AQUINO, Francesco Maria Venanzio d', principe di Caramanico
Nato a Napoli il 27 febbr. 1738 da Francesco, duca di Casoli. La sua introduzione a corte, avviata assai per tempo, fu come la naturale conseguenza di una gioventù consumata nella pratica della vita mondana. Sposò intorno al 1770 donna Vittoria, duchessa di Maddaloni e vedova di Carlo Carafa.
Fra gli esponenti più in vista della massoneria, fu venerabile della "Loggia della Vittoria". In questa sua qualità capeggiò un movimento di Liberi Muratori i quali, sostenendo la necessità di una completa indipendenza dalle logge di Londra, finirono col fondare una nuova "Loggia Nazionale", che strinse legami con quelle di stretta osservanza della Germania e del Grande Oriente di Parigi. Dopo il decreto del settembre 1775 contro i Liberi Muratori provocato dal Tanucci, l'A. vietò le adunanze in attesa di tempi migliori, curando però che gli affiliati non perdessero i contatti fra di loro e approfittando della stasi forzata per mandare ad effetto un piano di epurazione di tutti gli elementi non desiderabili. Nel corso del 1776 intervenne però energicamente, sostenuto dai più cospicui esponenti della massoneria europea, in favore dei frammassoni fatti arrestare dal Tanucci nella cosiddetta "sorpresa di Capodimonte" con cui si mirava - mediante l'arresto di militanti di secondo piano - a compromettere indirettamente la regina frequentatrice di logge massoniche, bloccandone le iniziative tendenti a sganciare il Regno di Napoli dalla tutela spagnola. In appoggio all'azione dei frammassoni napoletani giunsero a Napoli, nell'aprile di quell'anno, il cognato di Maria Carolina principe Alberto di Sassonia-Teschen e, nel giugno successivo, la duchessa di Chartres, moglie dei Grande Oriente francese. Fu così che l'A., già annoverato dalla voce popolare fra gli amanti della regina (dei cui favori in ogni caso godè a lungo), riuscì ad associarla strettamente alla causa dei frammassoni perseguitati; e la lotta contro il Tanucci condusse alla sua caduta e alla liberazione degli arrestati. L'episodio servì a rinsaldare e ad estendere i legami dell'A., già così felicemente avviati, con i circoli massonici europei. Di conseguenza quando, entrato nella carriera diplomatica dovette rinunciare, se non altro sul piano dei rapporti ufficiali, alla carica di Gran Maestro, era già noto nel gran mondo londinese e parigino.
Fu ambasciatore del Regno di Napoli a Londra dal 1780 al 1784 e a Parigi dal 1784 al 1786. In effetti il suo soggiorno parigino durò solo dall'ottobre del 1784 al gennaio del 1785. Egli lasciò a lungo vacante la sede di cui era titolare, manifestando il desiderio di essere destinato alla corte di Madrid. Probabilmente lo offendeva la presenza del Bressac, un francese agente dell'Acton e da questi investito direttamente di incarichi di natura assai delicata e di stretta competenza dell'ambasciatore, il quale in tal modo veniva ad essere scavalcato. P, ancora da precisare in che misura poi il soggiorno londinese e la rapida esperienza degli affari parigini abbiano contribuito alla formazione dell'Aquino. Egli iniziava il suo soggiorno all'estero a 42 anni, con una sua formazione già consolidata, la formazione dell'uomo di corte e del dirigente di logge massoniche, aperto a contatti europei. E furono, quelli, anni di esperienze dirette di società in stato di più avanzata fermentazione, e che valsero a richiamare su di alcuni problemi essenziali della vita associata del tempo l'attenzione dell'A., formatosi nei salotti dell'alta società napoletana dove la comprensione delle esigenze più profonde del paese faceva difetto e l'attività politica sapeva troppo di cabala e di intrigo di corridoio. Tali esperienze venivano mediate dal felice ed equilibrato empirismo politico dell'A., dalla sua forma mentale di uomo di mondo, aliena da schematismi seppure assai sensibile al richiamo di motivi ideali che con estrema naturalezza venivano trasfusi nell'azione.
Già insignito dell'ordine di S. Gennaro, membro del Consiglio di stato, venne destinato nel 1786 a succedere al Caracciolo nella carica di viceré di Sicilia.
Non è da escludere quanto varie fonti insinuano: che cioè l'Acton suggerisse il provvedimento in quanto mirava ad allontanare da Napoli l'A., benvisto dai sovrani, popolarissimo e destinato, qualora fosse rimasto nella capitale, ad una carriera sicuramente assai più brillante della sua. Certo è però che alla nomina dell'A. contribuì in modo decisivo il Caracciolo, già suo predecessore a Parigi e desideroso di assicurare una effettiva continuità alla sua opera di riformatore in Sicilia.
