Abstract
Con la presente voce viene esaminato, con riferimento ai profili e alle problematiche principali, l’istituto dell’arbitrato internazionale, che può essere considerato a tutti gli effetti un terzo genere di arbitrato, distinto rispetto a quello domestico ed estero, e che conosce una sempre maggior diffusione quale strumento di risoluzione delle controversie sorte tra le parti aventi nazionalità diversa.
1. Definizione
L’arbitrato internazionale può essere considerato, a tutti gli effetti, un tertium genus di arbitrato, autonomo e distinto rispetto alle categorie degli arbitrati domestico ed estero.
Il carattere internazionale di un procedimento arbitrale viene, solitamente, determinato mediante tre criteri: a) soggettivo; b) oggettivo; c) misto.
Secondo il criterio soggettivo, è internazionale il procedimento arbitrale che vede coinvolte parti aventi nazionalità differenti e, quindi, aventi la propria residenza o sede in stati diversi (tale criterio è stato, ad esempio, adottato dal legislatore svizzero: art. 176 del Swiss Private International Law Act – PIL –).
Al contrario, il criterio oggettivo prende in considerazione la natura della controversia e della transazione commerciale sottostante. L’internazionalità dell’arbitrato sarà, pertanto, determinata dal coinvolgimento di interessi commerciali internazionali o dall’elemento transfrontaliero caratterizzante, ad esempio, una delle prestazioni oggetto del contratto concluso tra le parti o, ancora, dal fatto che la risoluzione della controversia sia stata devoluta ad un istituto arbitrale internazionale (tale criterio si ritrova, ad esempio, nell’art. 1492 del codice di procedura civile francese).
Infine, il terzo e ultimo, nonché più moderno, criterio, adottato per stabilire il carattere internazionale di un procedimento arbitrale, è quello cosiddetto “misto”, che rappresenta una combinazione dei due precedenti criteri. Tale approccio, che è fatto proprio dall’art. 1 dell’UNCITRAL (United Nations Commission on International Trade Law) Model Law, era stato adottato in passato anche dal legislatore italiano, all’art. 832 c.p.c., a seguito della riforma apportata dalla l. 5.1.1994, n. 25. Com’è noto, tuttavia, la disciplina in materia di arbitrato internazionale, contenuta nel libro IV, titolo VIII, Capo VI del codice di procedura civile, è stata successivamente abrogata dal d.lgs. 2.2.2006, n. 40.
2. Tipologie
Le principali tipologie di arbitrato internazionale che si possono riscontrare sono: l’arbitrato istituzionale e l’arbitrato ad hoc.
Il primo ricorre nel caso in cui le parti abbiano scelto, quale disciplina applicabile al procedimento arbitrale, il regolamento adottato da un determinato istituto arbitrale, che amministrerà quindi, in modo più o meno rigido, la procedura e fornirà anche l’assistenza che le parti dovessero eventualmente richiedere. Inoltre, in caso di arbitrato istituzionale non sarà necessaria alcuna negoziazione tra le parti e gli arbitri per concordare l’ammontare degli oneri professionali di questi ultimi, essendo solitamente già determinate dall’istituto le tariffe applicabili ed essendo, sovente, già previsti anche i meccanismi e le modalità del relativo pagamento che le parti dovranno effettuare.
La seconda forma di arbitrato è rappresentata, invece, dal procedimento arbitrale cosiddetto ad hoc, il quale si verifica quando le parti non hanno voluto o potuto, per mancanza di accordo, selezionare un determinato istituto, ma hanno disciplinato direttamente nella clausola arbitrale il procedimento e le regole ad esso applicabili, che vengono, quindi, appositamente delineate in relazione alla fattispecie concreta e che terranno, pertanto, conto sia del contratto stipulato tra le parti sia della controversia tra le stesse sorta o che potrà sorgere. Indubbiamente, il vantaggio principale di tale tipologia di arbitrato è la grande flessibilità ed autonomia delle parti nello stabilire e concordare la procedura da seguire e le relative regole da applicare, ovviamente, sempre nel rispetto delle norme imperative del luogo dove ha sede l’arbitrato (spesso le parti nel disciplinare il procedimento richiamano determinati regolamenti arbitrali, tra cui, ad esempio, le UNCITRAL Arbitration Rules). Qualora le parti non abbiano, invece, disciplinato nel dettaglio le regole da applicare o non abbiano fatto riferimento a particolari regolamenti arbitrali, solitamente, si fa riferimento alla legge del luogo ove ha sede l’arbitrato al fine di colmare tali lacune.
3. Fonti
3.1 Convenzioni internazionali
Le fonti dell’arbitrato internazionale sono rappresentate, oltre che dalla volontà delle parti espressa nell’accordo arbitrale, dalle convenzioni internazionali, dai regolamenti arbitrali e dalle leggi in materia contenute nei diversi ordinamenti nazionali.
Nell’ambito della prima categoria di fonti riveste carattere fondamentale la Convenzione di New York, in materia di riconoscimento ed esecuzione dei lodi arbitrali stranieri, la quale è stata adottata nel 1958 e risulta essere stata ratificata da più di 140 stati. Tale convenzione ha sostituito il Protocollo di Ginevra del 1923 e la Convenzione di Ginevra del 1927 aventi ad oggetto, rispettivamente, le clausole arbitrali e l’esecuzione dei lodi arbitrali stranieri. L’importanza della Convenzione di New York, come si vedrà più nel dettaglio in seguito, risiede, in particolare, nel fatto di aver facilitato il processo di riconoscimento ed esecuzione dei lodi arbitrali stranieri e di aver favorito l’armonizzazione delle varie discipline nazionali in materia.
