Abstract
L’arbitrato è uno dei mezzi giurisdizionali di soluzione delle controversie internazionali, alternativi all’accordo fra le parti che pure costituisce il fondamento dell’efficacia vincolante del lodo. Agli arbitri spetta la funzione di decidere la controversia secondo diritto; rispetto al regolamento giudiziario, l’arbitrato si caratterizza per la maggiore adattabilità alle esigenze ed alle scelte delle parti, che possono decidere di comune accordo la composizione del collegio e le regole procedurali da seguire, nonché individuare, in ampia misura, le norme giuridiche sulle quali dovrà fondarsi la decisione. Laddove tali profili non siano compiutamente disciplinati, spettano comunque agli arbitri i poteri “inerenti” necessari ad assicurare un adeguato svolgimento della procedura e l’efficacia della sentenza.
L’arbitrato figura fra i mezzi di soluzione delle controversie internazionali elencati nell’art. 33 della Carta delle Nazioni Unite. Esso costituisce, insieme al regolamento giudiziario, uno dei mezzi di definizione delle controversie alternativi all’accordo, la cui obbligatorietà riposa pur sempre sulla comune volontà espressa dalle parti in ordine al deferimento ad arbitri della controversia (v. infra, § 6). L’arbitrato internazionale moderno è strettamente collegato all’affermarsi dell’ordinamento internazionale quale insieme di norme teso a regolare rapporti fra enti sovrani (Arangio-Ruiz, G., Arbitrato, in Enc. dir., II, Milano, 1958, 974 ss., 976). A questa tipologia di arbitrato, fra i cui primi esempi si ricordano le decisioni delle Commissioni miste istituite sulla base del Trattato di Jay, del 17.11.1794, si attaglia la definizione fornita dall’art. 15 della Convenzione dell’Aja per la soluzione pacifica delle controversie internazionali del 1899: «L’Arbitrage international a pour objet le réglement des litiges entre les États par des juges de leur choix et sur la base du respect du droit».
Tale definizione può ancora considerarsi valida, tranne che per un aspetto: anche in ragione dell’ampliata base soggettiva cui si rivolge il diritto internazionale, l’arbitrato può oggi coinvolgere non solo gli Stati, ma anche soggetti non statali quali organizzazioni internazionali (cfr. l’art. 14 dell’Accordo quadro in materia finanziaria e amministrativa fra CE e ONU del 29.4.2003); ovvero movimenti insurrezionali (v. la sentenza arbitrale 22.7.2009 nell’affare Governo del Sudan c. Movimento di liberazione del popolo sudanese, in ILM, 2009, 1254 ss.). È inoltre sempre crescente il ruolo dell’arbitrato come mezzo di soluzione delle controversie fra investitori e Stati stranieri: prescindendo dalla complessa questione relativa alla personalità giuridica internazionale di individui ed imprese, e pur tenendo conto del fatto che la qualificazione di specifici meccanismi di soluzione come propriamente interstatali ovvero riferibili piuttosto al modello dell’arbitrato “misto” non è sempre agevole (cfr. Caron, D., The Nature of the Iran-United States Claims Tribunal and the Evolving Structure of International Dispute Resolution, in AJIL, 1990, 104 ss.), tale tipologia di arbitrato comunque assume rilievo propriamente internazionale in quanto si svolga sulla base di accordi fra Stati.
Non a caso, una delle ragioni del perdurante successo dell’arbitrato è la maggiore flessibilità che esso dimostra, rispetto al regolamento giudiziario, appunto per quanto attiene alla possibilità di coinvolgimento diretto di enti diversi dagli Stati. Un’istituzione di origine risalente come la Corte permanente di arbitrato, che già nel 1935 ha ospitato nella propria sede un arbitrato fra uno Stato e una società privata (v. la nota del suo Segretario generale del 3.3.1960, in AJIL, 1960, 937), ha potuto rilanciare il proprio ruolo anche grazie all’adozione di una serie di Optional Rules applicabili ad un variegato spettro di situazioni: controversie fra Stati, fra Stati ed organizzazioni internazionali o fra organizzazioni internazionali, nonché fra queste ed altre categorie di soggetti (v.da ultimo le PCA Arbitration Rules 2012, disponibili all’indirizzo http://pca-cpa.org; cfr. Siblesz, H., What Role for the Permanent Court of Arbitration Today?, discorso tenuto il 13.2.2013, ibidem). Ciò in significativo contrasto con il modello processuale tutt’ora prefigurato dall’art. 34, § 1, dello Statuto della Corte internazionale di giustizia.