Tradizionalmente la letteratura sull'argomento ha contrapposto in maniera rigida alla figura del Caracciolo quella dell'A., fino a ridurre la diversità di temperamento dei due riformatori al ruolo di elemento di differenziazione di due politiche, l'una radicalmente contraria all'altra. Impetuoso ed "astrattamente giacobino" il Caracciolo, incapace di adeguarsi alla realtà concreta dell'isola; moderato e conciliante l'A., vero cultore della "politica del sorriso", più aderente alla varietà delle situazioni. Vero è che i due riformatori avevano indole diversa. Basta esaminare i modi differenti con cui avevano assimilato i motivi e le esperienze dell'Illuminismo europeo. Il Caracciolo si era abituato a considerare la società come il mobile risultato dell'urto di blocchi ognuno dei quali era rigidamente chiuso e inaccessibile, e ne aveva ricavato saldo convincimento per una azione decisa m direzione di riforme radicali da elargire dall'alto in nome di sacri principi. L'A., la cui analoga saldezza di convincimenti era indiscussa, possedeva un senso più duttile della materia sulla quale bisognava agire: oltre ai principi vedeva gli uomini con le loro esigenze. La sua mentalità nel fondo era rimasta, nonostante la presa di coscienza di più vasti problemi sociali in conseguenza dei soggiorni all'estero, quella dell'uomo formatosi a corte, che nella pratica quotidiana dei mondo tende a dare un rilievo assai spiccato all'azione del singolo individuo, azione variabile a seconda dei suoi umori e momentanei stati d'animo. Pertanto l'A. era meno consequenziario del Caracciolo, a parte la pigrizia e la tendenza al lasciar fare; difetti che gli sono stati rimproverati, unitamente alla qualità della sua preparazione, definita più varia che profonda. Per il resto, dal carteggio fra i due non risulta che la diversità di temperamento influisse sui loro rapporti. L'intesa continuò fino alla morte del Caracciolo, con sostanziale identità di vedute.
Le riforme del Caracciolo avevano avuto il grande merito di introdurre in Sicilia elementi catalizzatori in una situazione caratterizzata da uno stato di estrema disgregazione e confusione; avevano creato centri di propulsione e di chiarificazione anche sul piano delle idee. Era bastato che il Caracciolo correggesse abusi e ingaggiasse una lotta contro le usurpazioni di funzioni e di proprietà, era stato sufficiente ridurre il potere dell'aristocrazia entro i limiti della legalità, perché essa incominciasse ad avvertire con maggiore consapevolezza il vuoto che derivava dallo squilibrio fra le sue funzioni giurisdizionali e i vincoli feudali da un lato, e dall'altro il suo effettivo potenziale economico bisognoso di una maggiore elasticità di movimento, una volta che erano crollate tutte quelle bardature parassitarie che contribuivano ad allontanare o addirittura a celare i sintomi della crisi.
In tal senso andrebbe interpretato lo stato d'animo di sollievo e di gioiosa attesa dei nobili quando il 21 apr. 1786 l'A. sbarcò a Palermo. Erano certo ben note le sue maniere concilianti, la sua maggiore elasticità mentale. Ma in effetti si era ormai ad una svolta negli sviluppi della crisi sociale dell'isola; le riforme avevano acceso nuove esigenze, e questa nobiltà umiliata, mutilata nei suoi redditi e dilettante ancora di una visione chiara dell'avvenire, pretendeva quasi che fosse dall'alto lo stesso potere regio ad "aggiustare" la situazione, a risolvere i suoi problemi. Non aveva ancora ritrovato la propria strada. Questo atteggiamento spiega anche perché i primi atti di governo dell'A. parvero allinearsi sulla falsariga tracciata dal Caracciolo, e senza variazioni.
Così egli pose fin dall'inizio decisamente la questione dell'abrogazione totale delle prerogative del "mero e misto imperio" dei baroni, i quali erano disposti ad accettare solo una sua parziale riduzione. In questo l'A. era sostenuto senza riserve dalla corte, anche se i tempi non erano ancora pienamente maturi per una riforma che colpiva a morte il baronaggio anche all'interno del feudo, nelle sue attribuzioni di governo. E molta durezza si nota anche in altri provvedimenti iniziali di minuta amministrazione.
Con dispaccio del 17 luglio 1786, compilata una tariffa ufficiale per il conferimento degli uffici giudiziari nei feudi, obbligò i baroni ad attenervisi, evitando così che potessero esigere tasse arbitrarie. Allo scopo di aprire nuove strade lastricate nella capitale e di provvedere alla manutenzione di quelle già esistenti, provocò l'emanazione di un dispaccio reale con cui si prorogava la tassa sulle carrozze, tassa che al tempo della sua prima imposizione era stata accolta da un coro di proteste e mormorazioni, ma che ora, da una nobiltà già assuefattavi e priva dell'energia di un tempo, veniva accettata anche perché se ne constatavano tangibilmente i benefici.
