arabismi
Con il termine arabismi si intende una particolare classe di esotismi, molti dei quali successivamente integratisi nel vocabolario italiano e allineatisi alla morfologia della nostra lingua (➔ adattamento; ➔ prestiti), provenienti da diverse varietà – specie maghrebine – dell’arabo a partire dal medioevo fino ai giorni nostri. La maggior parte degli arabismi in italiano attiene ai campi semantici della cultura materiale, specie agricola, manifatturiera (prodotti tessili), alimentare (si tratta di voci provenienti da aree geografiche ove più intenso fu il contatto linguistico, come nella Sicilia Arabica o lungo le numerose rotte commerciali tra Oriente e Occidente) e da tecnicismi, mediati attraverso lo scritto, delle scienze astronomiche, matematiche, alchemiche, botaniche e filosofiche, penetrati nel lessico colto soprattutto in fase tardo-medioevale e rinascimentale.
In fase moderna sono entrate e continuano a entrare parole afferenti al vocabolario della religione e della politica musulmane, in qualche caso in veste turca (si pensi a muezzin, a musulmano o al moderno kebab) o persiana (ayatollah, hojatoleslam). Talvolta queste voci, assieme a qualche termine tratto dalla vita quotidiana, affiorano in modo effimero nelle pratiche letterarie del ‘distacco’ (Fabietti 2006) ossia nei libri di viaggio o nei romanzi a sfondo esotico. Gli arabismi, a loro volta, rientrano nella più vasta categoria dei cosiddetti islamismi (Mancini 1992b: 192-195), ossia di quei termini giunti alle lingue europee a seguito dell’espansione culturale e politica dell’Islām nelle zone costiere del Mediterraneo da Occidente (attraverso la Spagna omayyade, l’Africa settentrionale con l’appendice siciliana) fino al Vicino Oriente.
Sul complesso degli arabismi in italiano (prescindendo dai numerosi studi sui lessici dialettali italoromanzi), oltre ai lavori raccolti in Pellegrini 1972, 1989 e al tradizionale (ma oramai invecchiato) repertorio di Lokotsch 1927, si vedano, tra i saggi più recenti, Mancini 1992b: 63-104, Mancini 1992a, Mancini 1994b: 842-856, Ineichen 1997, Zingarelli 1996 (che integra sostanzialmente Zolli 1991: 173-182), Mancini 2006, nonché i repertori di Lanteri 1991 (da consultarsi con prudenza), Kiesler 1994, entrambi dedicati ai soli arabismi, Mini 1994, De Mauro & Mancini 2001.
I primi scambi linguistici tra area arabofona e area italoromanza iniziano con la rapidissima islamizzazione del Mediterraneo (VII sec. d.C.). Con il califfato abbaside (conclusosi con la conquista mongola della capitale Baġdād nel 1258), indubbiamente il periodo culturalmente più produttivo per quanto riguarda le relazioni fra Islām e Occidente, il dar al-Islām «la casa dell’Islām» si ampliò ulteriormente a spese del dar al-ḥarb «la casa della conquista». In quest’epoca lo stato islamico acquistò definitivamente l’assetto transnazionale che caratterizza ancor oggi la umma, «la comunità di fede musulmana». L’apporto dei ‘convertiti’ allogeni divenne preponderante sul piano etnico e su quello istituzionale (Gabrieli 19852: 104-107) tanto da trasformare l’arabo in una varietà di superstrato con funzioni religiose, istituzionali e veicolari che finì coll’assorbire, irradiandoli a sua volta, molti imprestiti dalle altre lingue, in special modo dal persiano e, in epoca mamelucca e ottomana, dal turco (Bausani 1981; Versteegh 1997: 93-113; sui turchismi in area italoromanza, cfr. Mancini 1990).