Tra le fonti dell’arbitrato internazionale vanno annoverate anche altre convenzioni, adottate successivamente a quella di New York, quali: a) la Convenzione Europea in materia di arbitrato commerciale internazionale adottata nel 1961 allo scopo di promuovere le transazioni commerciali tra Europa orientale ed Europa occidentale; b) la Convenzione di Washington in materia di risoluzione delle controversie, aventi ad oggetto investimenti, sorte tra stati e soggetti investitori stranieri, che è stata adottata nel 1965 e ratificata da più di 140 paesi e che ha determinato l’istituzione dell’International Centre for Settlement of Investment Disputes (ICSID) per la risoluzione delle controversie in materia di investimenti; c) l’Inter-American Convention del 1975 in materia di arbitrato commerciale internazionale; d) la Convenzione araba del 1987 in materia di arbitrato commerciale.
3.2 Regolamenti arbitrali
Come sopra menzionato, un’ulteriore fonte in materia di arbitrato internazionale è rappresentata dai regolamenti arbitrali ed, in particolare, da quelli adottati dai vari istituti arbitrali, quali, ad esempio: a) la International Chamber of Commerce di Parigi (ICC). che è stata istituita nel 1919 e rappresenta l’istituto di arbitrato internazionale maggiormente riconosciuto ed utilizzato a livello mondiale, anche in considerazione del ruolo fondamentale svolto in relazione alla diffusione dell’arbitrato commerciale internazionale. L’ICC, a sua volta, nel 1923 ha dato vita alla Corte Internazionale di Arbitrato, quale organo di risoluzione delle controversie, ed ha pubblicato la prima edizione del proprio regolamento arbitrale (ICC Rules of Arbitration) nel 1922 (al riguardo, si segnala che tale regolamento è stato recentemente oggetto di revisione e la nuova versione entrerà in vigore a partire da gennaio 2012); b) la London Court of International Arbitration (LCIA), che è stata istituita nel 1892 e rappresenta uno dei più antichi istituti arbitrali esistenti; c) l’American Arbitration Association (AAA), stabilita nel 1926, che ha adottato differenti regolamenti arbitrali, tra i quali le Regole di Arbitrato Internazionale, e ha fondato, nel 1996, un centro per la risoluzione delle controversie internazionali (ICDR: International Centre for Dispute Resolution); d) la China International Economic Trade Arbitration Commission (CIETAC), fondata nel 1956 dal governo cinese, che rappresenta il più grande istituto arbitrale della Repubblica Popolare Cinese; e) il già menzionato ICSID. che è stato istituito con la Convenzione di Washington del 1965.
Oltre ai regolamenti propri degli istituti arbitrali, rivestono notevole importanza anche le regole in materia di arbitrato adottate nel 1976 dall’UNCITRAL e recentemente (2010) oggetto di riforma. Le UNCITRAL Arbitration Rules, originariamente pensate per disciplinare l’arbitrato ad hoc, hanno raggiunto un ampio riconoscimento a livello internazionale ed una larga diffusione tanto da essere utilizzate anche da diversi istituti arbitrali.
3.3 Ordinamenti nazionali
Tra le fonti in materia di arbitrato internazionale rientrano anche gli ordinamenti nazionali, alcuni dei quali si distinguono per essere particolarmente favorevoli nei confronti dell’arbitrato (quali quello inglese, francese e svizzero), prevedendo, ad esempio, un’ingerenza ridotta dei tribunali ordinari nella procedura, limitata ai casi in cui tale intervento sia assolutamente necessario ed al mero fine di supportare il procedimento arbitrale.
In merito, si deve segnalare la sempre più diffusa tendenza ad armonizzare ed uniformare le disposizioni in materia di arbitrato internazionale contenute nei diversi ordinamenti nazionali. Esempi importanti di tale processo di armonizzazione sono rappresentati dall’UNCITRAL Model Law, che, assieme alla New York Convention e alle UNCITRAL Arbitration Rules, rappresenta uno dei pilastri dell’arbitrato internazionale.
In particolare, il Model Law, adottato nel 1985 e riformato nel 2006, è stato emanato al fine di assistere gli Stati nel processo di riforma e modernizzazione delle proprie leggi regolanti l’arbitrato ed è stato largamente recepito a livello mondiale, tanto da aver costituito il punto di riferimento per le leggi nazionali in materia di arbitrato di più di 60 paesi, tra i quali, ad esempio, Austria, Germania, Giappone, Irlanda e Spagna (si deve, tuttavia, osservare che altri ordinamenti, quali quello francese, inglese, italiano, olandese, svedese e svizzero, non hanno fatto proprio il Model Law).
4. L’accordo arbitrale
Come noto, l’accordo o convenzione arbitrale rappresenta, da un lato, l’espressione del consenso delle parti a devolvere al collegio arbitrale, anziché ai tribunali ordinari, le controversie tra loro insorte e, dall’altro, la fonte principale del potere e dell’autorità degli arbitri di decidere delle controversie a loro sottoposte.