Il 3 luglio 1786 si era riunito il Parlamento triennale: in tre giorni erano stati votati tutti i donativi ormai consueti e per la durata di altri quattro anni il donativo imposto straordinariamente a riparazione dei danni provocati dal terremoto di Messina. I baroni non ebbero la forza di opporsi alla proposta avanzata dal braccio demaniale, di una rettifica del censimento, ai fini di una più equa distribuzione delle imposte: ormai i rapporti di forza avevano subito notevoli spostamenti. Il Caracciolo ebbe a congratularsi vivamente con l'A. per l'ottenuta approvazione del progetto di catasto; e in fondo il nuovo vicerè, anche in questa circostanza, non aveva fatto che raccogliere, con tatto più avvertito, i frutti di quanto il suo predecessore aveva seminato. Fu respinta la proposta dei baroni di porre un limite al lusso crescente; e ciò per tema che il commercio avesse a soffrirne. All'unanimità fu approvata la prescrizione centenaria per mettere fine alle eterne liti giudiziarie che creavano incertezze nel campo dei possessi di proprietà e ne limitavano il valore. Una ulteriore prova dello scemato prestigio della nobiltà venne fornita dai mutamenti apportati ai criteri per la elezione dei dodici deputati dei Regno. In precedenza, tre deputati venivano nominati dai tre capi dei bracci, mentre i rimanenti nove erano eletti dall'intero Parlamento, quasi sempre fra membri di famiglie baronali. Per salvare le apparenze venivano anche scelti due o tre deputati provenienti dal braccio demaniale. Ora era il re che sceglieva i deputati, e fra gli eletti solo quattro appartenevano all'aristocrazia.
Ancora sulla scia della precedente amministrazione, l'A. il 5 sett. 1786 soppresse gli ultimi conventi dei regolari sopravvissuti ai provvedimenti del Caracciolo. Con provvedimento di emergenza, allo scopo di ovviare alla penuria di bovini assai sensibile in quell'anno, ne fu fatto un prelevamento a Tunisi e venne in tal modo bloccata la tendenza al rincaro delle carni. Venne migliorata la viabilità interna dell'isola, che il viceré si proponeva di visitare personalmente per rendersi meglio conto delle sue condizioni.
Gli anni 1786 e 1787 furono caratterizzati da un vasto movimento di comuni feudali che, incoraggiati dalle recenti disposizioni del Caracciolo, si riscattavano o impugnavano la giurisdizione giudiziaria, e miravano a liberarsi del peso di gabelle, dogane e dazi introdotti abusivamente dai baroni, nonché a fare annullare il cumulo secolare dei diritti privativi e proibitivi imposti dagli stessi. Non mancò l'A. di cogliere l'occasione per intervenire direttamente e accelerare i tempi, traendo dall'esame di casi particolari lo spunto per disposizioni legislative che affrontavano radicalmente i problemi. Avendo i cittadini di Motta d'Affermo mosso lite sul diritto proibitivo dei trappeti (frantoi) reclamato dal principe di Torremuzza, l'esempio trascinò le popolazioni di Susa, Naro, Ficarra, Pettineo, Castelnuovo, che rivendicarono nei confronti dei rispettivi baroni il riscatto dello stesso e di altri diritti proibitivi. Sul piano legale il principe di Torremuzza non era in grado di far valere le proprie argomentazioni. Riuscì però a provocare una sentenza del Tribunale del Real Patrimonio che sospendeva il corso del reclamo dei cittadini di Motta d'Affermo per vizio di procedura, inficiando per analogia il corso di numerose altre cause del genere. Con dispaccio dell'8 nov. 1788, l'A. tagliò corto: estese alla Sicilia le disposizioni in vigore nel Regno di Napoli, abrogando ogni sorta di diritti privativi dei baroni i quali, semmai, potevano dimostrare - impresa ardua! - di averne ottenuto la concessione al momento dell'investitura del feudo. Un decreto dell'aprile 1787 estese alle cause feudali la stessa procedura di quelle allodiali, compromettendo i privilegi del baronaggio nei tribunali e mettendo in discussione l'inamovibilità dei beni feudali. Il 14 nov. 1788 i feudi siciliani vennero dichiarati giuridicamente uguali a quelli napoletani, e quindi passibili di riversione al fisco, nel caso che il feudatario fosse rimasto privo di prole e di legittimi successori in grado. Infine, con ordinanza del 4 maggio 1789, venivano abolite le servitù personali, anche in via temporanea. Scompariva così ogni residuo di servitù della gleba. Il 5 dic. 1789 su incarico del governo vennero compilate da T. Natale, nominato per l'occasione maestro razionale del Tribunale del Real Patrimonio, le Istruzioni per la censuazione dei demani comunali. Fu istituita a tale scopo una Giunta delle censuazioni che, anche se per difficoltà obiettive sopraggiunte non poté condurre a termine il proprio compito, diede un contributo al rinnovamento di limitate zone della campagna soprattutto nella Sicilia occidentale. Altri considerevoli sforzi vennero effettuati sempre in vista del riassesto dei bilanci comunali. Si cominciò innanzitutto col sottoporre a controllo gli atti del Senato di Palermo, imponendo economie di bilancio. Meditava inoltre l'A. una riforma della Giunta di Sicilia, baluardo a Napoli del potere baronale; e intanto nel 1790 il re nominava, alla presidenza della Giunta il marchese di Regalmici, persona in linea con i nuovi tempi, scavalcando il parere consueto della Deputazione del Regno, che protestò inutilmente. A F. P. Di Blasi il viceré aveva affidato il riordinamento delle prammatiche del Regno, in vista di una riforma dei Codici.
