ARATORE
Nacque, verso la fine del sec. V, nell'Italia settentrionale; "mittit et Liguria Tullos suos", gli scriverà Cassiodoro. La famiglia era dunque di origine provinciale, di quella provincia ligure che comprendeva buona parte dell'Italia del Nord e aveva il suo maggior centro in Milano. Da ciò più d'uno è stato indotto a proporre che a Milano egli sia nato. Ma certo qui egli si trovava allorché, rimasto orfano, "adulescentulus" ancora, come ci racconta Ennodio, il vescovo Lorenzo (489-511) lo accolse sotto la sua protezione, lo mise alla scuola di Deuterio, maestro che godeva della migliore reputazione, e lo affidò con ogni verosimiglianza alle cure del diacono Ennodio. E fu questi a presentarlo pubblicamente al maestro, con grande benevolenza, e ad introdurlo e raccomandarlo così all'ambiente intellettuale milanese; nella dictio che espressamente scrisse ("Praefatio quando Arator auditoriuni ingressus est", Dict. 9), Ennodio definisce l'"adulescentulus", "classicus meus, cui proprium sine fraude servivit ingeniuni", sicuro di non cedere alla retorica, poiché "sine adulationis suspicione est inter aequales amicitia personas". Da questi pochi dati - la dictio di Ennodio si colloca negli anni tra il 496 e il 502 - si è recentemente proposto di portare più indietro, a circa il 480, la data di nascita di A., contro la datazione vulgata del 490 (Anastasi).
Tra i quindici e i vent'anni perciò, dopo l'educazione ricevuta dal padre, "egregie litteris eruditus" - la notizia è sempre di Cassiodoro -, A. ebbe a Milano la sua formazione decisiva, nella città che dopo un periodo di confusione e distruzione culminato nei giorni tragici della sconfitta di Odoacre (493), aveva ripreso un ordinato vivere sociale; e il vescovo Lorenzo, nel clima di pace garantito da Teodorico, poteva pensare oltre che alla ricostruzione materiale a quella spirituale e culturale. In questi anni di ripresa, la scuola di Deuterio rappresentava. per quel che pare, la tradizione grammaticale e retorica antica, che aveva sì mostrato tutta la debolezza e astrattezza dei suoi fondamenti proprio nelle recenti vicende - dommate dagli uomini e dai guerrieri venuti da fuori -, ma che tramandava una componente ancora indispensabile per la formazione civile. Del resto la costante presenza di Lorenzo e il magistero di Ennodio dimostrano che la cultura si andava sempre più legando alla Chiesa e trovava in essa il suo momento di inserimento civile e dunque una sua ragione di validità. Per A. il periodo milanese rimase fondamentale, ché tutta la sua vita, per quel che è nota, permarrà intimamente legata a quelle esperienze, a quella duplice matrice umana e culturale, della tradizione pagana e della spiritualità cristiana; come costante si continuerà l'amicizia con Ennodio, che in questo tempo gli dedicherà due brevi poesie (Carm. 2, 105; 2, 114) e altre due dictiones (18 e 22), e un'altra gli preparerà alla fine del curriculum di studi: "Dictio data Aratori quando ad laudeni provectus est" (Dict.12).
Da Milano A. passò, ma non sappiamo esattamente quando, a Ravenna, forse attrattovi dai richiami culturali e politici che la corte di Teodorico certo esercitava, forse per continuare i suoi studi con la guida amichevole di un nipote di Ennodio, Partenio; ma nei due casi non è improbabile che Ennodio stesso lo abbia indirizzato a Ravenna. Con Partenio l'esperienza culturale di A. si va ampliando: legge Cesare e soprattutto i poeti, sia cristiani sia pagani, Ambrogio, Sidonio Apollinare, Decenzio (identificato con Draconzio dall'Ebert, con Sedulio dal Manitius), e si va precisando in lui una vocazione poetica; scrive in questi anni dei componimenti in versi di ispirazione e contenuto mitologici, che non ci sono rimasti, e non dovette restare insensibile alle critiche e ai consigli di Ennodio e Partenio, che lo invitavano alla poesia sacra. Questo primo periodo ravennate si può far iniziare, con qualche incertezza, al 510 circa, poiché forse al 510 e al 512 si datano due delle tre lettere inviategli da Ennodio (Epist. 8, 4; 8,11; 9, 1) le risposte di A. sono andate perdute da esse emerge anche un momento di crisi spirituale in A., che l'Anastasi colloca post 511; di fronte ad una delusione sentimentale, che ha reso l'amico incerto delle ragioni stesse del suo vivere ed operare, Ennodio invita perentoriamente A. a mutar vita "post Musarum castra et inanes aetate nostra cantilenas" (Epist. 9, 1): finita la gioventù, si faccia una famiglia, si dia ad opere più degne e grandi delle esercitazioni poetiche.
