AQUILA
(L'Aquila; lat. Aquiliae, Acculae)
Città dell'Italia centrale, capoluogo dell'Abruzzo, A. sorge in posizione elevata (m. 720) sui fianchi di una collina digradante verso l'Aterno, al centro della grande conca aquilana, nella quale in epoca romana fiorirono i municipi di Amiternum (od. San Vittorino), Forcona (od. Civita di Bagno), Foruli (od. Civita Tomassa) e Aveia (od. Fossa). Distrutti questi centri durante le invasioni barbariche, nel Medioevo la popolazione si sparse in ville e castelli, dominati da signori feudali. La rivolta dei villani contro i feudatari, che verso la metà del Duecento, sotto la dinastia sveva, culminò nella creazione di A., fu preparata da lunghe lotte, come si può desumere dalla lettera del 7 settembre 1229 inviata da Gregorio IX agli ambasciatori dei contadi amiternino e forconese (MGH. Epist. XIII, I, 1883, pp. 321-322), venuti a impetrare il suo appoggio. Il consenso del pontefice ("et locum Acculi ad costruendam civitatem vobis de speciali gratia concedendo") va probabilmente interpretato in chiave antimperiale come il tentativo di porre un freno alla politica aggressiva di Federico II attraverso la rivendicazione dei territori della Chiesa di antica donazione imperiale. Non va dimenticato inoltre che un contributo al superamento della frammentazione feudale e alla trasformazione della originaria ribellione popolare in nuove forme di aggregazione socio-economica, che avrebbero dato vita alla complessa realtà di una città, poté essere fornito dalla struttura dei monasteri cistercensi, largamente attestati in territorio aquilano, dall'abbazia di Santo Spirito d'Ocre (1222) fino alla più tarda grangia di S. Maria del Monte (1289) presso Campo Imperatore (Clementi, 1976; Righetti Tosti-Croce, 1983; 1987). Di conseguenza non si può ritenere casuale la formazione del borgo di Acculum intorno al monastero cistercense di S. Maria ad Fontes (1195), la nomina a secondo vescovo di A. del monaco cistercense Nicola Sinizzo (1267-1294) e infine il fatto che, in deroga alla norma secondo cui ogni insediamento cistercense doveva trovarsi fuori dei centri abitati, il monastero di S. Maria Nova fosse costruito all'interno della città (1282).Agli Svevi, d'altra parte, non sfuggì l'importanza della città, una sorta di ianua regni a Settentrione, donde poter controllare militarmente e politicamente l'alto Abruzzo. La loro fu una politica di conciliazione: preso atto dell'esistenza della città, ne sancirono ufficialmente la nascita. Il noto diploma del 1254, ritenuto quasi concordemente dagli studiosi di Corrado IV (Monti, 1933; Chiappini, 1956), benché taluni lo reputino un falso del 1529 da attribuirsi all'umanista Mariangelo Accursio (De Stefano, 1923; Colapietra, 1960), fornisce una legittimazione a posteriori di un episodio di per sé rivoluzionario: la costituzione di una città contro le pretese autonomistiche dei castelli. Il villaggio acquistò ben presto la dignità di civitas, in seguito al trasferimento in esso della sede episcopale di Forcona, attestato dalla bolla di Alessandro IV del 20 febbraio 1257 (Muratori, Antiq., VI, 1742, coll. 518-520), nella quale si menziona la nuova cattedrale, significatamente dedicata ai ss. Massimo e Giorgio, cui erano rispettivamente intitolate le antiche cattedrali di Forcona e di Amiterno, quasi a suggellare il ruolo religioso della città. La resistenza opposta a Manfredi causò nel 1259 la distruzione di A., in precedenza evacuata. A distanza di pochi anni, nel 1266, iniziò la ricostruzione per volontà del nuovo sovrano Carlo I d'Angiò, definito "civitatis praedictae denuus reformator" nel diploma del figlio Carlo II, datato 28 settembre 1294 (Muratori, Antiq., VI, 1742, col. 558, n. 31B).La politica della dinastia angioina fu contrassegnata da una forte pressione fiscale, che influì sulla 'forma' stessa della città. Attraverso i vari decreti di tassazione, riguardanti prima la città e le singole terre (1269), poi la sola A. per sé e per tutte le terre del contado (1294), è possibile ricostruire le varie fasi dello sviluppo urbano, dalla sua stretta unione con il contado fino alla supremazia