In questa fase della sua azione antifeudale l'A., che aveva potuto usufruire dei consigli e dell'appoggio costante e leale del consultore Simonetti, mirò ad allargare il raggio della propria influenza fra gli intellettuali, chiamandoli a cooperare all'attuazione delle riforme e al progresso dell'isola. Il Balsamo venne chiamato alla cattedra di agricoltura presso l'accademia degli studi di Palermo, come pure il Gregorio, che, aiutato anche finanziariamente nei suoi studi, venne incaricato della cattedra di diritto pubblico. La riforma dell'università di Catania venne condotta a termine. Nel campo dell'istruzione secondaria si procedette al riordinamento del collegio "Cutelli" di Catania, destinato ai giovani nobili; analoghi istituti vennero fondati nei maggiori centri di provincia. Nel 1788 il De Cosmi ebbe l'incarico di istituire alcune scuole normali per la preparazione dei futuri insegnanti elementari. Il provvedimento, che riscosse larghi consensi tra l'elemento cittadino, incontrò l'ostilità dei baroni, timorosi del fatto che l'istruzione potesse rendere il popolo sempre più cosciente dei suoi diritti. L'A. dovette intervenire a richiamarli con ordine regio del 13 apr. 1789. Con decreto vicereale dei dicembre 1790 si prescriveva l'uso della lingua italiana negli atti pubblici dei tribunali del Regno in sostituzione del latino. E dappertutto il viceré valorizzava gli elementi locali più illuminati, strappandoli a viva forza a studi che in quella fase di ebollizione avrebbero finito col rivelare, alla verifica della praúca, un che di stantìo.
Eppure, col Parlamento tenutosi dal 9 al 17 sett. 1790, si avverte che una situazione diversa va maturando. Intanto, emergeva un dato di fatto incontestabile: la riforma tributaria ai fini della perequazione dei pubblici pesi, nonostante la pubblicazione delle norme necessarie per il catasto, non aveva ancora trovato un inizio di attuazione. L'opposizione dei baroni aveva in una certa misura dissuaso l'A., il quale, anche per le difficoltà finanziarie che l'iniziativa comportava, aveva finito col proporre all'Acton di servirsi del progetto di catasto allo scopo di intimidire i baroni e strappare loro donativi più cospicui. Affiorava così, nell'attività del viceré, un fiscalismo rivolto a rastrellare ricchezze, tipico della politica dell'assolutismo illuminato, e che ne costituiva anche uno dei limiti più pronunciati. Ora l'A., in preparazione del Parlamento, tornava ad insistere con l'Acton sulla necessità di soprassedere per il momento in materia di catasto e di prendere invece in parola le buone disposizioni di tutti i ceti in materia di donativi. Significativi d'altra parte i silenzi dell'Acton su proposte dell'A. non ancora del tutto adeguatosi, anche nel linguaggio, alla situazione che si andava profilando. Alla fine il vicerè decise di aprire la sessione già prorogata, senza attendere risposta.
Furono riconfermati i donativi ordinari e straordinari triennali e novennali, giusta la proposta dei re. Inoltre i baroni, d'accordo col braccio ecclesiastico, si addossarono il pagamento di 80.000 scudi l'anno, per venire incontro alla richiesta dei re di colmare la diminuzione di contributi stabilita per le università che versavano in rovinose condizioni finanziarie. Anzi, perché queste godessero di un ulteriore alleviamento, furono questa volta i baroni stessi a riproporre il ripristino dell'appalto del tabacco, già sostituito da un donativo gravante in misura particolare sulle unìversità. E con premura sospetta fu richiesto che si attuasse con la massima sollecitudine il catasto secondo i criteri adottati nel 1714: richiesta mirante ad impedire un'equa ripartizione dei tributi, in quanto il censimento del 1714 non registrava i beni feudali e burgensatici della nobiltà e del clero. Anche la proposta di ripartire i tributi fra tutti indistintamente i comuni del Regno, feudali e denuniali, in base a quanto possedevano gli abitanti, in sede di attuazione naufragò poi nelle secche di una lunga discussione fra Giunta di Sicilia e governo. Il re manifestò il suo compiacimento per l'apparente condiscendenza, che pur sul piano di semplici accorgimenti tattici rivelava i primi tentativi di elaborazione di una politica del baronaggio adeguata alle nuove circostanze. Per quanto riguarda altre richieste a favore dei baronaggio il re si mantenne sulle generali, così come dichiarò che avrebbe tenuto in considerazione in caso di bisogno la proposta di includere nel Consiglio di finanza di Napoli uno dei tre membri siciliani della Giunta di Sicilia. Contro tale proposta l'A. reagì energicamente, in quanto tendeva ad istituire un sindacato su questioni che erano di pertinenza regia.In effetti, un revirement della corte a seguito degli avvenimenti di Francia si andava manifestando. Ma la verità è che oltre certi limiti l'opera dell'assolutismo illuminato non poteva procedere, nel Regno di Napoli come altrove. È quanto aveva cominciato a comprendere l'A. soprattutto dopo il Parlamento del 1790. Egli dovette rendersi conto che i propositi di riforme, oltre gli obiettivi raggiunti nei primi anni di govemo, rischiavano sempre più di girare a vuoto ad ogni tentativo di realizzazione perseguito con i metodi consueti; e ciò non solo per le resipiscenze della corte, ma soprattutto per la struttura stessa della società isolana. Ai fini di una sua più profonda radicale trasformazione quale era stata vagheggiata dal Caracciolo nei suoi slanci di illuminista pieno di fede nel trionfo della ragione e dall'A. stesso all'atto dell'assunzione della carica di viceré - tutto veniva ormai a mancare: base sociale solida e coerente su cui far leva; appoggio conseguente della monarchia; mezzi finanziari per sopperire al costo