La qualificazione di un dato procedimento di soluzione delle controversie come “arbitrale” non dipende dal nomen ad esso attribuito, bensì dalla tipologia di funzioni in concreto esercitata dall’organo costituito a questo fine: così, sono dei veri e propri tribunali arbitrali taluni organismi denominati “Commissioni di conciliazione” (v., ad es., Commissione mista anglo-italiana, decisione n. 22, 8.5.1954, Casi di doppia cittadinanza, in United Nations Reports of International Arbitral Awards, XIV, 27 ss.). Non rientrano invece propriamente nel fenomeno forme di arbitrato consultivo, come quello svoltosi sulla base dell’Accordo fra Gran Bretagna, Stati Uniti e Francia relativo all’Oro della banca d’Albania concluso a Washington il 25.4.1951 (sulla distinzione fra arbitrato e regolamento giudiziario v. infra, § 7).
2. L’accordo attributivo di giurisdizione
Il deferimento ad arbitri di una controversia internazionale dipende dall’accordo fra le parti, in armonia con il principio di libera scelta dei mezzi di soluzione che, insieme all’obbligo di soluzione pacifica sancito dall’art. 2, § 3, della Carta ONU, costituisce uno dei cardini del sistema internazionale di soluzione delle controversie.
Le modalità di manifestazione di tale consenso sono varie. Accanto al compromesso isolato, che deferisce ad arbitri una controversia già sorta o parte di essa, è frequente l’inserimento in accordi di più ampia portata di clausole compromissorie, tese ad attribuire ad arbitri la competenza a decidere di eventuali future controversie relative all’interpretazione o all’applicazione degli accordi stessi; si registra inoltre la conclusione di trattati o convenzioni specificamente tesi a regolare la soluzione pacifica delle controversie, fra cui accordi (normalmente indicati come «trattati generali di arbitrato») che hanno come oggetto precipuo l’attribuzione ad arbitri della competenza a conoscerne determinate categorie. Un’integrazione della competenza degli arbitri rispetto a profili non coperti dall’accordo originario ma sollevati da una delle parti è talvolta possibile laddove la controparte non obietti nulla al riguardo (v. amplius Santulli, C., Droit du contentieux international, Paris, 2005, 148 ss.).
Le clausole compromissorie e i trattati generali di arbitrato prevedono talvolta un semplice impegno a compromettere ad arbitri qualunque controversia dovesse sorgere in futuro nelle materie previste (v. ad esempio l’art. 16 della Convenzione fra Australia, Giappone e Nuova Zelanda per la conservazione del tonno pinna blu meridionale, del 10.5.1993); questa tipologia “non completa” di accordo consente alla parte, che non abbia in concreto più interesse a sottoporre a giudizio arbitrale una controversia già sorta, di impedire la costituzione del tribunale arbitrale (cfr. Commissione per il diritto internazionale, commento introduttivo alle Model Rules on Arbitral Procedure da questa adottate, in YBILC, 1958, vol. II, 83). Le formulazioni d tipo “completo”, ormai più frequenti, consentono invece la sottoposizione della controversia ad arbitri mediante ricorso unilaterale. Nei casi dubbi, l’effettiva natura di una clausola può essere ricostruita anche alla luce del «grado di definizione» degli altri aspetti dell’impegno arbitrale, quali la composizione del Tribunale o i profili procedurali (Salvioli, G., Controversie internazionali, in Nss. D.I., IV, Torino, 1959, 768). Vi è comunque una tendenza nella prassi contemporanea a leggere gli accordi che nulla dicano sulla possibilità di un ricorso unilaterale in senso favorevole a questa ipotesi (v., seppure con riferimento alla Corte internazionale di giustizia, Personale diplomatico e consolare degli Stati Uniti a Teheran,sentenza 24.5.1980, ICJ Reports,1980, 27,§ 51).