su di esso.La crescita della città procedette parallelamente alla distruzione delle roccaforti feudali, fino al loro definitivo annientamento, avvenuto sotto la guida di Niccolò dell'Isola (1290). È sintomatico che il risultato della rivolta non fu tanto l'affermazione dell'autonomia cittadina, subito osteggiata dalla corona angioina, quanto l'ordine di inurbamento che favorì lo sviluppo edilizio e l'alleggerimento del carico fiscale.In epoca angioina la preminenza della 'via degli Abruzzi' sulle altre strade di collegamento fra il Nord e il Sud della penisola segnò favorevolmente il destino della città abruzzese. Tale via, infatti, sul percorso dell'antica Minucia, collegava Firenze a Napoli passando per A.: la già felice posizione di quest'ultima all'ingresso del regno risultò accresciuta dal fatto di trovarsi su di una strada aperta ai traffici con l'Italia settentrionale e con l'Europa.Sembra ormai sufficientemente accertato (Petrignani, 1972; Spagnesi, Properzi, 1972; Gizzi, 1983) che la città si sia sviluppata sul preesistente borgo di Acculae, sorto intorno al monastero cistercense di S. Maria ad Fontes de Acquilis (1195), così denominato per l'abbondanza di sorgenti nella zona, successivamente trasformato nel monastero di S. Chiara (1256) e situato nell'attuale area della Rivera.Lo sviluppo del borgo fu favorito dall'esistenza a fondovalle di un tracciato di origine romana, ricalcante un tratturo dal quale si staccava un percorso che risaliva fino all'attuale piazza Duomo, dove la probabile presenza di una recinzione o di un accampamento militare potrebbe forse spiegare la straordinaria importanza attribuita da allora in poi a tale spazio (Gizzi, 1983). D'altra parte la presenza di strutture risalenti all'epoca romana sembra indirettamente confermata dal riutilizzo di blocchi di opus quadratum nel tratto di mura fra porta Romana e porta Rivera.Il primo nucleo della città sveva non crebbe, tuttavia, intorno al borgo di Acculae, insediamento troppo periferico per essere facilmente integrato, bensì si svolse lungo una serie di percorsi curvilinei - riconoscibili a O nelle attuali vie S. Marciano e Cembalo dei Colantoni, a N nelle vie Saturnino, dei Setaioli, degli Amiternini e delle Rose, a E nelle vie Lepidi, Costa Due Stelle e Costa Campana, a S in via Costa Masciarelli - convergenti secondo uno schema a raggiera verso piazza Duomo.Il confine settentrionale della città, che nel 1257 già vantava le emergenze architettoniche della cattedrale e di S. Giusta, era segnato dalle attuali vie Roma, Bafile e corso Umberto, oltre le quali, in posizione esterna, si insediarono i Francescani (1256) e i Domenicani (1258), anche se questi ultimi in varie fabbriche e non in un'unica sede, come avvenne più tardi (1300).Per volere di Carlo I d'Angiò la città fu ricostruita "con più spazioso circuito che prima" (Cirillo, 1570, p. 7) e il suo territorio, diviso in lotti (i 'locali'), fu assegnato ai castelli fondatori, previo pagamento di una tassa (1269), perché vi edificassero proporzionalmente al numero delle famiglie (fuochi), con la conseguenza che i castelli più popolosi divennero proprietari di un maggiore spazio cittadino. In questa fase dello sviluppo urbano il 'locale' divenne una cellula autonoma, dotata di una chiesa, di una piazza e, quando fu costruito l'acquedotto di Sant'Anza (1308), anche di una fontana. Nonostante l'assegnazione dei 'locali' dovesse rispecchiare topograficamente il territorio circostante, spesso questa norma non fu rispettata e i castelli più potenti, non i più vicini, occuparono l'area centrale della città, quella gravitante intorno a piazza Duomo (L'Aquila, 1974). In ogni modo lo stretto legame del 'locale' con il territorio sembrerebbe espresso dal fatto che il campanile della chiesa veniva costruito in modo da essere visibile dal castello di origine.Così alla struttura urbana monocentrica di epoca sveva se ne sostituì una policentrica, ottenuta per giustapposizione di singole unità (i 'locali'), impostata su un cardo (od. corso Vittorio) e un decumano (od. via Roma), che si saldò al precedente impianto a raggiera, i cui