Alle diverse modalità di apporto tra Islām e Occidente (come hanno chiarito Steiger 1948-1949 e Ineichen 1997) corrisposero diverse fasi e diversi canali di penetrazione degli arabismi. Ciascuna fase appare caratterizzata da una tipologia peculiare di contatto, quasi mai diretto; eccezione importante, come si è accennato, la Sicilia Arabica in epoca medioevale che, in misura certamente minore rispetto a quanto si verificò in Spagna, fu comunque teatro di numerosi episodi di bilinguismo stabile.
In epoca di poco posteriore alla morte di Muḥammad la Penisola italiana e le principali isole del Mediteranneo cominciarono a subire scorrerie e incursioni da parte degli Arabi; nel IX secolo le razzie si intensificarono e, in qualche caso, diedero luogo a insediamenti più o meno stabili di musulmani in territorio italiano: Brindisi fu occupata nell’838, Taranto nell’840, Bari nell’841. Nell’827, al comando del qāḍī aglabita Asad ibn al-Furāt, che profittò abilmente di un momento di crisi del governo bizantino a Siracusa, un contingente di arabi, berberi e persiani del Khorāsān sbarcò a Mazara, sconfisse i Bizantini e si impadronì rapidamente dell’isola che rimase araba sino alla reconquista dei Normanni, iniziatasi nel 1061 con la presa di Messina per opera di Roberto il Guiscardo e Ruggero d’Altavilla. Nel 1242 viene rogato l’ultimo documento in arabo nell’isola. Tracce linguistiche di un’espansione araba anche al di là dello Stretto (a parte l’episodio della colonizzazione forzata di Lucera) sono state raccolte da Fanciullo (1996: 113-126).
La profondità della penetrazione culturale e linguistica degli Arabi (sulla cui precisa identificazione geolinguistica è difficile andare oltre la generica formulazione di «arabo maghrebino occidentale»; Varvaro 1981: 85) è testimoniata non solo dai numerosi documenti d’archivio redatti in arabo, dalle tante testimonianze artistiche sparse per la Sicilia, dalle descrizioni magnificenti di viaggiatori e di geografi arabi come ibn Jubayr o al-Idrīsī, ma anche, sul piano strettamente linguistico, dalla diffusione di toponimi di origine araba attestati dalle carte notarili, in parte sopravvissuti fino a oggi (Pellegrini 1972: 237-332).
Si vedano i sintagmi toponomastici con raḥl «casale» (Racalmuto), con qal‛a «castello» (Calatafimi, Caltanissetta), con jabal «monte» (Gibilmanna, Gibellina). Analoghe conclusioni si traggono dalla diffusione degli antroponimi (Pellegrini 1972: 227-236; Pellegrini 1989: 153-165; Caracausi 1994): Càfaro (< ar. kāfir «infedele»), Salemi (< ar. salāmī «pacifico»), Macaluso (< ar. maxlūṣ «liberato»). Gli arabismi siciliani sono presenti in moltissimi campi semantici (cf. Pellegrini 1972: 129-236; Caracausi 1983; Pellegrini 1989: 21-51 e 120-133; Scholz 1996): termini giuridici: albaranu (< ar. al-barā’a «sorta di scrittura privata»), cangemia «tassa dei barbieri» (< ar. ḥajjām «chi esercita la bassa chirurgia»), funnacu (< ar. funduq «magazzino»); titoli e professioni: algoziru (< ar. al-wazīr «visir»), camalu (< ar. ḥammāl «facchino»); termini marinareschi: caracca (< ar. ḥarrāqa «nave incendiaria»), cassaru (< ar. qaṣr «castello sul ponte della galea»).
L’Occidente, Italia inclusa, ha lungamente attinto alla scienza araba nei campi più diversi (Arnold & Guillaume 1952; Watt 1991): il corpus trattatistico sviluppatosi a partire dalle numerose traduzioni arabe dal greco abbracciò l’intera enciclopedia dei saperi medioevali e fu presto oggetto di versioni sia in latino sia in lingue romanze, specie in area iberica (si pensi alla cosiddetta Collectio Toletana voluta dall’arcivescovo Raimondo; Bossong 1979).