In simili casi, là dove siano state rispettate le ulteriori condizioni eventualmente previste dall’accordo (ad esempio, quanto al previo esperimento di negoziati: per i rapporti fra diversi procedimenti di soluzione delle controversie v. Forlati, S., Controversie internazionali, in Diz. dir. pubbl. Cassese, Milano, 2006, 1465), ciascuna parte può sottoporre unilateralmente la controversia ad arbitri, senza che ciò costituisca un abuso di diritto (v. il lodo sulla Delimitazione della zona economica esclusiva e della piattaforma continentale, Barbados c. Trindidad e Tobago, 11.4.2006, in United Nations Reports of International Arbitral Awards, XXVII, 147 ss., § 208).
Spetta alle parti stabilire, di comune accordo, la struttura e le regole di funzionamento del Tribunale arbitrale. Le modalità di composizione del collegio sono demandate alla loro libera scelta, ivi inclusa la possibilità di nominare arbitri “tecnici” con specifiche esperienze in campo non giuridico. Spesso lo strumento che prevede il deferimento ad arbitri regola direttamente questi aspetti, e previene i rischi connessi all’eventuale inerzia del convenuto nella fase di costituzione del Tribunale attraverso l’individuazione di appointing authorities quali, ad esempio, Stati terzi (v. l’art. 24 della Convenzione dell’Aja del 1899), il Segretario generale delle Nazioni Unite (v. lo scambio di lettere fra Francia e Nuova Zelanda del 9.7.1986, relativo all’affare Rainbow Warrior, riprodotto nella sentenza, in United Nations Reports of International Arbitral Awards, XX, 218), quello della Corte permanente di arbitrato (v. l’elenco disponibile all’indirizzo http://pca-cpa.org), ovvero i Presidenti della Corte internazionale di Giustizia (v. l’art. 21 della Convenzione europea per la soluzione pacifica delle controversie del 1957) o del Tribunale per il diritto del mare (v. l’art. 3 dell’Allegato VII della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, di seguito UNCLOS).
Secondo una prassi che non ha del tutto perso la propria rilevanza, la funzione arbitrale può essere demandata a capi di Stato: ad esempio, la decisione sull’affare del Canale di Beagle fu demandata al Governo di Sua Maestà Britannica sulla base del trattato generale di arbitrato concluso fra Cile ed Argentina nel 1902 (v. la sentenza 18.2.1977, in United Nations Reports of International Arbitral Awards, XXI, 53 ss.). Quanto invece all’ipotesi, ormai consueta, di arbitri che siedono a titolo individuale, non è frequente oggi la designazione di un arbitro unico (come invece avvenuto ad esempio nell’arbitrato relativo all’Isola di Palmas, lodo 4.4.1928, in United Nations Reports of International Arbitral Awards, II, 831 ss.); ciascuna delle parti in controversia ha diritto a nominare direttamente un numero equivalente di arbitri cui spetta poi individuare d’intesa uno o più arbitri “imparziali”, fra cui il Presidente; tutti i componenti sono tenuti a rispettare i requisiti di imparzialità comuni anche agli organismi propriamente giudiziari di soluzione delle controversie (v. la decisione motivata sulla ricusazione nell’affare Mauritius c. Regno Unito, 30.11.2011, par. 168, disponibile all’indirizzo http://pca-cpa.org, nonché, sul caso altamente problematico dell’arbitrato Croazia c. Slovenia, Sands, P., Developments in Geopolitics: The End of Judicialization?, relazione conclusiva della 2015 ESIL Annual Conference, Oslo, 12 settembre 2015).