percorsi curvilinei furono parzialmente rettificati secondo l'ottica regolarizzatrice angioina.Con la costruzione delle mura, iniziata nel 1272 sotto Lucchesino da Firenze e terminata nel 1316 con Leone di Ciccio da Cassia, si definì il perimetro urbano, talmente vasto da lasciare all'interno ampi spazi vuoti, visibili al tempo dell'incoronazione di Celestino V (1294), come traspare dalla descrizione del cardinale Stefaneschi ("Aquilam non plenam civibus urbem sed spatiis certis signatam ob spemque futuram"; RIS, III, 1, 1723, pp. 633-634) e destinati a non venire colmati neppure successivamente, per effetto della contrazione demografica dovuta alle numerose epidemie del Trecento. In origine la cinta muraria ebbe quattro porte, aumentate successivamente almeno fino a dodici. Delle due tipologie documentate - porta semplice e porta preceduta da un'antiporta con due torri di fiancheggiamento - la più complessa fu riservata alle due porte principali, di Bazzano e di Barete. Anche in considerazione del fatto che il periplo murario non registrò mai alcun ampliamento, preziosa è la pianta di città di Pico Fonticulano (Aquila, Bibl. Prov., 57, c. 181, sec. 16°) che fornisce una raffigurazione delle mura che non doveva discostarsi troppo dalla fase medievale. Un'attenta indagine tecnico-struttiva (Martella, Medin, 1979) ha consentito di individuare le porte medievali superstiti, attualmente frammentarie o con aggiunte posteriori, talvolta rimontate e inserite in un contesto alterato. Si tratta delle porte Leoni, Tiona, di Bagno, Roiana, Barete, S. Lorenzo e di Collebrincioni, oggi tutte murate a eccezione della prima, generalmente composte da un arco acuto, capitelli e spallette, risalenti al Trecento, tranne quelle di S. Lorenzo e di Collebrincioni, che sembrano leggermente più tarde (fine del sec. 14°-inizio del 15°).Contemporaneamente alla prima costruzione delle mura (1279), fu eretta la fontana delle Novantanove cannelle, con altrettanti mascheroni porta-getto di varia foggia (umana, animale e floreale), che gettano zampilli in una vasca sottostante, la quale a sua volta li riversa in un'altra. L'intervento del maestro Tancredi da Pentima (1272), testimoniato dall'iscrizione sulla fronte, si può riconoscere, oltre che nel parapetto con i pilastrini ottagonali, in numerosi mascheroni del lato frontale e in alcuni di quello di sinistra. La sostanza gotica nitida e calibrata di queste sculture rimonta alla plastica pugliese di epoca tardofedericiana, nella quale probabilmente vanno ricercate le primissime esperienze di Nicola Pisano, tanto da consentire il significativo confronto di alcuni mascheroni aquilani con le teste-mensola del tamburo della cupola del duomo di Siena (Bologna, 1983b). La plastica di maestro Tancredi, se riconnessa ad alcune coeve e rare testimonianze architettoniche di radice borgognona, dal portale laterale di S. Pietro di Coppito (seconda metà del sec. 13°) a quelli, anch'essi laterali, di S. Martino (seconda metà del sec. 13°), può gettar luce sul ruolo della cultura gotica, prima di marca sveva e successivamente angioina, la quale, benché non sempre solidale con lo svolgimento artistico della città, tuttavia costituì nel suo ambito un'importante presenza.In una fase successiva dello sviluppo urbano, iniziata da Carlo II e proseguita dai suoi successori, il frazionamento della città fu superato attraverso la fusione dei 'locali' nei 'quarti' di S. Pietro di Coppito, S. Giovanni di Lucoli (poi S. Marciano), S. Maria di Paganica e S. Giorgio (poi S. Giusta), esistenti già nel 1272, ma divenuti effettivi nel 1294 quando la tassazione fu appunto effettuata per 'quarti'. La costituzione dei 'quarti' ebbe immediate ripercussioni sull'aspetto della città, sia perché ciascuno di essi fu caratterizzato dal palazzo nobiliare, dalla chiesa 'capo di quarto' con la prospiciente piazza e dalla porta, sia perché favorì il processo di accentramento e geometrizzazione dello spazio urbano. Allo scadere del Duecento le emergenze architettoniche della città erano rappresentate da S. Massimo, S. Maria di Paganica e S. Pietro; è probabile che alle tre