AQUILEIA
Città del Friuli-Venezia Giulia, in prov. di Udine, situata nella pianura a N della laguna di Grado, un tempo in comunicazione diretta con la laguna stessa tramite il Natisone, nel quale, poco a N della città, confluiva il Torre, creando un corso d'acqua piuttosto ampio, ridotto oggi a modestissime dimensioni, il Natissa.A., la città politicamente ed economicamente più rilevante dell'Italia nordorientale in età romana, raggiunse la sua massima estensione topografica tra il 3° e il 4° secolo. Nella seconda metà del sec. 5° (forse in seguito all'invasione degli Unni del 450) l'area cittadina fu di fatto dimezzata, con la costruzione di un tratto di mura, a spuntoni a base triangolare, che la tagliava da O verso E, all'altezza del porto fluviale. A partire dal sec. 4° A. ebbe rilevanza soprattutto come centro di autorità religiosa: probabilmente alla fine dello stesso secolo la sede vescovile divenne metropolitica e, forse a partire dall'età giustinianea, con lo scisma dei 'Tre Capitoli' (554), il vescovo aquileiese assunse il titolo di patriarca (Menis, 1973).Nel 568 i Longobardi occuparono A.; il patriarca Paolino, che aveva aderito allo scisma tricapitolino, fuggì a Grado, portando con sé i tesori della cattedrale. Agli inizi del sec. 7°, il patriarca residente a Grado rientrò nell'ortodossia romana, rinunciando allo scisma. Si opposero a tale scelta i vescovi suffraganei del patriarca, con sedi in territori occupati dai Longobardi. Costoro elessero un altro patriarca, che risiedette prima a Cormons, poi a Cividale (Forum Julii) e infine ad A. (sec. 9°). Si hanno così, a partire dagli inizi del sec. 7°, due patriarchi: l'uno per l'area bizantina, con residenza a Grado, l'altro per l'area longobarda.Di fatto con la fuga del patriarca Paolino a Grado, A. rimase senza autorità costituita e abbandonata a se stessa; infatti non sembra comunque essere divenuta sede di stanziamento longobardo, come starebbe a dimostrare il fatto che, in occasione dei numerosissimi scavi eseguiti nel suo territorio, non si sono trovate tracce di cimiteri longobardi.Si può dunque ipotizzare un notevole decadimento della città, il che è confermato dal famoso lamento su A. del patriarca Paolino (fine sec. 8°), letterato legato alla corte carolina. Soltanto agli inizi del sec. 9° si può datare un primo tentativo di far rinascere la città: il patriarca Massenzio trasportò da Cividale in A. la sede vescovile, con l'intento di ricostituire l'unità del patriarcato, annullando quello di Grado. La seconda metà del sec. 9° e parte del 10° sono segnate dalla difesa contro il pericolo ungarico. Verso la fine del sec. 10° andò sempre più affermandosi il potere patriarcale, potere non solo religioso ma anche politico: il patriarca Poppone (1019-1042), legato alla corte imperiale di Corrado II il Salico, fu il più importante esponente di questa politica. Con lui A. ebbe un momento di grande splendore, di cui è rimasta eco visibile nella basilica. A partire dal sec. 13° A. cadde in stato di abbandono a causa del diffondersi della malaria: tale abbandono provocò lo scadimento della struttura urbana e di molti dei suoi monumenti, fatta eccezione per la basilica.Purtroppo manca qualsiasi documentazione iconografica della città, se non a partire dalla fine del 17° secolo.Per poter definire il tracciato delle mura medievali si hanno ben pochi resti antichi e scarsi documenti. La connessione va proposta con le mura romane, che furono varie. La massima estensione della città si ebbe con Massimino il Trace (238 d.C.) e con Teodosio I (fine sec. 4°). Successivamente all'occupazione di Attila (450) - o forse all'arrivo di Teodorico (489) - la città fu dimezzata.L'iconografia del 1693 (Panorama di Aquileia, Udine, Arcivescovado) indica l'esistenza di mura che abbracciano un'area più ampia non solo della città del sec. 5°, ma anche di quella dei secc. 3°-4°, ingrandita, rispetto a quest'ultima, in quanto abbraccia un'area meridionale mai compresa precedentemente entro le mura cittadine. Per questo secondo ampliamento si è suggerita una datazione a non prima del 