Vi è, tuttavia, un ulteriore effetto riconducibile a tale convenzione che consiste nell’impedire ai tribunali ordinari di decidere nel merito una controversia qualora sussista un valido accordo arbitrale. Nel caso in cui, infatti, una parte, in violazione di un valido accordo arbitrale, instaurasse un giudizio davanti a un tribunale ordinario, quest’ultimo, come previsto dall’art. 2, co. 3, della Convenzione di New York (nonché dalla maggior parte degli ordinamenti nazionali), dovrà rimettere la causa al collegio arbitrale. Tale effetto, cosiddetto indiretto, tutela l’efficacia dell’accordo arbitrale e ne consente l’esecuzione, essendo, infatti, problematico, se non addirittura impossibile, chiedere, in caso di violazione di tale convenzione, ad esempio, il risarcimento dei danni per inadempimento (per via della difficile quantificazione) oppure l’esecuzione in forma specifica del predetto accordo arbitrale.
In merito alla forma della convenzione arbitrale, si osserva che quest’ultima può essere inserita come clausola in un più ampio contratto (cosiddetta clausola compromissoria) oppure può consistere in documento separato (cosiddetto compromesso). Per quanto riguarda l’autonomia dell’accordo arbitrale rispetto al contratto principale, si osserva che particolari problemi si sono manifestati con riferimento all’ipotesi della clausola compromissoria, essendo, infatti, evidente l’indipendenza del compromesso in relazione alla pattuizione a cui afferisce. Le problematiche inerenti la clausola compromissoria sono state, invece, risolte dalla cosiddetta Doctrine of Separability, secondo la quale la validità della clausola arbitrale non dipende da quella del contratto principale in cui è contenuta e viceversa. L’indipendenza e l’autonomia della clausola compromissoria, sancite dalla predetta dottrina che è stata, peraltro, recepita dalla maggior parte degli ordinamenti e delle regole arbitrali vigenti, consentono di tutelare l’efficacia della convenzione arbitrale e, conseguentemente, di dar effetto alla volontà delle parti di risolvere le controversie tra loro insorte mediante arbitrato.
Una conseguenza di tale autonomia è rappresentata dal fatto che l’accordo arbitrale può essere regolato da una legge diversa rispetto a quella applicabile al contratto principale a cui afferisce. Al riguardo, è opportuno rilevare l’importanza che può rivestire la sede dell’arbitrato, essendo, infatti, la legge di tale luogo quella applicabile al fine di determinare la validità dell’accordo arbitrale in assenza di una scelta diversa delle parti. Si segnala, tuttavia, che, nel caso in cui le parti abbiano individuato la legge regolante il contratto principale, vi è la tendenza ad applicare quest’ultima anche all’accordo arbitrale, salvo diversa pattuizione delle parti (questa è, ad esempio, la posizione prevalente nell’ambito dell’ordinamento inglese).
In merito, poi, alla validità dell’accordo arbitrale, si rileva che tale questione concerne sia gli aspetti formali che sostanziali. Per quanto riguarda i primi, si osserva che il parametro di riferimento principale è costituito dal dettato dell’art. 2 della Convenzione di New York, che prevede, ai fini del riconoscimento dell’accordo arbitrale, il requisito della forma scritta. Tale requisito, secondo la disposizione in questione, è soddisfatto qualora il compromesso o la clausola compromissoria siano sottoscritti dalle parti o siano contenuti in uno scambio di lettere o telegrammi. La ratio sottostante l’elemento della forma scritta è quella di dare evidenza, innanzitutto, dell’effettiva volontà delle parti di adottare l’arbitrato quale mezzo di soluzione delle controversie e, allo stesso tempo, dell’esistenza e del contenuto della convenzione arbitrale. Al riguardo, si rileva che la giurisprudenza, da un lato, ha considerato il predetto art. 2 applicabile anche con riferimento a mezzi di comunicazione più moderni rispetto a quelli ivi contemplati, e, dall’altro, ha adottato un’interpretazione estensiva di tale norma e dei requisiti formali da essa previsti, privilegiando, rispetto al soddisfacimento dei predetti parametri, la tutela della volontà delle parti, qualora espressa in modo chiaro.
L’aspetto della validità sostanziale dell’accordo arbitrale attiene, invece, al consenso delle parti di avvalersi dell’arbitrato per risolvere le controversie tra loro insorte o che sorgeranno. In considerazione di ciò, è necessario che le parti abbiano la capacità di stipulare un accordo arbitrale e che quest’ultimo non sia inficiato da alcun vizio del consenso. Tale questione è, solitamente, regolata dalla legge scelta dalle parti (in proposito, si ribadisce che, qualora queste ultime abbiano individuato la legge regolante il contratto principale vi è la tendenza a considerare applicabili le medesime disposizioni anche all’accordo arbitrale) o, in mancanza, da quella del luogo ove ha sede l’arbitrato, in conformità ai criteri individuati dall’art. 5, co. 1, lett. a), della Convenzione di New York in relazione all’esecuzione del lodo arbitrale e ritenuti applicabili anche alla fase antecedente alla sua emissione.
Un ulteriore aspetto rilevante riguarda la rinuncia delle parti alla convenzione arbitrale, che può essere effettuata tramite specifico accordo oppure, implicitamente, qualora una parte instauri un giudizio ordinario e controparte non si opponga alla giurisdizione del tribunale (il convenuto deve, infatti, svolgere tale eccezione nel primo atto difensivo relativo al merito della controversia).
5. Arbitrability
Una delle tematiche di maggior rilievo ed interesse nel panorama dell’arbitrato internazionale è rappresentata dalla questione della cosiddetta arbitrability, che concerne l’individuazione, da un lato, delle controversie che possono essere oggetto di arbitrato (objective arbitrability) e, dall’altro, dei soggetti che possono partecipare a tale giudizio (subjective arbitrability). Si osserva, inoltre, che negli USA il termine arbitrability è spesso utilizzato con un’accezione particolarmente ampia al punto da comprendere anche la questione della competenza e dell’autorità del collegio arbitrale di decidere una determinata controversia (si veda, in tal senso, la decisione First Option of Chicago v. Manuel Kaplan et and MK Investment, Inc., 514 U.S. 938 – U.S. S. Ct. 1995).