chiese 'capo di quarto' si aggiungesse anche S. Giovanni di Lucoli. Benché attualmente ridotte a una sola navata con cappelle laterali, la pianta originaria di questi edifici doveva essere a tre navate, generalmente con transetto continuo; l'ipotesi è suffragata dal recupero di una sorta di navatella in S. Pietro dopo i restauri del 1971. Delle costruzioni tardoduecentesche restano oggi: alcuni brani di muratura in 'apparecchio aquilano' nei transetti di S. Giusta e di S. Maria di Paganica; il fianco destro della cattedrale suddiviso da paraste scanalate, secondo un motivo che trovò larga applicazione nelle facciate agli inizi del secolo successivo, ma pressoché sconosciuto nei fianchi; infine la base quadrata del campanile di S. Pietro che, unitamente al torrione ottagonale di Collemaggio, costituisce l'unico esempio superstite di questo organismo architettonico.Iniziata nel 1287, S. Maria di Collemaggio era già consacrata nel 1289, ma la sua costruzione si protrasse fino alla fine del secolo, come provano i privilegi dei vescovi marsicano e teatino relativi alla concessione di indulgenze a quanti elargivano contributi in denaro. Le successive vicende della chiesa furono segnate da un evento straordinario, la solenne incoronazione di Pietro da Morrone eletto papa con il nome di Celestino V, ivi avvenuta il 29 agosto 1294 alla presenza del re Carlo II e di suo figlio Carlo Martello. L'edificio adottò la medesima pianta delle chiese precedenti, seppure in proporzioni sensibilmente più vaste, utilizzando piloni ottagonali come elementi divisori delle navate; tuttavia il precoce impiego dei pilastri a Collemaggio non costituì un episodio isolato, poiché essi, nella variante a fascio, compaiono anche nelle arcate presbiteriali di S. Giusta.L'attuale piazza Palazzo, menzionata in un diploma regio del 1304, nel corso del Trecento divenne il polo politico della città. Nel 1310, infatti, Francesco de Crescenzo vi fece costruire il palazzo del Capitano, che fu successivamente trasformato fino ad assumere l'odierna veste ottocentesca, mentre solo i primi tre ordini dell'annessa torre sembrano risalire al 13° secolo. In quegli anni fu eretto anche il palazzo Comunale, distrutto dal terremoto del 1703. Nella medesima piazza, quasi al termine di uno dei principali percorsi viari angioini (via Roma), in una posizione chiave e ormai all'interno dell'abitato, sin dal 1291 era stata innalzata la chiesa di S. Francesco, come confermano le indulgenze concesse dal papa Niccolò IV (1288-1292) ai visitatori; distrutta dal terremoto del 1349, già nel 1360 doveva essere iniziata la sua ricostruzione, se in quell'anno un Giovanni Gaglioffo faceva lasciti alla cappella di S. Ludovico in S. Francesco. Soppressa dalle leggi napoleoniche, nulla resta della costruzione originaria, a eccezione di alcuni setti murari.Piazza Palazzo era strettamente collegata da tre assi perpendicolari a piazza Duomo, polo religioso, tanto da costituire quasi un complesso unitario; l'integrazione era sottolineata anche dalla confluenza in esse dei percorsi viari nascenti dalle porte principali di Barete e di Bazzano.I terremoti del 1315 e del 1349 non provocarono sostanziali alterazioni né allo schema urbano, né alla cinta muraria, ma causarono danni agli edifici; le successive ricostruzioni, i rimontaggi e gli 'aggiornamenti' hanno prodotto modifiche alla facies medievale della città, che si presenta ora alquanto frammentaria.Alla prima metà del Trecento si può far risalire il più consistente sviluppo urbano e architettonico, iniziato con la costruzione di edifici di modesta struttura che, rispetto alle chiese 'capo di quarto' di fondazione duecentesca, presentano un'aula unica, con l'eccezione della rara pianta a croce commissa di S. Nicola di Sant'Anza, oggi in gran parte ricostruita. Si definì un tipo di facciata che ebbe larga fortuna: a coronamento orizzontale, divisa da una cornice marcapiano in due ordini, di cui l'inferiore è scompartito da lesene, mentre il superiore accoglie una finestra circolare. Con poche varianti seguono tale schema le facciate di S. Maria di Roio, fondata probabilmente