1230 (Bertacchi, 1980, p. 116), anche se è da notare che la porta della Beligna, inserita in questo tratto di mura, è già documentata come esistente qualche anno prima e precisamente nel 1224 (Vale, 1931, col. 3). Esistevano nella cinta muraria altre porte, oltre a quella della Beligna a S, e precisamente: a O la porta detta Faytiula, documentata a partire dal sec. 13°; a N-O la porta del Mulino, poi di S. Siro, del Montone e poi ancora del Mulino, documentata nel sec. 12°; a N quella di Ognissanti o Udinese o dell'Ospedale, documentata a partire dal sec. 15° (Vale, 1931, coll. 3-4). Non si hanno dunque documenti relativi alle porte della città che siano antecedenti in un caso al sec. 12°, negli altri al 13° o a età più recenti. Ciò però non vieta di attribuire la cinta muraria della città a età più antiche, per es. al tempo di Poppone. Tale attribuzione è soltanto una mera ipotesi, che trova una sua giustificazione nella situazione politica maturatasi al tempo di questo patriarca. Non mancano comunque altre attribuzioni cronologiche: il documento di Carlo Magno (811), con il quale furono concessi al patriarca Massenzio i fondi necessari alla ristrutturazione della basilica, con la concessione di proprietà di alcuni longobardi, fa riferimento all'esistenza di mura cittadine: le proprietà vengono indicate come interne o esterne alle mura o in prossimità delle stesse (Vale, 1931, coll. 2-3). Ciò però non comporta necessariamente che dette mura fossero medievali: trattandosi di mera indicazione topografica, il riferimento potrebbe essere stato alle vecchie mura romane o, addirittura, a ruderi delle stesse.Come fosse strutturata la città in età medievale non è possibile definire se non in modo assai schematico: è stato possibile individuare le due principali vie, l'una N-S, che dalla porta Udinese andava a quella della Beligna, corrispondente all'attuale via Julia Augusta; l'altra O-E, che dalla porta Faytiula seguiva le attuali via Dante, piazza S. Giovanni, piazza del Porto, via Roma, via del Patriarcato, per piegare poi verso S, raggiungendo il ponte S. Felice (Vale, 1931, col. 4). Per quanto riguarda il tessuto urbano, esso appare nelle più antiche iconografie (fine sec. 17°) alquanto allentato con ampi spazi liberi; ma anche con presenze di nuclei architettonici, successivamente abbattuti, alcuni dei quali appaiono fondazioni paleocristiane più che medievali. A S della basilica era il grande palazzo patriarcale (appare diruto nel 1693), costruito nell'area dei magazzini (horrea) romani; a N, il martyrium di S. Ilario, a pianta ottagonale, attribuito alla fine del sec. 4°, costruito (fatto del tutto eccezionale) sulla principale via romana (Tavano, 1972, p. 122 ss.); a S-E, fuori le mura romane ma entro la cinta muraria attribuita a Poppone, la basilica di S. Felice, di età paleocristiana (con aggiunte medievali, quali la cripta), distrutta nel 1774; a O, S. Giovanni Evangelista, fondazione paleocristiana, demolita nel 1850; nella zona N-O, la chiesa, forse medievale, di S. Siro (Tavano, 1972, pp. 158-159). Nell'iconografia del 1693 appaiono alcuni campanili cilindrici che hanno indotto Fiocco (1940) a riconoscere in A. un'influenza neoesarcale: è da notare, però, che le piante successive presentano gli stessi campanili a base quadrangolare, il che rende assai problematica la proposta di Fiocco.Per quanto riguarda la zona extraurbana, le citazioni più importanti dell'iconografia tardoseicentesca sono il monastero delle monache benedettine a N-E della città; a S l'abbazia della Beligna (basilica attribuita alla fine del sec. 4° con importanti modifiche degli inizi del 5°), riconosciuta come Basilica Apostolorum (Tavano, 1972, p. 140 ss.); a N-O la basilica di S. Stefano, restaurata dal patriarca Gateboldo (1049-1063; Tavano, 1972, p. 159). La documentazione scritta relativa a case, palazzi, negozi, ecc. è abbastanza ricca a partire dal sec. 13° (Vale, 1931), cioè proprio da quando cominciò un ulteriore e definitivo (almeno per l'età medievale) abbandono di A. a causa del diffondersi della malaria (seconda metà del secolo).