delle riforme. Donde, nell'A., un possibilismo sempre più accentuato, che oltretutto gli permise - nonostante le mene dell'Acton - di rimanere per nove anni al suo posto. In mancanza di una borghesia consistente e consapevole dei propri fini, il suo atteggiamento conciliante nei confronti della nobiltà aveva uno scopo ben determinato: dopo averla umiliata e prostrata come classe sociale, assorbime molecolarmente gli elementi più preparati per fame un ceto dirigente rispondente ai nuovi compiti. Dopo il 1790 l'azione dell'A. contro l'aristocrazia si affievolisce perché egli stesso ne ha bisogno per consolidare quanto già realizzato. La sua stessa attività di mecenate e di frequentatore assiduo di accademie gli consentiva di cogliere e di ravvivare fermenti liberaleggianti in seno alla parte intellettualmente più progredita della nobiltà, vieppiù proclive ad un orientamento anglofilo che tendeva a saldare i motivi della tradizione parlamentare siciliana all'esperienza costituzionale inglese. I suoi interessi culturali e i suoi contatti con intellettuali gli servivano per fare opera di amalgama e di chiarificazione, nei confronti di tutto un movimento che attraverso un cammino tortuoso approderà alla costituzione dei 1812. E molto deve averlo aiutato, in tale opera, la sua esperienza delle logge massoniche dove insieme erano andati a convivere nobili e borghesi. Pur non ricoprendo ormai, per quel che risulta dalla documentazione, cariche ufficiali, egli dovette, forse proprio per questo, agire con estrema larghezza di impostazione. Da un lato, valendosi del suo potere, egli favoriva la diffusione dell'organizzazione; dall'altro mirava per il suo tramite a convogliare in un unico larghissimo movimento quanti in Sicilia nutrivano tendenze innovatrici, senza troppo curarsi delle provenienze. P, per questo motivo che in un documento vaticano (Catalogo dei Liberi Muratori di Sicilia) accanto all'A. figurano uomini come mons. S. Ventimiglia, già vescovo di Catania e noto giansenista.
Dopo il 1790, d'altronde, l'atteggiamento dell'Acton, prima ancora che dei sovrani, diviene sempre più circospetto ed evasivo nei confronti del viceré. Gradualmente, al silenzio su questioni scottanti di governo avanzate dall'A., subentra il diniego; e nel corso degli ultimi anni la sua corrispondenza amministrativa si fa vieppiù slegata ed episodica. L'Acton entra direttamente in corrispondenza con funzionari e magistrati delle province scavalcando il viceré. Presto incominceranno le rappresaglie da parte delle magistrature e conventicole locali contro coloro che si erano fatti strumenti dell'azione dei due viceré illuminati.
Intanto, agli amici e collaboratori dell'A. venivano ormai rifiutati a Napoli quei positivi apprezzamenti e quel trattamento di favore che un tempo erano stati loro elargiti. Così nel luglio del 1794 al Di Blasi, già altamente elogiato e raccomandato dal re ai fini di una ulteriore valorizzazione, veniva rifiutata una commenda da lui richiesta a titolo di compenso per la sua raccolta delle Prammatiche dei Regno, per quel lavoro cioè che così benevoli apprezzamenti aveva suscitato a corte. Il Di Blasi cercherà, pochi mesi dopo la morte dell'A., nell'azione insurrezionale la via di soluzione per una situazione divenuta insostenibile agli occhi di giovani formatisi sulle pagine di Rousseall, o di contadini delusi nelle aspettative sollevate dalla precedente politica antifeudale. E fallirà, almeno per quel che conceme il risultato pratico immediato; ché la sua leggenda invece, alimenterà per alcuni decenni i propositi e l'azione delle correnti democratiche più avanzate dell'isola.
Ma l'A. preferì temporeggiare. Era tutt'altro che impreparato alla prospettiva di uno sbarco francese in Sicilia. Già conosciuto ed apprezzato a Parigi, non si era lasciato sfuggire le occasioni per far notare ai Francesi il proprio costante attaccamento agli ideali di un tempo ad onta del mutare degli eventi. Aveva continuato a mantenere rapporti assai cordiali con i consoli francesi in Sicilia. Nei primi di marzo del 1793 il console di Palermo elogiava le misure adottate dall'A. per calmare le apprensioni dei Francesi residenti nell'isola. Ancora il 13 febbr. 1793 l'A. aveva offerto un pranzo agli ufficiali francesi di due navi da carico approdate a Palermo. Fatto veramente inaudito: quattro giorni prima era arrivata a Napoli la notizia dell'esecuzione di Luigi XVI. Allo scoppio delle ostilità con la Francia, l'A. si era adoperato per mitigare in Sicilia il decreto di espulsione dei Francesi. Né devono trarre in inganno determinati suoi atteggiamenti ufficiali di ottemperanza formale alle direttive provenienti da Napoli, unitamente,a provvedimenti di repressione antigiacobina, che sono da interpretare nel senso di quella sua linea politica moderata che ormai si era venuta precisando. Un informatore del Comitato di Salute Pubblica nel 1794 parlava di lui come di persona conosciuta "... pour philosophe, aimant les lettres et mème secrètement les principes de la liberté". Ciò nel quadro di un esame delle possibilità di un'insurrezione nell'isola. Ancora pochi giorni prima della morte dell'A., in un Projet d'expédition en Sicile indirizzato al Comitato di salute pubblica, un altro agente scriveva: "Le viceroi de Palerme mérite beaucoup d'égards de notre part. Sa conduite envers les frangais depuis la révolution a toujours été honnéte, sage, et prudente". Lo stesso invece raccomandava di punire duramente, in caso di sbarco, i governatori di Reggio e di Messina. Nessuna prova però, allo stato delle ricerche, di intese dirette dell'A. con i Francesi. È un fatto che gli agenti francesi ne parlino sì, ma dal punto di vista di chi esamina la situazione dall'estemo.
