbiano ad oggetto cose suscettibili di valutazione economica o “affettiva”, si comprende come la dinamica dell’appropriazione non sia significativa del trasferimento della cosa “da un patrimonio a un altro”. Non potendo dunque il patrimonio essere individuato nell’insieme delle cose che ne fanno parte, ma dovendolo invece identificare con quel fascio di relazioni (interpersonali) derivanti dal riconoscimento giuridico del potere di disporre e godere dei beni, nonché dei relativi limiti, ne consegue che la condotta appropriativa non realizza il trasferimento della cosa nel patrimonio dell’agente, ma ne dà solo l’ “apparenza”, dissimulando la reale situazione giuridica. Nell’intento, allora, di fornire una prima specificazione della definizione data in apicibus, si può dire che colui che si appropria finisce per assumere «… illegittimamente su di sé l’esercizio concreto di diritti, poteri o facoltà spettanti ad altri soggetti» (Carmona, A., Appropriazione indebita, cit., 397-398).
È stato poi correttamente osservato come il concetto di appropriazione non possa essere descritto attraverso il solo richiamo alla “materialità” del comportamento tout court, necessitando invero, ai fini del suo riscontro, anche del rinvio a un piano diverso da quello propriamente naturalistico. Si spiega così, nell’ambito dell’opera di definizione del concetto, l’associazione del requisito psicologico consistente nell’animus domini, ossia la volontà di tenere la cosa come propria (Pedrazzi, C., Appropriazione indebita, cit., 843). Detto altrimenti, lo stesso fatto materiale potrà dar luogo o meno a un’appropriazione a seconda che sia sorretto dalla volontà di appropriarsi (cfr., per tutti, Pagliaro, A., Appropriazione indebita, in Dig. pen., 1987, 226).
Concorde con tali premesse è la giurisprudenza maggioritaria, che nella condotta appropriativa ravvisa un elemento oggettivo (l’atto dispositivo uti dominus) e un elemento psicologico (la volontà di tenere la cosa come propria) (per tutte, Cass. pen., 27.5.1981, n. 9410, in Cass. pen., 1982, 1735).
Volendo procedere a una qualche esemplificazione, non solleva particolari problemi la riconducibilità al fenomeno appropriativo delle figure dell’alienazione e della consumazione.
Meritano invece talune puntualizzazioni le ulteriori possibili forme tipiche di manifestazione del reato: la ritenzione e la distrazione.
In merito alla prima figura, descrivibile come il comportamento omissivo di chi viola l’obbligo di restituzione di cose possedute (si pensi alla mancata restituzione della cosa ricevuta in pegno), si ritiene che la semplice condotta omissiva non basta a integrare l’appropriazione, non costituendo manifestazione univoca della volontà di appropriarsi. In questa ottica è invece necessario che alla ritenzione tout court si accompagni una condotta positiva che manifesti il rifiuto di restituire (ad esempio, un esplicito rifiuto, la negazione di aver mai ricevuto la cosa, il suo nascondimento o la sua spedizione in un luogo lontano etc.) (Mantovani, F., Diritto penale, cit., 116) (nella giurisprudenza, si veda Cass. pen., 2.2.2009, n. 4440, che ha riconosciuto l’esistenza dell’appropriazione indebita in un caso di mancata restituzione di un’autovettura accompagnata da una condotta di smontaggio non autorizzato di diverse parti del mezzo).
La distrazione consiste nell’imprimere alla cosa una destinazione diversa da quella originaria, incompatibile con le ragioni o il titolo del suo possesso (per tutte, Cass. pen., 1.2.1983, n. 7409, in Riv. pen., 1984, 113). La riconducibilità di siffatta tipologia di condotta al modello appropriativo si fonda sull’osservazione per cui trattasi sempre di atto dispositivo fuori dei poteri conferiti e quindi di un comportarsi uti dominus (cfr. Mantovani, F., Diritto penale, cit., 115). Si ritiene altresì che non ogni condotta distrattiva implichi necessariamente un’ “impropriazione” del bene, dovendosi dunque distinguere tra condotte distrattive corrispondenti a una vera e propria appropriazione e distrazioni non significative di tale fenomeno. A tal proposito, si richiama l’ipotesi della concessione abusiva del fido bancario (su cui si è formato un cospicuo orientamento giurisprudenziale – per il quale si veda Bassi, A., Art. 646, cit., 6513 – in prevalenza favorevole al riscontro di un’appropriazione indebita), relativamente alla quale, ai fini del riscontro dell’esercizio di un effettivo potere di signoria uti dominus, si richiede, accanto alla concessione del prestito in violazione delle norme statutarie, la volontà di procurare al beneficiario un profitto ulteriore rispetto a quello normalmente presente in quel tipo di operazione e la consapevolezza che il denaro prestato non sarà restituito (Mantovani, F., Diritto penale, cit., 115; Fiandaca, G.-Musco, E., Diritto penale, cit., 109).