prima del 1322, quella di S. Marciano, esemplata sulla precedente nel superstite ordine inferiore, e quella di S. Pietro di Sassa. Parallelamente si sviluppò una tipologia di portale con arco a tutto sesto, architravato, arricchito da archivolti e pilastri, diffuso prima che le maestranze di Collemaggio elaborassero più complessi organismi. Il primo esemplare è costituito dal portale del fianco sinistro di S. Maria di Paganica, ancora duecentesco. Valore normativo assume il portale di S. Antonio (1308), l'unico datato della serie: quello di S. Nicola ne costituisce una mediocre replica; quello di S. Maria di Roio appare improntato a una certa sobrietà di ornati. Una ricchezza insolita caratterizza, invece, il portale di S. Marciano, mentre quello di S. Marco, ricomposto sul lato destro, si discosta dai precedenti per il raro uso dell'arco a sesto acuto. Infine, repliche dello stesso schema sono i più tardi portali nel transetto di S. Giusta e nel fianco di S. Silvestro.A metà secolo il problema della decorazione delle facciate di maggiori dimensioni venne risolto utilizzando lo schema dei portali precedenti, ma con un sensibile arricchimento dell'organismo plastico. Il portale si espande in ampiezza, gli stipiti e gli archivolti si moltiplicano fino a raggiungere una profonda strombatura; contemporaneamente si verifica una mistione di elementi romanici e gotici, specie nei capitelli, dove i consueti uccelli si alternano ai borgognoni crochets a foglie uncinate. A questi modelli si ispirano i portali di S. Giusta (1349), di S. Marco e di S. Silvestro (1350 ca.). In realtà l'innesto del linguaggio gotico in un contesto ancora romanico si era già manifestato in città attraverso l'opera di Raimondo di Poggio, che in età angioina raccoglie l'eredità dei cantieri tardosvevi campani e pugliesi: certamente suo, per le strette affinità con la 'porta santa' di S. Maria di Propezzano (Teramo), si rivela il portale del fianco destro di S. Maria di Paganica, mentre qualche incertezza, per la più sommaria esecuzione, suscita la porta sul prospetto, raffigurante nell'architrave Cristo fra santi (datato 1308).S. Domenico, innalzata nel 1309 per espressa volontà di Carlo II, costituisce l'episodio architettonico più francesizzante: riprende la pianta a tre navate, transetto coperto a crociera e absidi, già sperimentata a S. Giusta e a S. Pietro di Coppito, con l'applicazione, però, di un sistema gotico più spinto, visibile soprattutto nel corpo posteriore e nel transetto. Ivi la testata destra ospita un portale del tipo consueto, ma a sesto acuto e con una originale fascia cassettonata; ancor più gotico è il portale ogivale della testata sinistra, raffinato nel disegno e nella esecuzione. Forse costruita troppo tardi per imprimere una svolta alla facies architettonica della città, S. Domenico rimase un episodio senza seguito, almeno nello specifico terreno dell'edilizia religiosa.A correggere l'opinione che A. sia stata resistente al radicarsi della più schietta cultura gotica d'oltralpe concorre uno straordinario gruppo di sculture lignee 'francesizzanti', dalla Madonna di S. Silvestro alla Vergine di Fossa, alla S. Caterina d'Alessandria, riferibili alla metà del secolo e oggi conservate al Mus. Naz. d'Abruzzo; mentre altre opere provenienti dal territorio circostante - fra le quali è sufficiente rammentare la S. Balbina da Pizzoli, la S. Elisabetta di Assergi e lo sfigurato simulacro di una S. Regina, un tempo appeso sul campanile del duomo aquilano - impediscono di respingere l'ipotesi di una città impegnata direttamente nell'elaborazione di modelli gotici. Il gruppo marmoreo trecentesco della Madonna con il Bambino nella lunetta di S. Maria di Paganica reca in sé, invece, i caratteri della scultura gotica di marca tosco-napoletana (Carli, 1941).A partire dalla seconda metà del Trecento la basilica di S. Maria di Collemaggio acquistò l'odierna veste architettonica. La facciata, a coronamento orizzontale, suddivisa da una cornice a mensole in due zone, di cui la superiore tripartita da paraste, fu rivestita da un paramento di pietre cruciformi bianche e