Anche in Italia nacquero centri molto attivi nella traduzione e diffusione dei testi di origine araba: fra i più importanti Salerno, ove operò il traduttore Costantino l’Africano (1015-1087), e Palermo, dove lavorò Michele Scoto (morto nel 1235-1236). Pochi, tuttavia, i testi tradotti direttamente in volgare, fra i quali spiccano il Moamin dedicato alla falconeria (Glessgen 1996) e il Liber Serapionis aggregatus in medicinis simplicibus (Serapion il vecchio 1962-1966).
L’influsso linguistico arabo fu particolarmente forte nella terminologia scientifica della Materia medica, come dimostrano opere lessicografìche tardo-medioevali quali la Clavis sanationis di Simone da Genova e la fondamentale Interpretatio arabicorum nominum di Andrea Alpago edita nel 1527 (Jacquart 1988; Alpago 1991; Mancini 1992b: 79-86). Un corpus abbastanza consistente di termini tecnici dell’alchimia (< ar. al-kīmīyā’), delle scienze matematiche, fisiche e dell’astronomia entrarono in italiano attraverso il canale delle antiche versioni latine dall’arabo (Pellegrini 1972: 43-128; Mancini 1992a). Alcune di queste voci sono ancora presenti nei lessici settoriali: nuca (< ar. nuxā‛), alambicco (< ar. al-anbīq), alidada (< ar. al-‛iḍāda), amalgama (< ar. al-jamā‛a), algebra (< ar. al-jabr, Manni 2001), cifra (< ar. ṣifr), elisir (< ar. al-iksīr), zenit (< lat. scient. cenit < ar. samṭ [ar-ra’s]), auge (< ar. awj), nadir (< ar. naẓir). Di un possibile influsso dell’escatologia islamica sulla Comedìa dantesca ancora si discute ma senza aver raggiunto risultati definitivi (per un bilancio vedi ora Corti 1999).
Per dar conto in maniera soddisfacente dell’aspetto fonologico di questi termini, spesso molto divergenti rispetto agli archetipi arabi, occorre tener conto delle modalità della traduzione. Ben di rado la responsabilità della versione latina ricadeva su un singolo individuo. Il metodo della traduzione ‘a due interpreti’, uno dei quali in genere ebreo o mozarabo (D’Alverny 1989; Mancini 1992a: 211-217; Ineichen 1997: 58-65), favoriva le versioni parola per parola. Prima conseguenza di questo metodo aberrante era la compromissione del senso che doveva scaturire dall’esatto intendimento del contesto. Ciò rendeva la decrittazione della singola parola araba da parte del traduttore particolarmente ardua e molte volte errata: di qui equivoci nella lettura dei grafemi arabi come ‹rjl› tradotto per errata vocalizzazione «piede» e non «uomo» o, ancora, ‹yd› «mano» letto ‹bd› in betelegeuse < ar. yad al-jawz «mano del cacciatore», denominazione della stella alpha Orionis.
Con l’Islām trafficavano attivamente le repubbliche marinare, prima fra tutte Venezia, che ha mantenuto costantemente rapporti privilegiati con l’Oriente bizantino e musulmano, impiantando empori commerciali in diverse città dell’Oltremare ( ➔ Mediterraneo e lingua italiana).
Testimonianza di questo reticolo fittissimo di rapporti, lungo vie che in quegli stessi anni erano intensamente battute da pellegrini ed esploratori come Guglielmo di Rubruk, Oderico da Pordenone, Marco Polo, Niccolò da Poggibonsi, sono i numerosi arabismi presenti tra i secoli XI e XV nelle documentazioni commerciali di Pisa, Genova e Venezia, nonché nelle carte, molte delle quali ancora inedite, dei fondachi veneziani «di là dal mar» e dei possedimenti franchi nel Vicino Oriente. Così a Pisa (Pellegrini 1972: 407-452) si trovano documentate voci come albara (< ar. al-barāl’a), archaido (< ar. al-qā’id), colica (< ar. ḥalqa); a Venezia (Pellegrini 1972: 575-599; Cortelazzo 1989: 447) prestiti come carasi (< ar. xarāj), gazena (< ar. xazana), chafiso (< ar. qafīz); a Genova (Pellegrini 1972: 333-400), butano (< ar. buṭāna), bucuramo (< ar. bū qalamūn; Cardona 1969), gamerra (< ar. ximār).