Un primo aspetto rilevante da considerare con riferimento all’arbitrability riguarda la determinazione della legge applicabile a tale questione, in quanto la tipologia di controversie che possono essere oggetto di compromesso varia in base ai diversi ordinamenti nazionali. In merito, è opportuno osservare che l’art. 5, co. 2, della New York Convention, con riferimento alla fase dell’enforcement del lodo. individua, quale legge applicabile alla problematica in oggetto, quella del luogo ove il riconoscimento e l’esecuzione della decisione arbitrale sono richiesti, senza nulla prevedere, invece, circa la fase precedente all’emissione del lodo. Al riguardo, si rileva che l’orientamento giurisprudenziale prevalente ha adottato il medesimo criterio individuato dalla norma di cui sopra anche con riferimento al cosiddetto pre-award stage, ritenendo, quindi, applicabile alla questione dell’arbitrability la legge del luogo ove ha sede il tribunale giudicante o l’arbitrato. Gli ordinamenti nazionali, invece, tendono ad individuare direttamente quali controversie possano, o non possano, essere oggetto di compromesso piuttosto che ad indicare quale sia la legge applicabile al fine di determinare se una specifica questione sia arbitrabile o meno (si vedano, ad esempio, l’art. 177 del Swiss PIL, l’art. 806 c.p.c., gli artt. 2059 e 2060 del codice civile francese).
Un ulteriore aspetto che si ritiene opportuno sottolineare è rappresentato dalla questione se sia possibile per gli arbitri rilevare d’ufficio la carenza di arbitrability e, conseguentemente, rifiutare di decidere la questione a loro sottoposta dalle parti. A tale domanda, sembrerebbe preferibile dare una risposta affermativa, ritenendo, quindi, possibile per il collegio arbitrale negare, eventualmente, la propria competenza a decidere una determinata controversia qualora quest’ultima dovesse risultare non arbitrabile sulla base dei fatti allegati dalle parti – si vedano, al riguardo, i casi ICC n. 1110, 3 Arb Int 282 (1987) e n. 7539, 123 JDI 1030 (1996)–, in quanto le norme imperative e di ordine pubblico, che regolano l’arbitrability, devono, comunque, essere rispettate e non possono essere eluse dalle parti mediante la scelta dell’arbitrato quale meccanismo di risoluzione delle controversie tra loro insorte.
6. Il collegio arbitrale
Le parti sono libere di scegliere, direttamente nell’accordo arbitrale o successivamente al sorgere della controversia, il numero degli arbitri incaricati di decidere delle controversie tra le stesse insorte. In caso manchi tale indicazione, la scelta in questione dovrà essere effettuata sulla base delle disposizioni contenute nel regolamento arbitrale, eventualmente richiamato dalle parti nel compromesso, oppure della legge applicabile alla procedura (solitamente, tale disciplina fa riferimento ad un arbitro unico o a tre arbitri).
Allo stesso modo, il processo di nomina degli arbitri è lasciato alla discrezionalità delle parti. Tuttavia, qualora queste ultime non riescano a raggiungere un accordo o adottino dei comportamenti ostruzionistici e non collaborativi spetta, solitamente, ad un’appointing authority esterna (quale, ad esempio, un istituto arbitrale, un persona fisica o il tribunale ordinario) provvedere in tal senso. Il ruolo di tale autorità riveste carattere fondamentale non solo nei casi sopra menzionati (mancato accordo delle parti o comportamento ostruzionistico di una di loro), ma anche, ad esempio, in relazione alla nomina dell’arbitro unico o del presidente del collegio arbitrale che è spesso affidata sin dall’origine al predetto organo esterno.
In capo agli arbitri nominati sussistono diversi doveri e responsabilità da osservare nell’ambito dello svolgimento della loro funzione di organo giudicante, tra i quali, ad esempio, l’emissione di un lodo valido, il rispetto del principio del contraddittorio e del giusto processo, il dovere di riservatezza, nonché l’obbligo di essere indipendenti ed imparziali e di rimanere tali nel corso di tutto il procedimento arbitrale. In particolare, al fine di assicurare il rispetto dei predetti requisiti di indipendenza ed imparzialità (previsti dalla maggior parte delle leggi e dei regolamenti arbitrali, nonché dai codici etici adottati dall’International Bar Association (IBA) e dall’American Arbitration Association), gli arbitri hanno il dovere di informare le parti, e l’eventuale appointing authority, di quelle circostanze che potrebbero giustificare la loro ricusazione o l’eventuale impugnazione del lodo. Tale obbligo di disclosure sorge nel momento in cui è proposta la nomina dell’arbitro e perdura durante tutto il processo.
La violazione dei predetti obblighi di imparzialità ed indipendenza può condurre alla ricusazione degli arbitri oppure all’impugnazione del lodo qualora quest’ultimo sia già stato emesso.
Al fine di ricusare un arbitro, le parti devono proporre la relativa istanza in un breve lasso di tempo (generalmente non superiore ai 30 giorni) decorrente dalla scoperta del fatto rilevante, ritenendosi, altrimenti, che la parte abbia rinunciato a tale azione (non è, tuttavia, ammissibile la rinuncia alla ricusazione effettuata a priori). Allo stesso modo, le parti non potranno più ricusare l’arbitro dalle stesse nominato qualora tale nomina sia avvenuta nonostante la conoscenza della carenza di imparzialità o indipendenza dello stesso.