Analogamente a quanto avviene nel contesto del regolamento giudiziario, presupposto necessario perché gli arbitri giungano ad una decisione di merito è l’esistenza di una controversia internazionale, intesa come concreta contrapposizione di posizioni giuridiche o di interessi (cfr. Corte permanente di giustizia internazionale, Concessioni Mavrommatis in Palestina, sentenza 30.8.1924, Serie A, No. 2, p. 11). Così, nell’affare Larsen c. Regno delle Hawaii, il Tribunale arbitrale ha confermato che «function of international arbitral tribunals in contentious proceedings is to determine disputes between the parties, not to make abstract rulings. It follows that if there is no dispute between the parties the tribunal cannot proceed to a ruling. It must also be one actually arising between the parties at the time of the proceedings and not one which has become moot» (sentenza 5.2.2001, disponibile all’indirizzo http://pca-cpa.org, par. 11.3); questo requisito deve essere verificato autonomamente ed ex officio dal tribunale arbitrale (ivi, §§ 11.7 e 12.6). Possono essere sottoposte ad arbitrato anche controversie non strettamente giuridiche: è anzi stato sostenuto che l’arbitrato sarebbe più idoneo rispetto al regolamento giudiziario a risolvere controversie appunto di carattere politico (Sohn, L., The Function of International Arbitration Today, in RCADI, 108, 1963, 1 ss.).La prassi più recente pare indicare, per il vero, una tendenza ad affidare ad arbitri il compito di risolvere le controversie loro sottoposte secondo diritto, piuttosto che ex aequo et bono (come pure sarebbe possibile in presenza di un espresso accordo), implicitamente riconoscendone il carattere giuridico.
Spetta alle parti stabilire anche le modalità di svolgimento della procedura (cfr., ad esempio, l’art. 52 della Convenzione dell’Aja del 1907; e l’art. 5 dell’Allegato VII UNCLOS), autonomamente ovvero rinviando a model clauses come quelle adottate dalla Commissione di diritto internazionale o dalla Corte permanente di arbitrato, cui già si è fatto cenno. Fra i profili che le parti possono regolare rientrano l’individuazione della lingua in cui si svolgerà la procedura, nonché la pubblicità da dare alla sua esistenza ed ai suoi esiti. Proprio la riservatezza con cui il procedimento si può svolgere è anzi uno dei fattori suscettibili di indurre le parti in controversia ad optare per l’arbitrato piuttosto che per il regolamento giudiziario: è indicativo al riguardo il procedimento pendente nell’affare del Trattato sul Mare di Timor (Timor-Leste c. Australia), a cui solo indirettamente ha dato pubblicità la causa pendente fra le stesse parti dinanzi alla Corte internazionale di giustizia nell’affare del Sequestro di documenti e dati (v. in particolare l’ordinanza sulle misure cautelari del 3 marzo 2014, disponibile all’indirizzo www.icj-cij.org).
Nell’inerzia delle parti, o se vi sia necessità di integrare quanto da loro deliberato, sarà il Tribunale a disporre, di norma dopo averle sentite, i provvedimenti necessari: ai tribunali arbitrali si riconosce infatti il “potere inerente” di adottare qualunque deliberazione necessaria a garantire un adeguato svolgimento della procedura, analogamente a quanto accade per gli organismi giudiziari internazionali (v. gli affari degli Esperimenti nucleari, sentenze 20.11.1974; per quella relativa alla Nuova Zelanda v. ICJ Reports,1974, 463, par. 23; cfr. Gaeta, P., Inherent Powers of International Courts and Tribunals, in Man’s Inhumanity to Man, a cura di Vorhah, L.C., ed altri, The Hague, 2003, 353 ss.; Brown, C., A Common Law of International Adjudication, Oxford, 2007, 55 ss.).