Attraverso soprattutto i terminali delle repubbliche marinare il commercio con il Levante islamico ha veicolato un buon numero di voci arabe nel lessico dell’italiano. Talvolta il vaglio orale che ha caratterizzato l’imprestito è comprovato da singoli tratti fonologici dell’arabismo: apofonie vocaliche di /a:/ (cubebe < ar. kubāba), sonorizzazioni di /q/ (gabella < ar. qabāla), epentesi vocaliche (cotone < ar. quṭn).
La pratica istituzionale del commercio risente dell’influsso arabo come stanno a dimostrare termini penetrati in italiano come ammiraglio (< sintagma ar. amīr al-), darsena (< ar. semplificato dār-ṣinā‛a), magazzino (< ar. maxzan), tariffa (< ar. ta‛rīfa), zecca (< ar. sikka). Molti gli arabismi attinenti alla sfera dei prodotti alimentari di importazione: zafferano (< ar. za‛farān), tuzia (< ar. tūtiyā’), cubebe (< ar. kubāba), arancio (< ar. nāranj), limone (< ar. limūn), albicocca (< ar. al-barqūq), carciofo (< ar. xaršūf), spinaci (< ar. aspanāx), zucchero (< ar. sukkar).
Rilevanti anche i prestiti nel campo semantico degli strumenti musicali come liuto (< ar. al-‛ūd con conglutinazione eccezionale dell’articolo determinativo arabo), nacchera (< ar. naqqāra), tamburo (< ar. tunbūr). Importantissima la terminologia relativa al gioco degli scacchi (Belardi 1992: 79-81; Panaino 1999): alfiere (< ar. al-fīl «l’elefante»), rocco (< ar. ruxx «torre»), scacco matto (< ar. māt «lo šāh [in pers. «re»] è morto)».
Nei resoconti dei viaggiatori in Terrasanta, a Gerusalemme, e, più tardi, nelle minuziose cronache degli esploratori verso l’Africa e l’Oriente si rinvengono frequentemente citazioni da lingue extraeuropee, per lo più singole parole che designano realia ignoti o, più di rado, intere frasi.
Molti di questi ‘esotismi’ sono prestiti dall’arabo parlato entrati a far parte di una sorta di vocabolario di base dei pellegrini. I viaggiatori, nonostante l’atteggiamento ostile nei confronti delle culture estranee, nutrivano pur sempre un certo interesse verso le lingue esotiche: «proprio le lingue, nella loro evidente diversità rispetto a quelle familiari, erano una delle caratteristiche più salienti dell’alterità dei luoghi visitati» (Cardona 1990: 310; cfr. anche Pozzi 1994: 23). In questo senso l’esperienza e le cognizioni di Marco Polo costituiscono un modello di straordinario valore (Mancini 1994a): attingendo alla sensibilità che era caratteristica dei commercianti, Marco Polo dissemina la porzione iniziale del Divisament di prestiti dall’arabo (Cardona 1975).
Tra le decine di esempi ricavabili da memorie di viaggiatori si vedano arabismi come beredi (< ar. barīdī «postale»), bazari (< ar. bāzār «negozio», di origine persiana), cam (< ar. xān «albergo», di origine persiana), cangir (< ar. xinzīr «porco»), mucaro (< ar. mukār «conduttore di animali», Cardona 1970) nel Viagio del Sancto Sepolcro facto per lo illustro misere Milliaduse estense (1440-1441) pubblicato recentemente da un manoscritto inedito conservato presso la Biblioteca Estense di Modena (Rossebastiano & Fenoglio 2005).