Ai nostri fini, il tasso di equivocità espresso dalla condotta in sé considerata aumenta nei casi in cui non si rinviene l’elemento, pur non richiesto dalla fattispecie, della definitività del risultato. Si pensi alle ipotesi riconducibili alla figura degli “atti d’uso”, di cui le fattispecie di furto d’uso e peculato d’uso costituiscono espressa valutazione normativa. A ben vedere, appare contraddittoria l’idea dell’appropriazione indebita nella forma dell’uso, vale a dire sorretta dalla volontà di restituzione della cosa. Si ritiene pertanto che l’uso indebito potrà rilevare ex art. 646 c.p. in presenza di ulteriori elementi che, surrogando l’assenza della definitività del risultato, consentano di concludere nel senso della sola apparenza dell’uso e dell’effettività dell’appropriazione. A tal proposito si pensi al caso in cui il bene, indebitamente utilizzato per ritardo nella restituzione, viene a deteriorarsi materialmente in maniera apprezzabile. Non sarà invece punibile l’uso avente ad oggetto cose fungibili, in presenza di restituzione del tantundem e sempre che non fosse stato diversamente pattuito (Carmona, A., Appropriazione indebita, cit., 399).
Sul concetto di «cosa mobile», di cui l’espresso richiamo al denaro possiede valenza puramente simbolica, si rinvia alla voce Furto.
Qui ci si limita a sottolineare la particolare configurazione del reato in esame nei casi in cui la condotta appropriativa abbia ad oggetto cose fungibili, quali appunto le somme di denaro. Come peraltro è evidente, dal momento che il soggetto è tenuto di regola alla restituzione del tantundem, la spendita o l’alienazione delle banconote (o delle monete) ricevute non integra appropriazione punibile, sempre che si rinvengano l’intenzione e la concreta possibilità di potere restituire la somma a tempo debito e salvo il ricorrere del caso eccezionale in cui l’avente diritto ha un interesse all’“individualità” delle singole specie (Fiandaca, G.-Musco, E., Diritto penale, cit., 111).
Il momento “generico” del dolo consiste nella coscienza e volontà di appropriarsi della cosa mobile altrui posseduta. L’errore di colui che, conoscendo e volendo la situazione di fatto, non ritenga che essa integri un’appropriazione o non stimi di avere il possesso della cosa ex art. 646 c.p. rappresenta un errore sul divieto penale e, dunque, non vale a escludere la colpevolezza. Si dovrebbe invece escludere il dolo (ex art. 47, co. 3, c.p.) nell’ipotesi in cui l’errore derivi da legge extrapenale valutata a torto come attributiva della proprietà o escludente la giuridica rilevanza di ogni interesse altrui (cfr. Pedrazzi, C., Appropriazione indebita, cit., 846).
Si esclude la sussistenza dell’animus appropriandi nell’ipotesi in cui la cosa venga trattenuta con la precisa intenzione di restituirla (Mantovani, F., Diritto penale, cit., 118), di modo che, e in via generale, si ritiene che l’intenzione di restituire la cosa, purché presente al momento dell’abuso del possesso ed in presenza della consapevolezza di poterlo fare, vale a escludere il dolo (Fiandaca G.-Musco, E., Diritto penale, cit., 112).
In merito ai casi concernenti cose fungibili, è stato osservato che se è vero che l’appropriazione della cosa accompagnata dall’effettiva intenzione di restituire il tantundem non integra il reato (nemmeno laddove fosse ravvisabile una qualche leggerezza di valutazione, data l’irrilevanza della colpa), ciò non esclude la possibilità di muovere un rimprovero a titolo di dolo eventuale quando il soggetto, nel compiere la condotta, abbia accettato il rischio di non trovarsi nella condizione di poter restituire il tantundem in un tempo successivo (Carmona, A., Appropriazione indebita, cit., 400).