Per quanto riguarda, poi, la procedura di ricusazione, si rileva come anch’essa sia lasciata alla discrezionalità della parti e, in mancanza di accordo in tal senso, al regolamento arbitrale (solitamente, negli arbitrati amministrati, qualora le parti, a seguito di istanza di ricusazione di un arbitro, non si accordino sulla sua rimozione o quest’ultimo non si dimetta spontaneamente, sarà l’istituto a dover decidere sulla questione - si vedano, in tal senso le ICC Rules of Arbitration e le AAA - ICDR International Arbitration Rules) oppure alla legge applicabile alla fattispecie concreta (che, in certi casi, conferisce ai tribunali ordinari il potere di decidere sulle istanze di ricusazione, mentre in altri attribuisce tale potere direttamente al collegio arbitrale).
Una questione piuttosto dibattuta è, poi, rappresentata dalla necessità o meno di ripetere alcune attività processuali già svolte (ed, in particolare, quelle istruttorie) nel caso di ricusazione di un arbitro e di nomina del sostituto. In merito, si rileva che, in mancanza di una regola generale, il collegio arbitrale gode di un certo grado di discrezionalità al riguardo, pur dovendo tener presente il diritto di ogni arbitro di partecipare ad ogni fase del procedimento arbitrale e il fatto che, in caso contrario, il lodo può essere oggetto di impugnazione.
In aggiunta ai rimedi della ricusazione e dell’impugnazione del lodo per violazione dei doveri di imparzialità ed indipendenza, si discute se sia o meno possibile per le parti avanzare domanda di risarcimento danni nei confronti degli arbitri che non abbiano adempiuto ai propri doveri. In merito a tale questione, ci si limita ad osservare, in questa sede, che tale responsabilità sembra essere esclusa in presenza di accordo delle parti in tal senso o qualora tale esenzione sia prevista dalle regole applicabili (si rileva, tuttavia, che la maggior parte degli ordinamenti nazionali, al contrario dei regolamenti arbitrali, non contiene disposizioni in merito alla responsabilità degli arbitri, ad eccezione, ad esempio, dell’English Arbitration Act). Inoltre, si rileva che la giurisprudenza ha, generalmente, ritenuto gli arbitri esenti da responsabilità (ad eccezione dei casi di dolo, frode e malafede), equiparandoli così ai giudici per via della funzione dagli stessi svolta.
7. Leggi applicabili al procedimento arbitrale e al merito della controversia
La determinazione delle regole applicabili al processo arbitrale, da un lato, e l’individuazione della legge applicabile al merito della controversia, dall’altro, costituiscono due aspetti particolarmente critici e rilevanti nell’ambito dell’arbitrato internazionale.
Per quanto riguarda la prima questione, si rileva che la disciplina del procedimento arbitrale è generalmente determinata dalla discrezionalità delle parti, le quali possono regolamentare lo svolgimento del processo direttamente, stabilendo cioè già nell’accordo arbitrale le regole procedurali da seguire, oppure indirettamente, richiamando le disposizioni di determinati ordinamenti nazionali o regolamenti arbitrali (in caso di arbitrati amministrati, solitamente, viene fatto riferimento alle regole adottate dall’istituto scelto, mentre negli arbitrati ad hoc si rimanda sovente alle UNCITRAL Arbitration Rules). Le parti possono, inoltre, decidere di adottare, con riferimento ad alcuni aspetti della procedura, regole e standard internazionali non aventi carattere normativo, quali, ad esempio, le Rules on the Taking of Evidence in International Commercial Arbitration adottate dall’International Bar Association. In mancanza di specifico accordo, diretto o indiretto, delle parti in merito alla procedura da seguire, spetterà agli arbitri determinare le regole da applicare al procedimento arbitrale. Al riguardo, è opportuno tener presente che la discrezionalità sia delle parti che degli arbitri, nel regolare il procedimento arbitrale, è sempre soggetta al duplice limite rappresentato dalle norme imperative e di ordine pubblico vigenti nel luogo ove ha sede l’arbitrato, che normalmente sono poste a tutela del principio del giusto processo.
In generale, si osserva che, in caso di mancata indicazione (diretta o indiretta) delle parti in merito alla disciplina applicabile alla procedura, si fa riferimento alla legge della sede dell’arbitrato. Tale principio sembra, peraltro, trovare conferma anche nel dettato della New York Convention, che prevede, tra i motivi che possono dar vita al mancato riconoscimento del lodo arbitrale, il caso in cui la composizione del collegio o la procedura arbitrale non siano conformi all’accordo delle parti o, in mancanza di quest’ultimo, alla legge del luogo ove l’arbitrato ha sede (art. 5, co. 1, lett. d).
Per quanto riguarda, poi, la legge applicabile al merito della controversia, si osserva come anche in questo caso si debba, in primo luogo, guardare alla scelta, espressa o implicita, effettuata dalle parti, che sarà vincolante per gli arbitri (è opportuno precisare che, qualora queste ultime facciano riferimento ad un determinato ordinamento nazionale, tale scelta si intende riferita soltanto alle norme di diritto sostanziale in esso vigenti e non anche alle relative regole di diritto internazionale privato). La discrezionalità delle parti incontra un limite nei principi di ordine pubblico internazionale, che devono sempre essere tenuti in considerazione indipendentemente dalla legge dalle stesse individuata e, conseguentemente, nel caso in cui il contratto sia contrario ai predetti principi, gli arbitri dovranno ignorare la scelta delle parti.