Eccezioni notevolissime in tale ambito sono Leone l’Africano e Ludovico da Varthema. Ḥasan ibn Muḥammad al-Wazzān al-Fāsī, ovvero Leone l’Africano (1485-1554), grazie alle sue note redatte con l’accuratezza propria della migliore tradizione dei viaggiatori arabi, fornisce all’Europa il «bagaglio essenziale di notizie sull’Africa mediterranea e interna fino al XIX secolo» (Minervini 1992: 584). Ludovico da Varthema si dimostra un viaggiatore curioso e dotato di «notevole precisione documentaria» (Mancini 1992b: 128), al punto da essere fra i pochissimi occidentali che impararono una varietà semplificata dell’arabo siriano e che riportarono diversi brani in questa lingua nel proprio diario di viaggio in Oriente (Mancini 1992b: 128-133; Contini 1994; Contini 1996).
La citazione preziosa dell’arabismo rappresenta un ingrediente frequentissimo non solo negli scrittori di viaggio, ma anche nella narrativa esotistica di fine Ottocento e dei primi del Novecento (Ricci 2005: 123-132).
Particolarmente interessante è l’equivalenza fra arabismo ed esotismo nei romanzi del cosiddetto ciclo «africano» di Emilio Salgari (1862-1911), romanzi che ebbero un immediato e vastissimo successo. Nei testi di Salgari «gli esotismi contribuiscono in maniera fondamentale a conferire ai romanzi quel timbro misterioso [...] che rappresentava la risposta ideale ai bisogni di evasione e di immaginario propri della piccola borghesia a cavaliere tra Ottocento e Novecento» (Mancini 1997: 70-71). In un bricolage nel quale precipitano assieme il genere della letteratura viaggistica e quello del feuilleton d’Oltralpe, i romanzi salgariani brulicano di prestiti orientali, che imprimevano alla pagina «una connotazione di bizzarria e di curiosità, un colore inconfondibile che permetteva di identificare immediatamente diversità e lontananza culturali» (Mancini 1997: 72).
Salgari si era cimentato con scene di ambito africano già nelle corrispondenze giornalistiche dedicate alla rivolta del Mahdī in Sudan tra il 1883 e il 1885: in tali testi ricorrono alcuni arabismi quali fellah, fakir (< ar. faqīr «povero, mendicante»), wakil (< ar. wakīl «uomo facoltoso»), mudir (< ar. mudīr «governatore»). Nei libri del ciclo africano il numero di arabismi si moltiplica a dismisura. Nei soli quattro romanzi La favorita del Mahdi (1887), La pantere di Algeri (1903), I predoni del Sahara (1903), Sull’Atlante (1908) si contano ben 150 lessemi o sintagmi di origine araba, spesso mal riportati o mal trascritti (Mancini 1997).
Lungo una linea ideale di continuità rispetto alla narrativa salgariana si collocano due generi letterari che ebbero grande diffusione in Italia a cavallo tra Ottocento e Novecento: il reportage di viaggio e la letteratura ‘coloniale’, quest’ultima particolarmente in voga durante l’epoca fascista. Entrambe pienamente rientranti nel più vasto ambito della cosiddetta «letteratura di consumo», queste tipologie offrivano al pubblico tutto ciò che rientrava in un orizzonte di facili attese emozionali: siti lontani e misteriosi, vicende avventurose condite spesso da un erotismo sentimentale venato di razzismo.
Ingrediente fondamentale l’esotismo linguistico che, come già accadeva nelle pagine dannunziane (Trifone 1991), scivolava facilmente dalla mera funzione informativa all’esibizione di oggetti e di suggestioni fascinose e remote. Parole più per l’occhio, si potrebbe dire, che per la mente; citazioni arabe di ristretta circolazione che, tuttavia, a un’indagine ravvicinata e approfondita, emergono con inaspettata frequenza negli scritti di molti letterati, giornalisti e viaggiatori fin de siècle, indizio di una certa notorietà presso il vasto pubblico.