rosa; nella parte inferiore furono aperti i tre portali ancora in opera. Il mediano, assimilabile a un trittico per via dei due ordini di nicchie cuspidate atte a contenere statuine di santi - oggi ridotte a sei - secondo una imprevista soluzione che scavalca d'un tratto la consolidata iconografia dei portali aquilani, è concluso da una fitta sequenza di archivolti. I due portali laterali, perso lo slancio innovativo del principale, ne ripetono in forme semplificate la saldezza d'impianto. Nel rosone di destra l'impiego di archetti a tutto sesto denota una tendenza arcaizzante, che a torto lo ha fatto ritenere più antico (Serra, 1929), mentre il finestrone centrale combina elementi diversi in un ordinato assemblaggio.Alla fine del Trecento e nei primi decenni del secolo seguente la basilica celestiniana fece da modello per un 'aggiornamento' dell'architettura religiosa, per lo più motivato dalla necessità di riparare ai danni dell'ultimo terremoto (1349). La sua koiné decorativa è rintracciabile in una serie di edifici, dai rosoni di S. Silvestro e di S. Maria del Guasto, ai portali di S. Flaviano e della tarda S. Maria del Soccorso (1469-1472), che del modello accoglie anche l'idea del paramento bicromo, ma nella resa a fasce orizzontali ne impoverisce la carica sottilmente pittorica.A testimoniare la splendida stagione pittorica svoltasi nei primi anni del Quattrocento, ma le cui radici affondano nel secolo precedente, oltre a lacerti ancora in attesa di essere studiati, restano alcuni dipinti murali in S. Maria di Collemaggio e il ciclo absidale di S. Silvestro che, pur nell'indipendenza degli esiti formali, mostrano singolari punti di contatto. La lunetta sulla 'porta santa' dipinta intorno al 1397, la Crocifissione con s. Giuliano e una santa monaca, tutti a Collemaggio, e la Vergine fra santi nella chiesa di S. Amico, si trovano in una fase di maturità della produzione nota di Antonio da Atri, che ad A. si aprì alle correnti neo-senesi dell'Italia centromeridionale, alla diffusione delle quali, nel capoluogo abruzzese, si prodigò la personalità più interessante di quegli anni, il Maestro di S. Silvestro. Quest'ultimo, a cui sono da collegare svariati cicli dell'area umbro-abruzzese-laziale, dipinse, prima del 1412, gli affreschi della tribuna nella chiesa omonima, il trittico proveniente dalla parrocchiale di Beffi e la tavola con le Sette parole già in S. Maria di Paganica - oggi entrambi al Mus. Naz. d'Abruzzo - per restare alle sole opere aquilane (Bologna, 1987). Non si deve dimenticare inoltre che uno stretto collaboratore del Maestro affrescò l'Incoronazione della Vergine e la Madonna di Loreto sulle pareti di Collemaggio, dove nello stesso lasso di tempo lavorava anche Antonio da Atri.Durante il Trecento continuò il completamento dei 'quarti' con tracciati a maglie rettangolari, secondo quel processo di regolarizzazione urbana iniziato alla fine del Duecento sotto gli Angioini; nel contempo si verificò uno spostamento di interessi e quindi di importanza dal 'quarto' di S. Marciano, il più condizionato dalle preesistenze degli antichi percorsi viari, a quello di S. Pietro, cui appartenevano le famiglie dei Camponeschi e dei Pretatti, protagoniste della vita cittadina nel Quattrocento. Alla fine del sec. 14° A. assunse la sua forma definitiva, rimasta pressoché inalterata per altri due secoli fino alla dominazione spagnola che, con la costruzione del castello (1534-1549), introdusse la più significativa trasformazione al volto medievale della città.
Bibl.:
Fonti. - Bernardino Cirillo, Annali della città dell'Aquila con l'historia del suo tempo, Roma 1570 (rist. anast. Bologna 1974); Girolamo Pico Fonticulano, Breve descritio di 7 città illustri d'Italia, L'Aquila 1582; Anton Ludovico Antinori, Annali degli Abruzzi, X, 1, Bologna 1971, p. 264 (rist. anast. del ms. del sec. 18°, L'Aquila, Bibl. Prov., XLVII-2); Vitae Romanorum Pontificum a B. Petro Apostolo ad Nicolaum I, in RIS, III, 1, 1723, pp. 633-634; Aquilanarum rerum scriptores, in Muratori, Antiq., VI, 1742, coll. 518-520, 558, n. 31B.
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