È indiscussa, ormai, la competenza del Tribunale arbitrale a decidere sulla sussistenza della propria competenza, e dunque sull’arbitrabilità della controversia, anche laddove l’accordo attributivo di giurisdizione nulla dica sul punto: ciò «in applicazione di un principio di diritto internazionale comune» (così Salvioli,G., op. cit., 769), la cui esistenza è stata riconosciuta anche dalla Corte internazionale di giustizia (Nottebohm, sentenza sull’obiezione preliminare, 18.11.1953, 119; cfr. già l’affare Alabama,su cui Bingham, T., The Alabama Claims Arbitration, in ICLQ, 2005, 1 ss.). La competenza del Tribunale dovrà essere necessariamente ricostruita alla luce dello strumento, o degli strumenti, che integrano la base giurisdizionale. Può essere sottoposta ad arbitrato anche solo parte di una controversia più complessa che non rientri completamente nell’ambito di applicazione dello strumento in forza del quale esso si svolge: emblematica a questo riguardo la vicenda relativa ai procedimenti “paralleli” istituiti negli affari relativi alla Convenzione OSPAR (sentenza 2.7.2003, in United Nations Reports of International Arbitral Awards, vol. XXIII, 59 ss.) e Mox Plant (la cui estinzione è stata dichiarata con ordinanza n. 6, 6.6.2008, disponibile all’indirizzo http://pca-cpa.org), nell’ambito dei quali l’Irlanda contestava sotto diversi profili la liceità della costruzione di un impianto di smaltimento di scorie nucleari da parte del Regno Unito.
La possibilità di rendere una decisione separata su singoli profili di una data controversia è questione delicata, come mostrano bene le obiezioni sollevate dalla Cina rispetto all’avvio, da parte delle Filippine, della procedura arbitrale relativa alla delimitazione marittima nel Mare cinese meridionale, nell’ambito della quale il Presidente del Tribunale per il diritto del mare ha provveduto a nominare quattro dei cinque componenti del collegio arbitrale (v. il comunicato stampa ITLOS/Press 191, del 25.4.2013, e le dichiarazioni del portavoce del Ministero degli affari esteri della Repubblica popolare cinese del 26.4.2013, su cui American Society of Int. Law, International Law in Brief, 17.5.2013). Se è vero che agli arbitri internazionali è riconosciuta la competenza “inerente” a valutare, in via incidentale, ogni questione giuridica che sia necessario affrontare al fine di decidere sulle questioni principali (v. ancora Santulli, C., op. cit., 141 ss.), queste ultime devono comunque dare luogo ad una «self-contained and distinct dispute» rispetto a quelle preliminari (cfr. l’affare Mox Plant, ordinanza n. 3, 24.6.2003, par. 26, disponibile all’indirizzo http://pca-cpa.org). Là dove, come nell’affare Filippine c. Cina, il rifiuto della parte convenuta di collaborare alla costituzione del Tribunale arbitrale sia superabile sulla base di quanto previsto dalla clausola compromissoria, spetta appunto a quest’ultimo pronunciarsi in proposito, anche d’ufficio se il convenuto è contumace.
Nel silenzio dello strumento attributivo di giurisdizione, poteri “inerenti” spettano al Tribunale arbitrale anche per quanto riguarda lo svolgimento della procedura, fra l’altro rispetto ai termini per il deposito delle difese scritte, all’organizzazione della fase orale, all’assunzione delle prove, alla nomina di consulenti tecnici, ad eventuali sopralluoghi da parte del Collegio. Tali poteri sono stati intesi in modo ampio dalla giurisprudenza: si è ad esempio riconosciuto che questi includano la competenza a conoscere di eventuali domande riconvenzionali purché esse rientrino nell’ambito della competenza del Tribunale (v. Santulli, C., op. cit., 316; Antonopoulos, C., Counterclaims before the International Court of Justice, The Hague, 2011, 12 ss.). Il Tribunale arbitrale può inoltre emettere misure provvisorie (Tribunale Iran-Stati Uniti, E-Systems c. Iran, lodo parziale n. 13-388-FT, 4.2.1983, 10)con efficacia vincolante (come si deduce dal linguaggio usato ad esempio nell’ordinanza 23.09.2011 nell’affare Kishenganga, disponibile all’indirizzo http://pca-cpa.org, spec. 42 e 49); ovvero sospendere il procedimento (v. ancora l’affare Mox Plant, ordinanza n. 3 cit.).