In mancanza di tale scelta, spetterà, anche in tal caso, agli arbitri determinare la legge applicabile al merito della controversia. Ciò potrà avvenire indirettamente, mediante cioè il ricorso alle conflict of laws rules (diversi regolamenti arbitrali consentono agli arbitri di adottare quelle che ritengono più appropriate) oppure in via diretta, mediante l’individuazione di norme di diritto sostanziale (nazionali o internazionali), ma anche di non-legal standards ritenuti dagli arbitri applicabili alla controversia sorta tra le parti (anche in questo caso è riconosciuta agli arbitri la facoltà di scegliere le disposizioni considerate da loro più appropriate, sebbene, in certi regolamenti e leggi arbitrali, venga fatto riferimento a quelle che presentano il collegamento più stretto con la controversia).
Le ipotesi di intervento dei tribunali ordinari nel procedimento arbitrale sono state progressivamente limitate a quelle strettamente necessarie per garantire lo svolgimento della procedura e la piena realizzazione degli interessi delle parti. In generale, si osserva che il predetto intervento, che può rendersi necessario sia nel corso del procedimento arbitrale che successivamente all’emissione del lodo, è consentito quando espressamente previsto dalla legge applicabile o come meccanismo residuale nei casi in cui una determinata questione non sia disciplinata. Inoltre, sempre al fine di non pregiudicare lo svolgimento del procedimento arbitrale, la legge spesso prevede che quest’ultimo possa comunque proseguire anche in caso di giudizio pendente davanti ad un tribunale ordinario.
8.2 Nomina degli arbitri e misure cautelari
In primo luogo, si osserva che le corti rivestono un ruolo importante in sede di nomina degli arbitri (ad esempio, qualora le parti non si accordino sull’arbitro da nominare oppure in caso di empasse del meccanismo di nomina dalle stesse stabilito), nonché nelle ipotesi di ricusazione di questi ultimi.
Tuttavia, il coinvolgimento dei tribunali ordinari nella procedura arbitrale può essere richiesto dalle parti ancor prima della costituzione del collegio o della nomina dell’arbitro unico. Si può, infatti, verificare la necessità per una o entrambe le parti di ottenere un provvedimento cautelare non appena la controversia sia sorta al fine di evitare un pregiudizio grave ed irreparabile. In tali frangenti, non potendo avanzare la predetta richiesta al collegio arbitrale, in quanto non ancora costituito, le parti dovranno rivolgersi direttamente al tribunale ordinario, il cui intervento, andando a beneficio del procedimento arbitrale poiché impedisce che venga pregiudicata la possibilità per gli arbitri di decidere il merito della controversia, non viene considerato incompatibile con l’esistenza di un accordo arbitrale né in contrasto con la volontà delle parti di vedere la vertenza tra le stesse sorta definita mediante arbitrato, anziché giudizio ordinario.
La possibilità per le corti di emettere provvedimenti cautelari con riferimento al procedimento arbitrale non è limitata soltanto alle ipotesi in cui il collegio arbitrale non sia ancora costituito. Difatti, sebbene il potere degli arbitri di emettere misure cautelari sia riconosciuto e disciplinato sia negli ordinamenti nazionali che nei regolamenti arbitrali, vi sono alcuni casi in cui è indispensabile l’intervento dei tribunali ordinari, mancando gli arbitri dell’autorità necessaria per adottare tali provvedimenti (ci si riferisce, in particolare, alla richiesta di misure cautelari da emettere inaudita altera parte oppure nei confronti di terzi estranei al giudizio arbitrale, nonché ai casi in cui sussistono particolari esigenze di celerità).
In generale, in merito all’emissione di provvedimenti cautelari da parte degli arbitri, è opportuno osservare che a tal fine è necessario, da un lato, che sussista il presupposto del periculum in mora e, dall’altro, che la concessione della misura cautelare non pregiudichi la decisione nel merito. Inoltre, per l’adozione dei provvedimenti in questione è necessario che vi sia la richiesta di una delle parti (generalmente le misure cautelari non possono essere emesse ex officio dagli arbitri), che il collegio arbitrale sia competente a decidere la controversia nel merito e che sia rispettato il principio del contraddittorio, con conseguente impossibilità di adottare misure cautelari inaudita altera parte.
Ciò precisato, si rileva che l’intervento dei tribunali ordinari può essere richiesto anche in sede di esecuzione della misura cautelare, qualora la parte, nei cui confronti la stessa è emessa, non esegua spontaneamente quanto disposto nei suoi confronti nel predetto provvedimento, non avendo gli arbitri poteri coercitivi o sanzionatori (salvo che non vi sia un diverso accordo delle parti o tale potere sia previsto dalla legge applicabile), ma potendo soltanto tenere in considerazione il comportamento inadempiente in sede di decisione o in relazione alla ripartizione delle spese legali.
Infine, è opportuno sottolineare due ulteriori aspetti: a) la possibilità per le parti di escludere il potere dei tribunali ordinari di emettere misure cautelari; b) il principio secondo il quale la richiesta delle parti di emissione, da parte del tribunale ordinario, di provvedimenti cautelari non costituisce una rinuncia alla scelta dell’arbitrato quale meccanismo di risoluzione delle controversie tra le stesse sorte e, viceversa, l’esistenza di un accordo arbitrale non esclude la possibilità che le corti possano adottare misure cautelari (al riguardo, si discute se tra tribunali ordinari e arbitri sussista un’effettiva concurrent jurisdiction in relazione all’adozione di misure cautelari).