Ed è proprio questo atteggiamento del vicerè, per nulla riservato, a lasciar perplessi circa le dichiarazioni che sette mesi dopo la sua morte, nell'agosto 1795, ebbe a fare il tenente Spadafora, un giovane ufficiale della marina napoletana già prigioniero a Tolo e e reduce da due anni di soggiorno in Francia.
Da una lettera della regina Mafia Carolina si apprende che egli dichiarò per iscritto di avere avuto conversazioni con Tallien e altri uomini politici francesi di rilievo. Un po' tutti parlavano di piani insurrezionali ideati dal Medici e dall'A. nella esplicita previsione di uno sbarco francese in Sicilia. Dopo l'arresto del Medici l'A. avrebbe comunicato ai Francesi il suo proposito di avvelenarsi per non cader vivo nelle mani dei suoi nemici. Il che era oltretutto indimostrabile dal punto di vista cronologico, il Medici essendo stato arrestato dopo la morte dell'Aquino. Il fatto che fossero sulle bocche di tutti sta, semmai, a dimostrare che si trattava di voci tendenti ad ingrandire un fondo di verità rappresentato dalla posizione dei due uomini politici napoletani aperti alle novità che provenivano dalla Francia e desiderosi di mutamenti nella direzione politica del Reame. Per il resto essi non apparivano in nulla decisi a gettarsi allo sbaraglio, propensi come erano piuttosto ad attendere lo sviluppo degli eventi, coltivando per il momento ognuno il proprio terreno. Non è poi escluso che l'A., aiutato dalla sua non comune finezza di percezione e da una conoscenza aggiornata della situazione intemazionale, avesse sentore dei mutamenti che si annunciavano nella politica mediterranea del Comitato di salute pubblica, nel cui seno il solo a sostenere la necessità di un intervento in Sicilia era rimasto un ex-robespierrista. Inverosimile sembra poi il confidarsi di uomini politici responsabili formatisi in un clima rivoluzionario con un ufficiale napoletano diciottenne. Vero è che dopo il 9 termidoro la tensione era diminuita e lo stesso decentramento dei poteri fra persone e gruppi in antagonismo fra loro favoriva la fuga delle notizie. Ma era evidente la tendenza dei circoli politici francesi a semplificare troppo i termini della questione, facendo del Medici e dell'A. i due capi supremi di un movimento liberale organizzatissimo e pronto ad insorgere ad un loro cenno. La stessa tendenza a semplificare si nota, per fini naturalmente del tutto opposti, negli inquisitori napoletani del 1795. Già il 16 giugno l'ambasciatore inglese sir William Hamilton scriveva da Caserta al Foreign Office che a corte si lanciavano maledizioni alla memoria dell'A. perché era stato "... in a constant friendly Correspondence" col Medici confinato nel castello di Gaeta; mentre in precedenza, il 13 gennaio, lo stesso Hamilton, alla notizia del decesso, aveva scritto che la corte era costernata per la "sudden death", essendo egli "universally beloved": non si sapeva come sostituirlo. La regina del resto, in sede insospettabile, aveva espresso sinceramente il proprio cordoglio. Un agente francese in corrispondenza con Parigi era molto Più cauto sul connubio Medici-A., e molto insisteva sulla maggiore serietà del defunto viceré. Apprezzamento, questo, riferito anche dallo Spadafora; ma evidentemente agli occhi, dei Francesi la condotta dell'A. poteva sembrare più lineare e conseguente in quanto egli in Sicilia aveva maggiore libertà di movimento.
La sua popolarità era cresciuta in occasione delle carestie ed epidemie degli anni 1792-93, quando egli aveva saputo prevenire i disordini e nello stesso tempo era venuto incontro ai bisogni della plebe palermitana con adeguati provvedimenti. Questa sua sollecitudine per le necessità degli strati sociali più umili, dovuta a generosità di temperamento e a filantropismo di derivazione iruministica, lo accompagnò fino agli ultimi atti della sua amministrazione.
Il Parlamento del 1794 rappresentò il primo atto consapevole della riscossa dei baroni.