L'attuale basilica - più esattamente parte di essa - insiste sull'area dell'aula meridionale, fatta costruire dal vescovo Teodoro nella prima metà del 4° secolo. Su quest'aula paleocristiana si costruì una chiesa di dimensioni più grandi: si utilizzarono i muri meridionale e occidentale del primitivo edificio, ampliandone l'area verso N e verso E. La pianta della nuova chiesa era rettangolare, senza abside, divisa in tre navate da due file di pilastri. Per la data di costruzione sono state suggerite due proposte: fine del sec. 4° o seconda metà del 5° (Bovini, 1972, pp. 269-301; Tavano, 1972, pp. 60-69). Questa chiesa era preceduta da un nartece, con nicchia sul lato meridionale; due porticati, perpendicolari al nartece, si aprivano verso O, determinando una sorta di quadriportico, il cui quarto lato, l'occidentale, era costituito dall'esterno del battistero. Esso è a pianta quadrangolare all'esterno, ottagonale con nicchie all'interno. Fu innalzato con la nuova chiesa e pertanto va attribuito o alla fine del 4° o alla seconda metà del 5° secolo. La chiesa posteodoriana meridionale (chiamata anche postattilana da coloro che la ritengono della seconda metà del sec. 5°) fu abbandonata dal patriarca al momento dell'occupazione longobarda (568) e tale rimase per ca. due secoli, cioè fino a quando il patriarca Massenzio riportò la sede del suo vescovado ad Aquileia. L'anno della sua nomina a patriarca (811), Massenzio ricevette da Carlo Magno parte dei beni confiscati molti anni prima (776) a nobili longobardi, allo scopo di ristrutturare la basilica. Egli intervenne soprattutto nelle zone orientale e occidentale del vecchio edificio posteodoriano. Nella zona orientale, a ridosso del muro di testata (all'interno dello stesso), fu costruita l'abside semicircolare. Il muro stesso di testata fu ridotto all'estensione dell'abside, con la costruzione, aggiuntiva, di due tratti di muro, ortogonali alla testata, che racchiudono l'abside stessa, ritagliando in questo modo i due angoli nord e sud del lato orientale del precedente edificio. Fuori del perimetro dello stesso fece costruire le due cappelle laterali absidate, che fungono da transetto. Poiché, quali ora si vedono, queste due absidi e la centrale furono rialzate in età popponiana (sec. 11°), è evidente che alla loro base esse sono prepopponiane e l'ipotesi più attendibile è che si debbano ritenere massenziane, in quanto l'intervento di Massenzio è l'unico documentato in età prepopponiana. Per coloro che accettano questa cronologia è coerente ritenere che anche la cripta sia parte del progetto di Massenzio. Infatti il muro curvilineo orientale della cripta è la struttura di sostegno dell'attuale abside centrale; pertanto se il giro inferiore di quest'ultima è massenziano, non può essere posteriore al sec. 9° il muro sottostante della cripta. Quest'ultimo è strettamente legato alle volte lunettate della cripta medesima (Verzone, 1942, che peraltro data la cripta al sec. 10°). Pertanto sembra che tutta la cripta sia da datare al sec. 9°, il che è corroborato dalla presenza dei capitelli c.d. 