Il momento specifico del dolo richiede il fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto.
Sul profilo dell’agire allo scopo di conseguire un profitto si rinvia alla voce Furto . Qualce precisazione, in questa sede, merita il requisito dell’ingiustizia. Premesso che l’eventuale presenza di una causa di giustificazione elide la stessa antigiuridicità dell’appropriazione, l’estremo dell’ingiustizia implica che il profitto perseguito non abbia la propria base in una pretesa tutelata dall’ordinamento: si porta l’esempio del soggetto che agisca con lo scopo di compensare un danno o di regolare ragioni creditorie (Fiandaca, G.-Musco, E., Diritto penale, cit., 113). A tal proposito, si deve pur sempre ricordare che, in presenza di violenza sulle cose e alle persone, potrebbe configurarsi il diverso delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni.
Il delitto si consuma col compimento della condotta appropriativa. Con particolare riguardo alle forme di condotta connotate da equivocità, si ritiene sufficiente, ai fini del perfezionamento del delitto, la realizzazione di una condotta che manifesti in maniera obiettiva la volontà di ottenere un dominio definitivo, senza dunque la necessità di accertare l’effettiva acquisizione del medesimo (come se si trattasse di un reato di evento) (Fiandaca, G.-Musco, E., Diritto penale, cit., 113).
Appare in concreto problematica l’individuazione del confine tra consumazione e tentativo, tanto da lasciar concludere nel senso dell’impossibilità di configurare questo ultimo (Pedrazzi, C., Appropriazione indebita, cit., 845), nonostante la tesi che ne rinviene gli elementi costitutivi ad esempio nelle ipotesi di esposizione in vendita dell’oggetto o di scrittura di una dichiarazione di girata su un titolo (Antolisei, F., Manuale di diritto penale, cit., 346; Pagliaro, A., Appropriazione indebita, cit., 238). In merito, si sostiene che, a ben vedere, le modalità comportamentali ora richiamate realizzano una condotta appropriativa, in quanto atti già idonei a manifestare una volontà di appropriazione definitiva (Fiandaca, G.-Musco, E., Diritto penale, cit., 114; Carmona, A., Appropriazione indebita, cit., 401). Del resto, l’assenza di giurisprudenza lascia deporre per la non configurabilità del tentativo.
Il delitto di appropriazione indebita è punito con la reclusione fino a tre anni e con la multa fino a euro 1.032.
Il co. 3 della disposizione prevede la procedibilità d’ufficio del reato nel caso in cui ricorra l’ipotesi circostanziata di cui al co. 2 o la circostanza aggravante comune contemplata all’art. 61, n. 11, c.p. Ciò in ragione della maggiore pericolosità ed antisocialità derivabili dall’approfittamento di contingenze eccezionali, della diminuita difesa del soggetto passivo o della particolare fiducia da lui riposta (sul punto, Bassi, A., Art. 646 c.p., cit., 6521).
Art. 646 c.p.; art. 647 c.p.; artt. 235 e 236 del c.p.mil.p.; artt. 114 e 1147 c.nav.
Antolisei, F., Manuale di diritto penale. Parte speciale, vol. I, XV ed., Milano, 2008; Bassi, A., Art. 646 c.p., in Marinucci, G.-Dolcini, E., Codice penale commentato, Milano, 2011; Carmona, A., Tutela penale del patrimonio individuale e collettivo, Bologna, 1996; Id., Appropriazione indebita, in Dizionario di diritto pubblico, diretto da S. Cassese, Milano, 2006; Cipolla, P., I delitti di appropriazione indebita, Padova, 2005; Fiandaca, G.-Musco, E., Diritto penale. Parte speciale, vol. II, V ed., Bologna, 2007; Manzini, V., Trattato di diritto penale italiano, IX, V ed., 1987; Mantovani, F., Furto (diritto penale comune), in Nss.D.I., VI, Torino, 1961; Id., Diritto penale. Parte speciale, vol. II, III ed., Padova, 2009; Nuvolone, P., Il possesso nel diritto penale, Milano, 1942; Pagliaro, A., Appropriazione indebita, in Dig. pen., 1987; Pedrazzi, C., Appropriazione indebita, in Enc. dir., Milano, 1958; Petroccelli, B., L’appropriazione indebita, Napoli, 1933; Sgubbi, F., Patrimonio (Delitti contro il), in Enc. dir., Milano, 1982.