8.3 Assunzione delle prove
Sempre nel corso del procedimento arbitrale, il coinvolgimento delle corti può risultare determinante anche in relazione alla fase istruttoria. In particolare, l’intervento del tribunale ordinario può essere richiesto in tale fase dalle parti (solitamente previa approvazione degli arbitri) o dallo stesso collegio arbitrale, al fine di sopperire alla carenza di poteri coercitivi in capo a quest’ultimo, che, infatti, non può, ad esempio, disporre l’accompagnamento coattivo del testimone oppure ordinare ai terzi di produrre documenti rilevanti ai fini del procedimento arbitrale in oggetto.
Due ulteriori ipotesi in cui l’intervento dei tribunali ordinari nel procedimento arbitrale diventa rilevante, riguardano, da un lato, la questione della validità dell’accordo arbitrale, e la conseguente determinazione della competenza degli arbitri a decidere della controversia, e, dall’altro, le cosiddette anti-suit injunctions.
Per quanto riguarda la prima problematica, si osserva che, seppur il potere degli arbitri di decidere in merito alla loro competenza (e, quindi, alla validità dell’accordo arbitrale) sia riconosciuto non solo nella prassi, ma anche dalla maggior parte degli ordinamenti nazionali (che hanno recepito la cosiddetta Competence-Competence Doctrine), i tribunali ordinari possono comunque essere chiamati ad esaminare tale questione sia prima che dopo l’emissione del lodo. Ciò si può verificare non solo in sede di revisione della decisione degli arbitri in merito a tale aspetto, ma anche, e frequentemente, nel caso in cui una parte chieda al tribunale di sospendere il giudizio ordinario instaurato dall’altra parte in violazione di una clausola compromissoria. Il principio secondo il quale, in tale circostanza, il tribunale debba rimettere la causa agli arbitri è affermato non solo dall’art. 2 della New York Convention, ma anche dalla maggior parte degli ordinamenti nazionali, purché sussistano i seguenti requisiti: validità dell’accordo arbitrale, richiesta di una delle parti (non si tratta, infatti, di un’eccezione rilevabile d’ufficio) e tempestività di tale richiesta (che dev’essere avanzata in occasione della prima difesa nel merito).
Di fronte alla domanda di una parte di rimettere la controversia in capo agli arbitri, le corti dovranno, quindi, valutare, in primo luogo, se sussista un valido accordo arbitrale. Proprio l’estensione e le modalità di tale valutazione sono state oggetto di discussione. In certi casi, infatti, la giurisprudenza ha ritenuto che, nella fase antecedente all’emissione del lodo, i tribunali ordinari debbano limitarsi ad una verifica prima facie dell’esistenza e validità dell’accordo arbitrale, mentre, in altre circostanze, ha adottato un’interpretazione più estensiva, non ponendo limiti alla valutazione dei tribunali ordinari in merito alla validità della convenzione arbitrale.
Un’altra ipotesi in cui le corti, sempre anteriormente all’emissione del lodo, possono essere chiamate a decidere in merito alla validità dell’accordo arbitrale riguarda la nomina degli arbitri, potendo, infatti, accadere che una delle parti si rifiuti di nominare il proprio arbitro sulla base della presunta invalidità del compromesso. Anche in questo caso è sorto il problema in merito all’esistenza di eventuali limiti applicabili all’esame di tale questione da parte dei tribunali ordinari.
La seconda questione sopra menzionata riguarda, invece, le anti-suit injunctions, ossia quei provvedimenti emessi dai tribunali ordinari, soprattutto nei paesi di common law, con i quali viene ordinato a una parte, e in certi casi anche agli arbitri, di non proseguire il giudizio arbitrale eventualmente iniziato oppure, al contrario, si impedisce che venga instaurato o continuato un processo ordinario in violazione di un accordo arbitrale. In proposito, si rileva che è necessario, innanzitutto, che il tribunale abbia giurisdizione sulle parti o sugli arbitri nei cui confronti tali provvedimenti sono emessi e che sussistano, inoltre, requisiti ben precisi, quali, ad esempio, la validità dell’accordo arbitrale, l’esistenza di un pregiudizio grave e irreparabile per la parte che ne fa richiesta, la tempestività di tale domanda.
9. Il lodo arbitrale
9.1 Caratteristiche principali
I lodi arbitrali, al pari delle sentenze dei tribunali ordinari, possono decidere in modo definitivo tutte (final award) o solo alcune (partial award) questioni oggetto della controversia sorta tra le parti oppure possono consistere in decisioni non definitive (interim award), che, secondo l’orientamento prevalente, non possono essere oggetto di enforcement ai sensi della New York Convention.
Gli ordinamenti nazionali e i regolamenti arbitrali contemplano, poi, anche un’ulteriore figura di lodo, il cosiddetto consent award, che consiste in una decisione che riproduce l’accordo transattivo concluso tra le parti nel corso del procedimento arbitrale e che sembra poter essere oggetto di enforcement ai sensi della sopra citata Convenzione.
Altre due tipologie di lodi arbitrali sono i cosiddetti default award e additional award. Il primo rappresenta la decisione emessa al termine di un procedimento svoltosi in contumacia di una delle parti, mentre il secondo consente agli arbitri di decidere le questioni non definite nel corso dell’arbitrato (tale lodo è definitivo e soggetto al regime di esecuzione previsto dalla New York Convention).