'carolingi', posti sulle colonne che dividono il vano in tre navate. Si accedeva al presbiterio, rialzato sopra la cripta, tramite due scalinate e, probabilmente, qui era una recinzione ottenuta con plutei che, in parte, potrebbero essere quelli che ora sono posti nella cappella meridionale del transetto, quella di S. Pietro: quattro plutei chiaramente 'carolingi'.Il pavimento del presbiterio è decorato da un sistema misto di mosaico e lastre marmoree, in buona parte rifatto, attribuito a età massenziana (Dalla Barba Brusin, Lorenzoni, 1968, p. 23) e più recentemente al sec. 11° (Barral i Altet, 1975; 1977). Al culmine del giro absidale è posta la cattedra vescovile, i cui gradini presentano decorazioni 'carolinge' attribuibili dunque a età massenziana. Alla stessa impresa sono stati assegnati altri frammenti scultorei, tra i quali giova ricordare il frammento riconosciuto come decorazione della cattedra vescovile (Tavano, 1972).La seconda zona di intervento di Massenzio fu l'occidentale. Il patriarca fece costruire l'edificio posto tra l'atrio della basilica e il battistero: è la c.d. chiesa dei Pagani, che in origine era costituita da tre vani; due al piano terra, ancora esistenti, distinti da un diverso sistema di copertura e dalla differenza di livello del pavimento, e uno al piano superiore, demolito. Il primo dei due esistenti, verso E, è a pianta quadrata, coperto da calotta raccordata da trombe d'angolo; l'altro vano è a pianta rettangolare con volta a crociera. La struttura muraria appare elaborata da una piccola serie di nicchie. Il vano superiore, distrutto nel sec. 18°, era in collegamento con la parte alta del battistero, dove correva una sorta di ballatoio, con accesso tramite scale a O del battistero stesso; secondo la testimonianza di Bertoli (1739), in questo vano erano presenti alcune decorazioni pittoriche, rappresentanti una Crocifissione, dall'iconografia particolare, e i quattro evangelisti, che presentavano al posto della testa il loro simbolo. Secondo Zovatto (1943) questo vano superiore poteva essere stato adibito a catechumenium (luogo di istruzione dei catecumeni), il vano a pianta quadrata a consignatorium (luogo di amministrazione della cresima) e quello a pianta rettangolare a vestiarium per i battezzandi.Sulla struttura massenziana della basilica intervennero, ca. due secoli dopo, i patriarchi Giovanni e Poppone. Forse le invasioni ungariche e un terremoto, allo scadere del primo millennio, danneggiarono la basilica: l'imperatore Ottone III, nel 1001, concesse benefici al patriarca Giovanni per il restauro della sua cattedrale. I lavori, cominciati probabilmente da Giovanni, furono portati a termine dal suo successore Poppone: la nuova basilica fu inaugurata il 13 luglio 1031 secondo quanto afferma l'iscrizione dipinta nell'abside. La struttura di base dovette rimanere quella di Massenzio; l'impresa di Giovanni e Poppone coinvolse soprattutto le parti alte della basilica, forse danneggiate dal terremoto. Si procedette all'innalzamento dell'abside centrale e delle due absidi delle cappelle del transetto, insieme con quello di tutta la basilica, con la creazione di una serie di nuovi capitelli del naós, che sono interpretazioni di capitelli classici corinzi. Si completò l'opera di ampio restauro con la decorazione pittorica dell'abside centrale. Nell'ultimo quarto del sec. 13° si aperse, nella navata meridionale, la cappella Torriani, voluta dal patriarca Raimondo della Torre (1273-1299) come luogo di sepoltura per sé e per i suoi. Intorno alla metà del sec. 14° la basilica venne danneggiata da un terremoto: il patriarca Marquardo (1365-1381) la restaurò, ricostruendo la parte alta del naós, dai capitelli popponiani in su. Sono di questo tempo gli archi acuti del naós. A N della basilica è il grande campanile, la cui costruzione è stata attribuita al patriarca Poppone, anche sulla base della testimonianza offerta dalla sua iscrizione sepolcrale (Tavano, 1972, pp. 107-108). Le fondamenta