In ogni caso, A. non dové trascurare a Ravenna l'educazione retorica iniziata a Milano, così da poter esercitare l'avvocatura, e dové legarsi sempre più ai circoli dirigenti della corte gota. Non è possibile dire quando abbia iniziato la carriera politica, ma certo ante 526 era "comes domesticorum", e certo ebbe l'occasione per farsi notare da Teodorico stesso, forse nell'anno della morte del re, quando gli presentò una ambasceria dei Dalmati, e seppe difendere le ragioni dei provinciali "non communibus verbis, sed torrenti eloquentiae flumine" (Cassiodoro, Variae VIII,12), tanto da non suscitarne il fastidio, ma da interessarlo vivamente. In questo secondo periodo ravennate A. viene a ricoprire una posizione di particolare rilievo, tuttavia, solo dopo la morte di Teodorico, ed entro l'ambito della politica cassiodoriana. Cassiodoro poteva apprezzare pienamente la formazione retorica di A., e la sua direttiva di collaborazione tra Goti e Romani trovava nei funzionari di origine provinciale uno dei suoi punti di forza. Così quando cercò di arginare la reazione antibarbara e anticattolica che minacciava di manifestarsi alla morte del re, allontanò alcuni ministri che erano stati implicati nei processi e nelle condanne del 524-525, e alla carica di "comes rerum privatarum", già ricoperta da Ambrogio, fece nominare da Atalarico Aratore (fine del 526). E la lettera che Cassiodoro gli invia, in nome del re, è un ritratto spirituale di A., dettato da schietta stima e da un affettuoso consenso ai suoi ideali.
Da Ravenna a Roma e dalle occupazioni politiche alla vita religiosa: questo l'ultimo traguardo della vita di A., ed anche quello su cui siamo meno informati. E' forse legittimo pensare che le vicende stesse della corte gota e la spedizione di Giustiniano per la ripresa d'Italia (535) abbiano costretto A. a lasciare Ravenna, ma in un suo verso a papa Vigiflo (537-555) - "corporeurn satis est sic evasisse periclum/ at mihi plus animae nascitur iride salus" - pare adombrata una crisi spirituale, oltre la gratitudine per aver avuta salva la vita. A. divenne così suddiacono della Chiesa di Roma. E riprese l'attività poetica in una direzione ormai decisamente sacra, come egli stesso confessa: "sensibus ardor inest horum celebrare labores / quorum voce fides obtinet orbis iter", e come del resto è caratterizzata in buona parte la cultura nella Roma di questo momento.
In questi anni A. scrisse la sua trasposizione poetica degli Atti degli apostoli, che ci è tramandata nella maggior parte dei testimoni manoscritti con il titolo di Historia apostolica e in altri, come negli editori moderni, forse a torto, con quello di De actibus apostolorum. Il poema era finito nell'aprile del 544 e A. lo offrì a papa Vigilio, che lo apprezzò e dispose che fosse conservato nello scrinio pontificio. Ma la notizia del nuovo poema si era sparsa per Roma e A. ne dovette dare in S. Pietro in Vincoli pubblica lettura, secondo una antica tradizione che era dunque ancora viva; e il poema ebbe tale successo - la notizia è conservata in una soscrizione a un gruppo di codici - che A. dovette continuare la lettura per quattro giomi, sollecitato spesso dalle insistenze degli ascoltatori a rileggere i brani che maggiore consenso avevano ottenuto. Le ragioni di tale accoglienza andranno cercate probabilmente nella materia della Historia, che pone al suo centro le vite degli apostoli Pietro e Paolo, e nella natura della costruzione poetica, costantemente portata a soluzioni mistiche e allegoriche; ma riteniamo che un motivo più immediato abbia richiamato l'attenzione e costretto l'interesse dell'uditorio al consenso: la presenza cioè, seppure velata, di alcuni echi all'attualità politica e religiosa: non tanto alle controversie ariane e nestoriane, quanto piuttosto, in Roma ancora al centro della guerra tra Goti e Bizantini, in un momento in cui i Goti stavano per rientrare in città, alla salvezza che a Roma veniva da Pietro. In S. Pietro in Vincoli A. ricordava ai Romani che l'apostolo era stato liberato per intervento soprannaturale dalle catene della prigionia, e che per sempre le catene di Pietro portavano con sé questo significato.