È da escludere invece che fra i poteri “inerenti” dei tribunali arbitrali interstatali rientri quello di autorizzare l’intervento di soggetti terzi rispetto alla procedura, pur se parti dello strumento attributivo della competenza a giudicare. Invero, comunicazioni a titolo di amici curiae sono considerate in taluni casi ammissibili nell’ambito della protezione internazionale degli investimenti (v. Bastin, L., The Amicus Curiae in Investor-State Arbitration, in Cambridge Journal of Comparative Law, 2012, 208 ss.); nel contesto dell’OMC l’art. 25 dell’Intesa sulla soluzione delle controversie consente anche a soggetti terzi di partecipare a pieno titolo al procedimento arbitrale, seppure solo con il consenso delle parti in lite; mentre l’art. 2008, § 3, dell’Accordo NAFTA prevede un vero e proprio diritto in questo senso laddove il terzo ritenga di avere un «substantial interest in the matter». Tuttavia, in assenza di pattuizioni simili non si prefigura nell’arbitrato interstatale la possibilità di un coinvolgimento dei terzi in forma comparabile a quella prevista dagli Statuti della Corte internazionale di giustizia (artt. 62 e 63) o del Tribunale per il diritto del mare (artt. 31 e 32). Ciò emerge con chiarezza dal già citato affare Barbados c. Trinidad e Tobago: con riferimento alle informazioni spontaneamente trasmesse dalla Guyana, relative al limite esterno della propria zona economica esclusiva, il lodo si limita a menzionare una lettera in cui il Presidente del Tribunale notava che le informazioni in questione erano state “portate all’attenzione” del collegio, sottolineando poi che «the Tribunal’s award does not prejudice the position of any [third] State in respect of any such boundary» (§§ 40 e 218).
Anche l’oggetto del lodo è determinato dalla volontà espressa dalle parti nello strumento con cui viene concordato il deferimento ad arbitri (salva eventualmente la possibilità di “proroga tacita” discussa sopra), oltre che dalle domande in concreto sottoposte al collegio. Qualora ciò sia consentito dalla combinazione di tali due elementi, il lodo potrà includere, oltre all’accertamento dei fatti di causa e dell’eventuale illiceità dei comportamenti contestati, anche una condanna alla riparazione, normalmente in forma pecuniaria (v. Brower, C.H., Arbitration, in Max Planck Encyclopedia of Public International Law, I, Oxford, 2012, 530 ss.).
Spetta inoltre alle parti individuare le regole giuridiche sulla base delle quali la controversia sarà decisa (emblematico al riguardo l’art. VI del Trattato concluso a Washington l’8.5.1871 fra Regno Unito e Stati Uniti d’America, relativo all’affare dell’Alabama) o eventualmente stabilire che la pronuncia debba essere resa secondo equità. In assenza di disposizioni contrarie, i tribunali arbitrali si sono ritenuti competenti ad applicare non solo l’accordo attributivo di giurisdizione in quanto tale, bensì anche norme consuetudinarie e principi generali di diritto (si veda ancora il lodo reso nell’affare della Convenzione OSPAR, par. 84; v. supra,§ 5.2,), mentre l’eventuale incompatibilità con norme imperative delle regole speciali concordate fra le parti deve essere valutata d’ufficio (ibidem).
Quest’ultimo dato, in particolare, conferma la strutturale non riconducibilità del lodo all’accordo fra le parti in lite, nonostante quanto autorevolmente sostenuto in passato (v. in particolare Anzilotti, D., Corso di diritto internazionale,III, Roma, 1915, 8; contra,Morelli, G., La sentenza internazionale, Padova, 1931, 19 ss., anche per la qualificazione del lodo come fatto giuridico in senso stretto; parrebbe per la verità più convincente, alla luce della prassi recente, configurarlo come atto giuridico, attribuibile al Tribunale piuttosto che alle parti: Santulli, C., op. cit., 73).