di questo campanile occupano parte dell'area dell'aula settentrionale paleocristiana. La sua struttura muraria sembra sia stata eseguita, almeno secondo una tradizione, con i conci dell'anfiteatro romano (si tenga presente che la parte alta della cella campanaria è opera del sec. 15°). Si sono suggerite varie ipotesi per quanto riguarda l'origine stilistica di questo campanile: vi si sono viste influenze germaniche, orientali, ecc. (Tavano, 1972).All'interno della basilica si trova, nella navata settentrionale, una piccola struttura architettonica, il Santo Sepolcro. È una costruzione a pianta circolare, in conci di marmo greco, coperta da un tetto a cono (moderno); all'interno un arcosolio con una sorta di tomba, il cui coperchio è segnato da tre incavi circolari (il centrale con un ulteriore incavo, che produce un foro nella lastra) e un altare. È una rappresentazione simbolica di parte del complesso del Santo Sepolcro di Gerusalemme (Dyggve, 1953; Piussi, 1977): la sua presenza è documentata nella seconda metà del sec. 11°; la sua costruzione è stata attribuita a Poppone. Si qualifica per la purezza geometrica dell'impianto, coerente con la scelta del materiale, appunto il marmo greco, che rifrange la luce, negando la possibilità di contrasto chiaroscurale. Ebbe funzione liturgica per i riti pasquali.L'opera di ampio restauro degli inizi del sec. 11° si completò con la decorazione pittorica dell'abside centrale: nel semicatino la Madonna in trono, dentro la mandorla, con i simboli degli evangelisti, tra i patroni di A. Ermagora, Fortunato ed Eufemia da una parte e Taziano, Ilario e Marco dall'altra. Tra i primi tre santi sono dipinte le immagini, più piccole, di Enrico III, Corrado II il Salico e di sua moglie Gisella; tra gli altri tre, quelle di Poppone, rappresentato con il nimbo quadrato e il modello della chiesa in mano, e di Enrico II (Cavalieri, 1976). Nel semicilindro sono rappresentati i santi Crisogono, Felice, Fortunato, uno non identificato, Largo, Dionisio, Primicerio e Anastasia. Al di sotto corre l'iscrizione dedicatoria, rifatta probabilmente nel 14° secolo. Una zoccolatura a finti riquadri marmorei conclude la decorazione. Essa fu coperta nel sec. 18°, riscoperta nel 1896 e restaurata nel 1921. Quanto a pigmento pittorico appare piuttosto scaduta. Essa rivela unicità di cultura nel suo complesso, ma anche qualche differenza tra quella del semicatino e quella del semicilindro, i cui martiri appaiono più gracili figurativamente rispetto alla parte superiore. Lo stile, l'iscrizione, la presenza delle figure imperiali e di Poppone portano la datazione agli anni intorno al 1030. Oggi si nota una certa preferenza a catalogare come 'ottoniano' questo complesso decorativo, anche se diversi sono i riferimenti (Reichenau, Galliano, miniature del codice di Egberto di Cividale, ecc.).La cappella settentrionale presenta nell'abside un affresco raffigurante i ss. Ilario, Taziano e Largo (la figura di quest'ultimo è assai ridipinta), caratterizzati da un sottile e acuto grafismo che mira all'appiattimento delle forme. Questa decorazione è stata variamente datata dalla fine del sec. 11° alla seconda metà del successivo.Nella cripta un'estesa decorazione pittorica ricopre le pareti, tranne l'occidentale, le volte e i piedritti degli archi. Nelle cinque lunette che articolano la parete semicircolare orientale sono rappresentate la Dormitio Virginis, la Crocifissione, le Storie di s. Marco, la Deposizione dalla croce e il Pianto su Cristo morto. Al di sotto corre un velario