La Historia si divide in due libri di 1076 e 1250 esametri. Sull'esempio di Sedulio il testo biblico è seguito molto liberamente, ed ogni libro è costruito in modo da narrare rispettivamente le storie di s. Pietro e di s. Paolo piuttosto che l'intero quadro della Chiesa primitiva che gli Atti presentavano. La semplificazione poteva certo giustificarsi positivamente ai fini della narrazione epica. Ma le intenzioni di A. non lo portano propriamente ad un dettato di tale natura; "alternis reserabo modis quod littera pandit / et res si qua milii mystica corde datur": egli desidera interpretare in versi il suo testo secondo la lettera e l'auegoria mistica, ed è senza dubbio il secondo modo a costituire il suo centro di interesse spirituale e dunque di ispirazione poetica. Così le parti narrative sono ridotte al minimo indispensabile, mentre acquistano piena autonomia e un ruolo preponderante le sezioni mistico-allegoriche. E si comprende allora come l'unità del poema sia data da quest'ultimo interesse e come A., una volta operata una semplificazione contenutistica, ed è questa la sua invenzione strutturale e narrativa, potesse non preoccuparsi di un vero e proprio sviluppo degli avvenimenti e di un'apparenza frammentaria, che al poema rimane. La sua poesia in tal modo punta tutto sulla concentrazione spirituale e sulla significanza auegorica, e in questo sfrutta con una notevole ricchezza di linguaggio la tradizione cristiana, dal gusto dell'etimologia al valore simbolico del numero, come non rifugge dall'accettare dalla tradizione pagana ed anche dal patrimonio mitologico continue figure e immagini. Entro quest'ambito A. mostra anche il suo limite: solo una grande ricchezza spirituale ed una vivissima ispirazione potevano produrre una costante bellezza in una struttura che richiedeva neces!ariamente una rigorosa lirica. In lui si ha mvece, riteniamo, una modestia intellettuale da cui si genera monotonia di tematica e di invenzione, che il susseguirsi di medesime cesure negli esametri sottolinea.
In A., che si è voluto da più d'uno chiamare l'ultimo poeta, in Italia, del sec. VI e dunque l'ultimo poeta dell'antichità, troviamo una testimonianza, in definitiva, di un mondo in crisi, non ben sicuro delle sue ragioni civili anche se portato ad affrontare culturalmente, con coraggio e non sempre con chiarezza, i problemi di una nuova idealità di fronte all'antica.
Il poema di A. ha avuto una grande fortuna durante il Medioevo, in tutta Europa. Ma non è possibile rendersi conto se non genericamente, così come sono i nostri studi, delle ragioni che di generazione in generazione possono avere motivato tale successo. Una ragione risiede, ovviamente nella tematica biblica del poerna, che lo porta costantemente a fianco di Prudenzio, Sedulio e Giovenco nelle letture medievali, come nelle sue componenti allegoriche e oscure che spesso hanno profondamente interessato il Medioevo. A noi sembra che il momento di maggiore interesse si possa forse datare ai sec. IX e X, facendolo così coincidere con la problematica culturale carolingia. Dei quattro commenti che si conoscono, tre sono anonimi e risalgono a questi secoli, mentre il quarto, dovuto ad Arius Barbosa, è del sec. XVI e di una regione marginale come il Portogallo. La tradizione manoscritta stessa, che consta di più di 130 codici (cfr. McKinlay), se mostra nell'unico testimone ante 800 già i segni della corruzione, si distingue durante il sec. IX in due famiglie e in questo stesso periodo si produce una tradizione contaminata piuttosto vasta, che è segno certo di letture intense ed attente; la tradizione, cioè, pare aver trovato la sua sistemazione determinante già nel sec. IX. E tra le testimonianze numerose dei lettori di questo secolo èemblematica quella di Giovanni di Fulda: "Virgilius paleas, frumentum, praebet Arator, / hic mansura docet, ille caduca referts". A. fu letto certo nella scuola anche nei secoli seguenti, come documentano codici di excerpta e manuali di letteratura a cominciare da quello di Corrado di Hirsau. Ma pare rimasto estraneo agli interessi dell'Umanesimo (la prima edizione si avrà solo verso il 1500) e la stessa filologia moderna l'ha trascurato fino ai recenti lavori e all'edizione del McKinlay.
Il poema è accompagnato da tre epistole in versi di A., importanti per la sua biografia. Sono la lettera con cui offre il poema a papa Vigilio, quella di dedica all'amico Partenio e quella con cui lo invia a Floriano, che è forse da identificarsi con l'"abbas monasterii Romeni", vissuto nella diocesi milanese nella prima metà del secolo VI.
Di A. non c'è rimasto altro, se non forse due iscrizioni dal De Rossi datate al tempo di papa Damaso e solo recentemente, ma non pare con motivazioni incontrovertibili, attribuitegli (cfr. Brewer). Dopo l'episodio del 544 altro infine non conosciamo della sua vita.
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