Il lodo è di norma adottato a maggioranza e motivato; può riguardare anche solo taluni aspetti della controversia, riservando ad un successivo momento la decisione sui rimanenti (v. l’affare Kishenganga, Pakistan c. India, lodo parziale 18.2.2013, disponibile all’indirizzo http://pca-cpa.org). È vincolante per le parti che la devono eseguire in buona fede. Normalmente, è definitivo e senza appello (cfr. l’art. 54 della Convenzione dell’Aja del 1899): ipotesi di impugnazione debbono essere espressamente previste.
Il lodo risolve la controversia dal punto di vista giuridico, ma non necessariamente la estingue: nell’affare del Canale di Beagle, ad esempio, l’Argentina eccepì la nullità del lodo sopra ricordato e si giunse ad una definitiva soluzione della controversia grazie alla mediazione della Santa Sede (v. il Trattato di pace ed amicizia del 29.11.1984). Si tratta di casi tutto sommato eccezionali, nonostante l’assenza, in diritto internazionale, di meccanismi istituzionalizzati di portata generale idonei ad assicurare il rispetto delle pronunce arbitrali (Arangio-Ruiz, G., op. cit., 992; Reisman, M. Nullity and Revision – The Review and Enforcement of International Judgments and Awards, New Haven, 1971, 208 ss.).
Salva diversa stipulazione, il Tribunale arbitrale è comunque ritenuto competente ad esaminare domande di interpretazione, tese a chiarire il significato di una pronuncia, ovvero di revisione, miranti a rettificarne il contenuto laddove emergano fatti nuovi decisivi (artt. 82-83 della Convenzione dell’Aja del 1907; sulla revisione, Fonderia di Trail, lodo 11.3.1941, in United Nations Reports of International Arbitral Awards,III, 1954). Obiezioni relative alla validità del lodo (segnatamente per difetto di competenza, gravi vizi procedurali ovvero vizi di motivazione) faranno invece sorgere una controversia autonoma, che potrà eventualmente essere sottoposta al giudizio di un tribunale internazionale ove le parti acconsentano (v. gli affari della Sentenza arbitrale resa dal Re di Spagna, 18.11.1960, in ICJ Reports,1960, 192 ss., e della Sentenza arbitrale del 31.7.1989, sentenza 12.11.1991, in ICJ Reports, 1991, 53 ss., su cui Lattanzi, F., Inesistenza e nullità delle sentenze arbitrali in una pronuncia della Corte internazionale di giustizia, in Riv. dir. int., 1992, 41 ss.; cfr. in generale Leandro, A., La validità della sentenza internazionale nelle controversie fra Stati, Padova, 2012).
L’affermarsi della giurisdizione internazionale permanente non ha pregiudicato il successo dell’arbitrato quale strumento di soluzione delle controversie internazionali: la versatilità che lo caratterizza ne ha anzi consentito l’adattamento alle esigenze della società internazionale contemporanea.
La prassi recente pare comunque confermare l’affermazione di un modello lontano dalle forme latamente conciliative non infrequenti in passato; anzi, meccanismi che pure mantengono una connotazione dichiaratamente arbitrale assumono tratti di istituzionalizzazione. Così, l’art. 287 UNCLOS predispone un complesso sistema di soluzione delle controversie di cui l’arbitrato è solo una componente; analogo è il ruolo dell’arbitro ai sensi degli articoli 22 e 25 dell’Intesa sulla soluzione delle controversie in ambito OMC o dell’art. 2008 NAFTA. Ad un processo simile si assiste del resto anche rispetto agli arbitrati commerciali internazionali, molti dei quali vengono incardinati presso l’ICSID o altre istituzioni come la Corte permanente di arbitrato.