Da un lato, una corte che, dimentica oramai della sua passata azione riformatrice, mirava soltanto a raccogliere danaro per far fronte alle spese di guerra contro la Francia e si presentava quindi ai Siciliani con richieste improntate puramente e semplicemente ad un fiscalismo di tipo tradizionale già così tenacemente aborrito. Dall'altro lato, una nobiltà rianimata non soltanto in conseguenza dell'attutirsi, della ostilità dei poteri centrali, ma anche per l'aver incominciato a prendere coscienza dei suoi nuovi compiti in seno alla società isolana. La parte più illuminata di essa, anche in seguito al contatto assai frequente (per non dire quotidiano) coi viceré, oltre a rendersi conto gradualmente dei vantaggi derivanti dalla liberalizzazione dei feudi, si orientava verso un inserimento più deciso nel contesto dello sviluppo economico dell'Occidente europeo, prendeva visione dei problemi internazionali, imparava a mirare al di là della corte di Napoli e in questo nuovo quadro riacquistava il senso della propria autonomia di azione. Saranno nel corso degli anni successivi i legami più stretti con l'Inghilterra a far "precipitare" tali orientamentì, e sul piano economico-giuridico e sul piano politico. Per il momento, prevale ancora l'esigenza di una difesa immediata dei propri interessi effettivamente minacciati da una monarchia sia pure indebolita. Ma la libertà con cui furono discusse e in parte non approvate le richieste della corte, poneva in evidenza accenni cospicui di un risveglio della coscienza costituzionale dei baroni siciliani, timorosi di vedere annullate le proprie prerogative con l'approvazione di un donativo a tempo indeterminato.
In una tale situazione, non mancò l'A. di fare la sua scelta. Egli, che già il 14 maggio in una lettera all'Acton aveva espresso parere contrario alla richiesta di nuovi sussidi adducendo la critica situazione dell'isola, nel corso della sessione parlamentare nulla fece per opporsi alle prese di posizione dei baroni, i quali poterono contare sul suo tacito consenso. Fu ciò - secondo lo stesso agente francese già citato, il Bordé - motivo di diverbi con l'Acton, quando l'A. giunse a Caserta per un periodo di convalescenza dopo una malattia che nel febbraio del 1794 l'aveva ridotto in pericolo di vita. A Napoli si parlava con larghi consensi di una nomina dell'A. al posto dell'Acton; né sembra che i sovrani, specialmente il re, fossero particolarmente prevenuti nei suoi confronti. Certo è però che dopo tre settimane egli ricevette l'ordine di tornarsene in Sicilia col pretesto di dover preparare la difesa dell'isola contro eventuali assalti della flotta francese. Il Villabianca sostiene che egli tornò "babbiatu", e cioè corbellato, da Napoli. Scarsa importanza riveste a questo punto per lo storico la soluzione del giallo della morte del viceré, avvenuta il 9 genn. 1795
Che l'A. sia stato avvelenato dal Carelfi, suo segretario, messogli a fianco dall'Acton con l'evidente proposito di sorvegliarlo; si sia avvelenato egli stesso per sottrarsi alla sorte che fu poi del Medici, o dietro ingiunzione della corte ad evitare lo scandalo di un processo (suicidio di stato); sia morto, infine, sofferente di mal di fegato com'era, "de chagrin et de rage" (Bordé) in quanto maltrattato dall'Acton che sarebbe riuscito a mobilitargli contro la regina (anche questo par dubbio): si tratta di un enigma insolubile per mancanza di documentazione chiara che orienti nella ridda delle ipotesi. Certo è che ormai l'A. aveva esaurito il suo ruolo, che fu quello principalmente di gettare un ponte fra i risultati del riformismo illuminato ed una nobiltà spinta ad inserirsi nel processo aperto dalle riforme e a raccoglierne l'eredità. La sua mentalità di riformatore illuminato era pur sempre rivolta alla Francia intesa come termine di riferimento per le iniziative da prendere; e questa sua professata francofilia difficilmente avrebbe potuto permettergli di adeguare la propria azione al nuovo equilibrio internazionale venutosi a creare nel Mediterraneo dopo la spedizione di Napoleone in Egitto, equilibrio caratterizzato da una rinuncia progressiva da parte della Francia ad ogni interventò in una Sicilia, destinata ad entrare nell'orbita inglese. Né l'età né le condizioni di salute potevano consentirgli di sopravvivere alla tempesta in attesa di tempi migliori, così come avvenne per il Medici. Altri sarebbero stati i capi del movimento liberale in Sicilia: uomini nuovi, mentre i collaboratori dei due vicerè illuminati nei vari centri dell'isola finirono col consumare il resto dei loro giorni, o adeguandosi per istinto di conservazione al mutar degli eventi o subendo nell'isolamento vendette feroci che ne prostrarono per sempre le energie.