dipinto, oggi esistente solo sotto le due ultime scene citate. La volta della navata centrale presenta al centro la Madonna in trono con il Bambino tra i simboli degli evangelisti e Cristo tra angeli. Seguono, anche sulle altre volte, le Storie dei ss. Ermagora e Fortunato. Completano la decorazione figure di santi sui piedritti degli archi e vari elementi decorativi (clipei con angeli, ecc.). Questo complesso decorativo è stato variamente datato dagli inizi del sec. 12° agli inizi del 13° e, soprattutto per le scene della Passione, si è rilevato un apporto bizantino, evidente nel puntuale linearismo che le contraddistingue. Il problema si fa più difficile quando si voglia specificare di che bizantinismo si tratti: da una generica maniera italo-bizantina (Van Marle, 1923; Anthony, 1951) si passa a un confronto più determinato con le pitture del S. Pantaleimone (1164) di Nerezi in Macedonia (Grabar, 1958; Magnani, 1960) o con mosaici veneziani o di cultura veneziana (Toesca, 1925-1926; Morassi, 1933; Dalla Barba Brusin, Lorenzoni, 1968; Morgagni Schiffrer, 1972); ma anche quando si sia suggerito un confronto con opere veneziane, il problema cronologico rimane aperto, in quanto dipendente dalla cronologia che si ipotizza per le pitture veneziane. Così, pur facendo riferimento alle stesse opere veneziane, si suggerisce la data alla prima metà del sec. 12° (Dalla Barba Brusin, Lorenzoni, 1968) o alla seconda metà dello stesso secolo (Morgagni Schiffrer, 1972). Dunque c'è accordo di massima nell'individuare un apporto bizantino per le scene della Passione, ma c'è divergenza nello specificare tale bizantinismo e nella definizione cronologica.Anche se, probabilmente, questa decorazione fu assunta da un'unica impresa, certamente vi lavorarono più maestri. Il più alto qualitativamente sembra essere l'autore delle scene della Passione, mentre meno originali appaiono i maestri delle Storie dei ss. Ermagora e Fortunato; differenze non solo di qualità ma forse anche di cultura, che in questo caso sembra afferire al mondo occidentale. Si è tentato di specificare l'origine di tale occidentalismo. Un tentativo è stato fatto da Demus (1959) che ha visto in Salisburgo l'origine di certe maniere presenti nella cripta di A. (Morgagni Schiffrer, 1972). Ancora Demus (1959) ha visto un rapporto con la cultura salisburghese a proposito del velario dipinto; ma mentre c'è un accordo nella definizione di 'occidentale' per tale velario, il legame con la cultura pittorica della città austriaca è messo in dubbio (Morgagni Schiffrer, 1972).Oltre ai plutei 'carolingi' della cappella di S. Pietro, è da menzionare la lastra marmorea con Cristo tra i ss. Pietro e Tommaso di Canterbury, nel transetto settentrionale: era in origine la lastra dell'altare, dedicato all'arcivescovo di Canterbury, posto tra le scalinate d'accesso al presbiterio. La lastra presenta figure di efficace rozzezza compositiva (fine sec. 12°). Nella cappella Torriani vi sono alcune tombe anepigrafe, attribuite a personaggi della famiglia dei della Torre e precisamente, da destra verso sinistra, a Raimondo (patriarca dal 1273 al 1299, opera di maestro veneziano del 1299-1300; Wolters, 1976, p. 18), a Pagano (1318-1332), a Rainaldo (tesoriere della basilica, m. 1332) e a Ludovico (1359-1365). Agli anni intorno al 1330 sono da attribuire la tomba delle Quattro vergini, nel transetto meridionale, l'Annunciazione, nel transetto meridionale, e la tomba o lastra d'altare dei Canziani, nel transetto settentrionale (Wolters, 1976, nrr. 18, 21, 19).