Sfumano così, almeno in parte, talune tradizionali differenze rispetto al regolamento giudiziario, che nel diritto internazionale resta comunque informato al principio consensualistico. Nei singoli sistemi convenzionali la funzione di arbitro viene spesso affidata ad una categoria relativamente ristretta di esperti: emblematico il fatto che gli arbitri nominati ai sensi dell’Allegato VII UNCLOS non di rado hanno esercitato, o esercitano in quello stesso momento, anche la funzione di giudice presso il Tribunale per il diritto del mare. Si attenuano dunque le distinzioni relative alla natura del collegio giudicante (in linea di principio isolata e ad hoc per l’arbitrato, permanente per gli organi giudiziari). Ancora, le pronunce arbitrali rese in questi ambiti sono di norma pubbliche: tale elemento, insieme al ruolo di coesione talvolta svolto informalmente dai segretariati delle istituzioni coinvolte, favorisce una relativa coerenza nella giurisprudenza, oltre che l’emergere di quella «common law of international adjudication» (Brown, C., op. cit.; v. già Sereni, A.P., Principi generali di diritto e processo internazionale, Milano, 1955) ed armonizza oggi i profili procedurali al di là di quanto espressamente stabilito da ciascuno strumento pattizio. Diverso, invece, è il rilievo che possono assumere, nelle due forme di regolamento delle controversie, gli interessi di soggetti terzi rispetto alla procedura: questo resta ad oggi uno dei tratti maggiormente significativi di distinzione fra arbitrato e regolamento giudiziario (Brower, C.H., op. cit., 532; v. amplius Forlati S., The International Court of Justice: An Arbitral Tribunal or a Judicial Body?, Heidelberg, 2014, 13, 177 ss.).
Anzilotti, D., Corso di diritto internazionale,III, Roma, 1915; Antonopoulos, C., Counterclaims before the International Court of Justice, The Hague, 2011; Arangio-Ruiz, G., Arbitrato, in Enc. dir., II, Milano, 1958, 974 ss.; Bastin, L. The Amicus Curiae in Investor-State Arbitration, in Cambridge Journal of Comparative Law, 2012, 208 ss.; Bingham, T., The Alabama Claims Arbitration, in ICLQ, 2005, 1 ss.; Brower, C.H., Arbitration, in Max Planck Encyclopedia of Public International Law, I, Oxford, 2012, 530 ss.; Brown, C., A Common Law of International Adjudication, Oxford, 2007; Caron, D., The Nature of the Iran-United States Claims Tribunal and the Evolving Structure of International Dispute Resolution, in AJIL, 1990,104 ss. ; Forlati, S., Controversie internazionali, in Diz. dir. pubbl. Cassese, Milano, 2006, 1457 ss.; Forlati, S., The International Court of Justice – An Arbitral Tribunal or a Judicial Body?, Heidelberg, 2014, in corso di stampa; Gaeta, P., Inherent Powers of International Courts and Tribunals, in Man’s Inhumanity to Man, a cura di Vorhah, L.C., ed altri, The Hague, 2003, 353 ss.; Lattanzi, F., Inesistenza e nullità delle sentenze arbitrali in una pronuncia della Corte internazionale di giustizia, in Riv. dir. int., 1992, 41 ss.; Leandro, A., La validità della sentenza internazionale nelle controversie fra Stati, Padova, 2012; Santulli, C., Droit du contentieux international, Paris, 2005; Salvioli, G., Controversie internazionali, in Nss. D.I., IV, Torino,1959, 764 ss.; Sereni, A.P., Principi generali di diritto e processo internazionale, Milano, 1955; Reisman, M., Nullity and Revision – The Review and Enforcement of International Judgments and Awards, New Haven, 1971; Sohn, L., The Function of International Arbitration Today, in RCADI, 108, 1963, 1 ss.; Siblesz, H., What Role for the Permanent Court of Arbitration Today?, discorso tenuto il 12.02.2013, disponibile all’indirizzo http://pca-cpa.org.