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato Palermo, Real Segreteria. Dispacci. Prammatiche. Giunta dei Presidenti e consultore. Cancelleria del Regno,anni 1786-1795; Archivio di Stato Napoli, Archivio Borbone, Parlamento di Sicilia dell'anno 1790, n. 587, s. II, sez. 4, vol. I (dieci lettere dell'A. all'Acton); Archives des Affaires Etrangères-Paris, Mémoires et documents. Fonds divers, Naples, 3, f. 328; ibid., Correspondance Politique, Naples,123, f. 132, 201-204; Public Record Office-London, F. O. 70, Sicily, Sir Hamilton and consuls 1795; Palermo, Bibl. Comunale, F. Emanuele e Gaetani di Villabianca, Diari, mss.Q9 D 108, voll. XIV, XV, XVI; ibid., Miscell. di Prammatiche, dispacci, circolari regie e viceregie riguardanti il regno di Sicilia dal 1735 al 1813, mss. e stampe. 2 Q9 H 219; ibid., Ordinaz. diverse, Prammatiche, bandi, dispacci govern. riguard. il regno di Sicilia, mss. e stampe. 2 Q9 H 220; Siracusa, Bibl. Alagoniana, Carteggio di Saverio Landolina (tre lettere dell'A. al Landolina); ibid. G. Capodieci, Annali, vol. XIV; Napoli, Bibl. d. Soc. napol. di storia patria, De Fabriciis. Compendio storico della rivol. e controrivoluz. di Napoli, mss. XXVI, B, 19, C, 26; J. Flammermont, Correspondance des agents diplomatiques des rois de Naples en France. Notices et extraits,in Nouvelles archives des mission scientifiques et littéraires, VIII (1896), pp. 437 ss.; Corresp. inédite de Marie-Caroline reine de Naples et de Sicile avec le marquis de Gallo, a cura di M. H. Weil e C. Di Somma Circello, I, Paris 1911, pp. 226, 263, 287, 308 s., 318; E. Pontieri, Lettere del marchese Caracciolo, viceré di Sicilia, al ministro Acton. Appendice, in Arch. stor. per le prov. napol., n. s., XVIII (1932), pp. 265-296 (pubblica estratti della corrispondenza dell'A. col Caracciolo e con l'Acton); P. Sposato, Documenti vaticani per la storia della Massoneria nel Regno di Napoli al tempo di Carlo III di Borbone, Tivoli 1959, pp. 14-16.
Manca purtroppo uno studio complessivo ed esauriente sull'A.: del tutto insufficiente è infatti lo studio di I. Faranda, Il secolo XVIII ed il principe di Caramanico, Barcellona 1913; notizie ed osservazioni anche acute sulla figura complessiva dell'A. in L. Blanch, Il regno di Napoli dal 1801 al 1806, in Arch. stor. per le prov. napol., n. s., VIII (1922), pp. 62 s.; B. Croce, Storia del regno di Napoli, Bari 1925, pp. 200, 312 s., e soprattutto A. Simioni, Le origini del risorgimento Politico dell'Italia meridionale, Messina-Roma 1925, 2 voll., passim, e soprattutto II, pp. 169-181. Per il soggiorno a Parigi notizie in G. Nuzzo, Tra "ancien règime" e Rivoluzione. La Politica estera napoletana avanti la coalizione europea, I, Salemo, 1946, passim. Per il periodo di governo in Sicilia, il meglio studiato anche se non certo esaurientemente, cfr. P. Insenga, in G. E. Di Blasi, Storia cronologica dei viceré. Presidenti e luogotenenti del regno di Sicilia, Appendice, III,Palermo 1847, pp. 538-565; E. Ponticri, Il tramonto del baronaggio siciliano, Firenze 1943, pp. 333-352; F. Brancato, Il Caracciolo e il suo tentativo di riforme in Sicilia, Palermo 1946, pp. 238-243; R. Romeo, Il Risorgimento in Sicilia, Bari 1950, pp. 65-71; A. La Cava, L'attività riformatrice dei viceré di Sicilia, principe di Caramanico (1786-1795), in Messana, IV (1956), pp. 227-243. Manca ancora però un'indagine particolareggiata, condotta in base a ricerche d'archivio, sulle vicende della proprietà terriera in Sicilia alla fine del sec. XVIII. Uno studio del genere, per il quale offre già buoni spunti A. Sartorius v. Waltershausen, Die sizilianische Agrarverfassung und ihre Wandlungen 1780-1912, Leipzig 1913, pp. 118-175, permetterebbe di saggiare con maggior precisione l'evoluzione delle basi stesse del potere della nobiltà dopo le riforme e le ripercussioni sui suoi atteggiamenti politici.
Per l'attività dell'A. come massone, i suoi rapporti coi Di Blasi ed altri aspetti particolari cfr. I. Rinieri, Della rovina di una monarchia, Torino 1901, pp. 68 s., 392, 506 s.; F. Scandone, Il giacobinismo in Sicilia (1792-1802), in Archivio storico siciliano, n. s., XLIII (1921), pp. 288-315; C. Lo Forte, Sul giacobinismo in Sicilia, in Archivio storico per la Sicilia,VIII(1942), pp. 285-368; F. Guardione. Di un tentativo politico nel 1795 in Palermo e di Francesco Paolo Di Blasi, in La Sicilia nella rigenerazione politica d'Italia (1795-1860), Palermo 1912, pp. 33-106; N. Nicolini, Luigi De Medici e il giacobinismo napoletano, Firenze, 1935, passim; E. Di Carlo, Volfango Goethe ed il Principe di Caramanico, in Atti della R. Accademia di scienze lettere ed arti di Palermo,s. 4, I (1941), pp. 104-111.