Lo stile brillante e insieme struggente del reportage, infarcito di curiosità, di descrizioni bizzarre, di esotismi linguistici, venne inaugurato dal Marocco di De Amicis (1876) e, come si è visto, ebbe un precoce imitatore in Salgari. Ma caratteristiche assai simili si ritrovano in molti autori di fine Ottocento e del primo trentennio del Novecento. Per es. nei Ricordi di Palestina di Matilde Serao (1900) gli arabismi costellano pagine ricche di sensazioni e di nostalgie, secondo i dettami di uno stile che in quegli stessi anni era stato consacrato in Francia dai romanzi ‘orientali’ di Pierre Loti: si vedano parole come dahabeah (< ar. egiz. dahabiyya «veliero del Nilo») o fellah (< ar. fallāḥ «contadino) o, ancora, nel Viaggio in Terrasanta di Luigi Barzini (1902) in cui si incontrano simun (< ar. simūm «vento del deserto»), bakshish (< ar. egiz. baxšīš «mancia», di origine persiana).
I sempre più frequenti contatti con il mondo islamico stanno facendo affluire nel lessico dell’italiano, al pari di quanto si sta verificando in altre lingue occidentali, un numero via via crescente di termini di origine araba: malgrado le percentuali di ingresso nei secoli XIX e XX siano sensibilmente inferiori rispetto ai secoli precedenti (Pizzoli 2001: 640), tuttavia il numero di ‘neoislamismi’ contemporanei, specie per l’alto grado di occorrimento, è tutt’altro che trascurabile.
Questi neoislamismi fanno riferimento pressoché esclusivo a realtà politiche, sociali, culturali proprie dell’Islām contemporaneo e giungono in italiano attraverso i canali dell’informazione giornalistica e radiotelevisiva. La loro veste fonomorfologica – a parte le considerazioni di ordine grafico di cui si dirà poco più avanti – è generalmente scarsamente integrata. Qualche termine si è diffuso attraverso la migliore conoscenza della cucina medio-orientale: a parte il cuscus di cui si ha notizia già in pieno Cinquecento (Mancini 1992b: 127), godono di una certa notorietà i felafel (< ar. falāfil, dal 2001 in John Birmingham, E morì con un felafel in mano), lo hummus (< ar. ḥummuṣ, dal 1972, in Dialoghi di archeologia, p. 92), la shawerma (< ar. šāwarmā, dal 1994, in Siria, T.C.I., p. 146), la tabbouleh, per lo più al maschile (< ar. tabbūla, nella grafia alla francese con ‹ou› dal 2002 in Heike Knophius, Alimenti brucia grassi, p. 27).
Molti tecnicismi religiosi circolavano già diversi anni prima nella bibliografia scientifica orientalistica, ovviamente in modo assai ristretto. Si veda il caso di jihad < ar. jihād «guerra santa», propriamente «sforzo» (per il genere grammaticale, maschile in arabo, femminile in italiano per accostamento a guerra, cfr. Sgroi 1995: 59), registrata nei lessici a partire dal 1979, ma presente già in Gabrieli & Scerrato 19852, nella trascrizione tipica degli arabisti italiani gihàd. Questa voce ha generato anche il derivato jihaidista «sostenitore ideologico della guerra santa».
