Arabia Saudita
A causa di una rigidissima applicazione della šarī῾a secondo l'interpretazione wahhabita, in A. S., regno indipendente costituitosi dal 1932, sono da sempre vietate le proiezioni cinematografiche: non è infatti permessa in nessuna forma la fruizione, pubblica e commerciale, dello spettacolo cinematografico. Eppure, in seguito alla nascita del sistema televisivo, dalla metà degli anni Ottanta il mercato video riveste grande importanza, come nel resto del Medio Oriente, in un Paese dove il numero dei videoregistratori venduti è altissimo. Come scriveva Jacob M. Landau già nel 1958 "in Arabia Saudita i film sono, per legge, mostrati privatamente solo nelle case dei ricchi, perché la proiezione nei locali pubblici è contraria agli ideali etici e religiosi" (p. 175). Il consumo di film, assai elevato, avviene dunque in ambito familiare. Da circa venti anni la domanda di film è talmente aumentata che il cinema egiziano, l'unico del mondo arabo strutturato come industria, seppure obsoleta per tecnologie e studi, viene finanziato quasi integralmente dai Paesi della penisola arabica tramite gli uffici finanziari di Riyad e Kuwait City. Il cinema del Cairo, così condizionato sul piano politico, estetico e morale, vive nella contraddizione tra l'antimodernismo assoluto della tradizione wahhabita (la dinastia al potere in A. S. si riferisce esplicitamente al modello teocratico e oscurantista del pensatore settecentesco Muḥammad Ibn ῾Abd al-Wahhāb) e un consumismo incontenibile, favorito anche dalla presenza delle truppe statunitensi dalla guerra del Golfo del 1991 in poi. La crisi del cinema egiziano contemporaneo ‒ ricorda il critico cairota Samīr Farīd ‒ è causata dalla pressante richiesta saudita di film destinati alla commercializzazione che i produttori del Nilo soddisfano frettolosamente, distogliendo energie e interessi dal mercato delle sale e ignorando le pulsioni profonde della società.
In A. S. la tendenza all'importazione massiccia ha radici antiche. Secondo lo storico del cinema Muḥammad al-Sanūsī, già nel 1959 erano stati acquistati, per le sale dei complessi industriali stranieri operanti nel territorio o per il circuito universitario, 32 film egiziani in 35 mm (su 342 realizzati quell'anno dal Cairo) e 155 in 16 mm, cioè la metà dei film a passo ridotto prodotti quell'anno in Egitto (1966, p. 189); come scrive lo studioso francese Yves Thoraval (1988, p. 103), erano stati scelti tra quelli ininfluenti sotto il profilo ideologico e politico e di qualità artistica inferiore. Nel 1963, ricorda ancora Muḥammad al-Sanūsī (1966, p. 187), furono importate dai Sauditi 132 pellicole egiziane in 16 mm e nessuna a passo normale, a dimostrazione dell'uso casalingo o universitario e non commerciale. Con l'affermarsi delle televisioni satellitari e la maggiore richiesta, negli ultimi tempi, di fiction, il controllo censorio è stato esercitato a più livelli, etico, religioso, politico e consumistico.
Nel settore documentaristico, dal 1980 in poi il governo ha permesso la realizzazione di alcuni lavori, di carattere genericamente informativo, prodotti da multinazionali come la Exxon (Saudi Arabia today, 1984) o da produttori indipendenti statunitensi (Pilgrimage to Mecca, 1980, di Marilyn Perry). Un'impostazione più critica hanno avuto le tre puntate realizzate nel 1986 dalla nordamericana Pacific Production sulla storia della dinastia reale, sul conflitto tra tradizione e modernità e sul controllo del business legato al petrolio (Saudi Arabia 1. The kingdom; Saudi Arabia 2. Race with time; Saudi Arabia 3. Oil, money and politics). Stesse caratteristiche presenta il documentario The Saudis (1980) della CBS, sui retroscena politico-affaristici di Riyad. A questo proposito va ricordato che già nel 1936 un documentario egiziano sul pellegrinaggio alla Mecca fu oggetto di scontro politico-religioso tra governo saudita e il Cairo, e che l'incidente diplomatico venne poi risolto con un accordo censorio; il film, al-ḥaǧǧ ilā bayt Allāh al-Ḥarām (Il pellegrinaggio musulmano alla Mecca), nel nuovo montaggio, avrebbe partecipato l'anno successivo alla Mostra del cinema di Venezia.Il documentarista Abdullah al-Mohaisen è l'unico cineasta operante in Arabia Saudita. Nato nel 1946, dopo aver studiato cinema in Inghilterra e in Libano, ha creato la sola casa di produzione esistente nel suo Paese, al-῾Ālamiyya, impegnata soprattutto nel campo televisivo e in quello pubblicitario. Autore di reportage giornalistici e di approfondimenti sui vari aspetti della realtà del Paese e del mondo arabo, al-Mohaisen ha firmato nel 1976 Taṭwīr al-Riyāḍ (L'ammodernamento di Riyad), nel 1977 Iġtiyāl madīna (L'assassinio di una città), sulla devastante guerra civile a Beirut (opera premiata al Festival del Cairo) e Al-Islām ǧisr al-mustaqbal (Islam, un ponte verso il futuro), sulla resistenza afghana antisovietica. Del 1991, anno dell'occupazione irakena del Kuwait e della conseguente guerra del Golfo, è il mediometraggio al-ṣadma (Lo shock).
J.M. Landau, Studies in the Arab theater and cinema, Philadelphia 1958; The cinema in the Arabian countries, ed. G. Sadoul, Beirut 1966 (in partic. M. al-Sanūsī, The cinema in the Arabian peninsula); Y. Thoraval, Regards sur le cinéma égyptien, Parigi 1988.