È stato ricavato nell'ambito della chiesa del monastero delle monache benedettine, documentato a partire dal sec. 9° e soppresso nel 1782. Tale chiesa risale, quanto a fondazione, al sec. 4°: a navata unica con abside all'esterno poligonale, all'interno semicircolare, con pavimento musivo. La chiesa fu successivamente rifatta, probabilmente nel sec. 5°, con un nuovo pavimento musivo. Secondo Bertacchi (1980, p. 241) in questa occasione si procedette alla ripartizione in tre navate, tramite coppie di pilastri; secondo Tavano (1972, pp. 138-139) la suddivisione in navate è da datare al sec. 9°, proposta che si basa soprattutto sull'esame dei capitelli che sembrano eseguiti per i pilastri stessi. Detti capitelli, con caulicoli resi con uno stile di taglio netto, paiono altomedievali piuttosto che tardoantichi. Un successivo restauro è da datare al tempo del patriarca Giovanni (984-1019). Dopo la soppressione del monastero del 1782, l'edificio venne adattato a funzioni ben diverse dalle originali; di qui l'impossibilità di una attenta lettura delle varie parti esistenti. Così, per es., è di difficile datazione l'avancorpo della chiesa, dove oggi è gran parte del museo, fondato nel 1961. Esso contiene, oltre ai mosaici della chiesa paleocristiana, nelle sue due edizioni, altri mosaici paleocristiani. Per quanto riguarda la storia dell'arte medievale, esso ha notevole rilevanza per i numerosi pezzi di scultura altomedievali che vi sono raccolti.
Per patriarcato di A. s'intende, geograficamente, l'area delle diocesi suffraganee del patriarca stesso. Si conosce con precisione l'estensione di tale area nel 12° secolo. Il patriarca Pellegrino I ottenne dal papa Innocenzo II una bolla con la descrizione delle diocesi delle quali A. era sede metropolitica. Pertanto nel sec. 12° erano suffraganee del patriarca di A. le diocesi di Como e Mantova in Lombardia, di Concordia, Belluno, Ceneda, Feltre, Treviso, Padova, Vicenza e Verona nel Veneto; di Trento; di Trieste, Pola, Parenzo e Cittanova nella Venezia Giulia e Istria (alla fine dello stesso secolo si aggiungerà anche Capodistria). La giurisdizione metropolitica aquileiese si estendeva anche sulle abbazie di Moggio, di Rosazzo, della Beligna, di Sesto al Reghena in Friuli, di S. Maria in Organo di Verona e di Pero nel Trevigiano.Secondo un'interpretazione in chiave politica, il patriarcato di A. può assumere dimensioni diverse se lo si considera limitatamente all'area nella quale il patriarca ebbe un effettivo potere politico oltre che religioso. Già a partire dallo scorcio del sec. 10° si può parlare di 'principato', anche se è nella seconda metà del sec. 11° che il patriarca Sigeardo ottenne dall'imperatore Enrico IV il comitato del Friuli. Il successore di Sigeardo, Enrico, ebbe in possesso feudale Trieste e Parenzo e qualche anno dopo il patriarca Wodolrico ebbe il vescovado di Parenzo.Da un punto di vista storico-artistico le varie produzioni dell'area delle diocesi suffraganee di A. non possono considerarsi come un tutto unitario e nemmeno come dipendenti dal centro del potere religioso.Una certa influenza aquileiese è forse possibile riscontrare in opere eseguite in aree vicine ad A., approssimativamente nella zona del principato, ma anche per queste non è corretto proporre un discorso unitario. Si deve considerare caso per caso, per verificare se e in che misura è possibile far riferimento a dipendenze stilistiche dal centro del patriarcato, dato anche il complesso e articolato sovrapporsi di più influenze nella stessa Aquileia.
Bibl.:
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