Analoghe considerazioni si possono fare per voci arabe oggi particolarmente diffuse nei media per via dei rapporti sempre più tesi e drammatici fra Occidente e mondo islamico, voci quali shi’a (< ar. šī‛a, propriamente «setta», dal 1954 in U. Monneret de Villard, L’arte iranica, p. 11), sunna (< ar. sunna «costume», dal 1941 in «Annali Africa Ital.» 4, 3, p. 1077), sura (< ar. sūra «capitolo del Corano», dal 1941 in «Politica» 45, p. 227), shari’a (< ar. šar‛īya, propriamente «legalità», dal 1959 in A. Bausani, Persia religiosa, p. 281), shahid (< ar. šahīd «martire», dal 1948 in C.A. Nallino, Scritti editi e inediti, p. 974), imam (< ar. imām, un prestito assai antico in italiano; Mancini 1992b: 117), ulema (la voce è giunta nell’italiano cinquecentesco attraverso il turco; Mancini 1992b: 117, cfr. ar. ‛ulamā’, plur. fratto di ‛alīm «dottore della fede islamica»), mullah (< ar. mawlā’, proveniente probabilmente dall’angloindiano mullah; Mancini 1992b: 194; si tenga invece presente che talebano è un prestito dal pers. ṭālebān, plur. di ṭālib, a sua volta voce araba significante «studente»), intifada (< ar. intifāḍa, propriamente «scuotimento», dal 1988 in «il Mulino» 37, p. 593), fatwa (< ar. fatwā’ «opinione di tipo legale nel diritto islamico», dal 1951 in «Biblica et Orientalia», p. 65).
Nel campo del vestiario particolarmente noti sono il burqa (< ar. burqa‛, dal 1951 in E. Cagnacci, Afghanistan, p. 200) e lo hijab (< ar. ḥijāb, dal 1979 in T. Burckhardt, Introduzione alle dottrine esoteriche dell’Islam, p. 24; si rammenti che chador è voce schiettamente persiana, pers. čādor).
Secondo si tratti di francografie o di anglografie nelle fonti giornalistiche – cioè di termini trascritti seguendo le convenzioni della grafia francese o di quella inglese – il medesimo arabismo compare sotto vesti differenti: cosi l’ar. mujāhid, plur. mujāhidīn, appare talvolta trascritto come moujahiddin o mujahiddin (in italiano sia singolare che plurale con l’accezione di «guerrigliero afghano» dal 1981 in A. Barletti & E. Romoli, Afghanistan prima e dopo, p. 250, il plurale dal 1982 in «L’Espresso» 28, p. 32; nella letteratura orientalistica nell’accezione di «guerriero del jihad» già dal 1952 in A. Koller, I berberi marocchini, p. 165).
In qualche caso le parole arabe, specie se attinenti al rito islamico, sono in realtà giunte attraverso altre lingue: così ayatollah (dal 1971 riferito a Khomeynī in B. Zevi, Cronache di architettura, p. 22, ma noto alla letteratura orientalistica dal 1953 in «Rassegna italiana di politica e di cultura», p. 255), dall’ar. āyātu’llāh, propriamente «segno di Allāh», nome di una carica della setta sciita in Iran, hezbollah (dal 1976 in «Enchiridion Vaticanum» 23, p. 1422), dall’ar. hizbu’llāh «partito di Allāh», hojatoleslam (dal 1979), dall’ar. hujjatu-’l-Islām, propriamente «argomento dell’Islām», altra carica sciita nell’Iran khomeinista, mostrano tutti la resa fonologica tipicamente persiana di ar. /u/ e /i/ brevi. Un altro termine che si sta diffondendo nelle fonti giornalistiche, tratto dal gergo militare dei soldati americani in Iraq, è hajji < ar. ḥajjī, propriamente «chi ha compiuto lo ḥajj, il pellegrinaggio alla Mecca; titolo onorifico» ma impiegato come nome spregiativo degli arabi.
In alcuni casi questi arabismi denunciano fonti vicine al parlato: così fedain (singolare e plurale in italiano, dal 1963, voce che ha assunto anche il valore traslato di «militante fanatico») è dall’ar. fidā’īyīn, propriamente plur. obliquo di fidā’ī «colui il quale è pronto a sacrificare la propria vita per una causa», nome in origine di un corpo militare palestinese nato nel 1955: la resa con /e/ e con il morfema di obliquo -īn (per l’atteso -ūn) è caratteristica dell’arabo parlato standard. ∎TAV.
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