Si rileva, inoltre, che, mentre la correzione del lodo da parte degli arbitri è, generalmente, consentita dalla legge e dai regolamenti, non lo è altrettanto la sua interpretazione, intesa quale chiarimento di una parte specifica della decisione (ad esempio, le modalità di esecuzione) espressa in modo eccessivamente vago o ambiguo. Resta, ovviamente, precluso agli arbitri modificare o alterare il contenuto del lodo mediante il procedimento di correzione o interpretazione.
Per quanto riguarda, poi, il processo deliberativo, si osserva che la decisione, in presenza di un collegio arbitrale, viene adottata, solitamente, in base al criterio maggioritario e che, seppur ciò accada raramente, le parti o la disciplina applicabile possono prevedere un termine per l’emissione del lodo, il quale, una volta adottato, dovrà essere notificato alle parti al fine della decorrenza del termine per l’eventuale impugnazione.
In merito, invece, al contenuto della decisione, ci si limita ad osservare l’importanza dell’indicazione del luogo ove la stessa è stata resa, in quanto ciò consente di determinarne la “nazionalità”, la quale risulta rilevante sia con riferimento alla fase di riconoscimento ed esecuzione del lodo sia al fine di individuare il tribunale ordinario competente a decidere dell’eventuale impugnazione.
Un ulteriore aspetto che si ritiene opportuno sottolineare riguarda la pubblicazione del lodo arbitrale. Tale possibilità è contemplata dai regolamenti arbitrali qualora vi sia il consenso di tutte le parti coinvolte nel procedimento. Tuttavia, si deve osservare che nella prassi molte decisioni sono oggetto di pubblicazione seppur in assenza del predetto consenso, purché vengano omessi i nomi e gli elementi che possono determinare l’identificazione delle parti.
9.2 Impugnazione, riconoscimento ed esecuzione del lodo arbitrale
La parte soccombente di un giudizio arbitrale può impugnare il lodo davanti al tribunale ordinario del luogo ove tale decisione è stata emessa oppure può opporsi alla sua esecuzione richiesta dalla controparte. È raro, invece, che sia prevista dalla legge la possibilità di appellare il lodo, in quanto ciò sarebbe in contrasto con il principio secondo il quale tale decisione è definitiva e finale. Al riguardo, si osserva, tuttavia, che in alcuni ordinamenti (in particolare, in quelli inglese e statunitense) è consentita l’appellabilità del lodo in punto di diritto, qualora, in particolare, vi sia stata da parte degli arbitri un’applicazione della legge manifestamente erronea e, allo stesso tempo, quella corretta avrebbe comportato un esito diverso.
Come sopra menzionato, l’impugnazione del lodo può essere proposta soltanto davanti al tribunale del luogo ove lo stesso è stato emesso, che, solitamente, coincide con la sede dell’arbitrato (particolari problemi possono sorgere con riferimento ai cosiddetti anational awards, in quanto tali decisioni non presentano connessioni con alcun ordinamento nazionale, come nel caso, ad esempio, degli arbitrati sportivi o di quelli on-line). Si rileva, tuttavia, che in alcuni casi, in base al dettato dell’art. 5, co. 1, lett. e) della Convenzione di New York, è stata ritenuta ammissibile anche l’impugnazione promossa davanti alle corti dello stato la cui legge era quella applicabile al merito della controversia.
In merito ai motivi di impugnazione, si osserva, poi, che gli stessi tendenzialmente coincidono con quelli previsti dal predetto articolo 5 della New York Convention in materia di enforcement del lodo, che verranno esaminati in seguito.
Per quanto riguarda, invece, il riconoscimento e l’esecuzione del lodo, si osserva che, come noto, la carenza di poteri coercitivi in capo agli arbitri fa sì che questi ultimi rientrino nella sfera di competenza dei tribunali ordinari.
Al riguardo, si rileva che la New York Convention ha notevolmente semplificato il regime di riconoscimento ed esecuzione dei lodi arbitrali stranieri e ha armonizzato le leggi nazionali in materia. In particolare, tale convenzione stabilisce dei requisiti formali minimi necessari per il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni arbitrali straniere (art. 4) e individua un elenco di motivi che ne possono legittimare il rifiuto (art. 5). In merito, occorre sottolineare che gli stati contraenti non possono derogare in peggio al regime di enforcement stabilito dalla Convenzione (aggiungendo, quindi, dei motivi ulteriori rispetto a quelli indicati dal predetto art. 5), ma possono adottare un sistema di esecuzione più favorevole (ai sensi dell’art. 7 della New York Convention, infatti, le parti possono richiamare un ordinamento più favorevole anche qualora l’esecuzione del lodo sia richiesta ai sensi di tale convenzione).
Per quanto riguarda l’ambito di applicazione della convenzione in oggetto. si osserva, in primo luogo, che la stessa si applica esclusivamente ai lodi arbitrali che siano definitivi e stranieri, e cioè decisioni rese in uno stato diverso da quello ove il riconoscimento e l’esecuzione sono richiesti (criterio territoriale) oppure decisioni che non sono considerate domestiche in tale stato (criterio funzionale).
È, inoltre, prevista dall’art. 1, co. 3 la possibilità per gli stati contraenti di limitare l’ambito di applicazione della Convenzione ai lodi resi in altri stati contraenti (cosiddetta riserva di reciprocità) e a quelli relativi alle controversie commerciali. Il concetto di “commerciale” non è definito nella Convenzione ed è, pertanto, determinato dalla legge del luogo ove ha sede il tribunale ordinario incaricato dell’esecuzione (la cui giurisdizione sussiste qualora in tale luogo siano presenti dei beni del convenuto).
I requisiti formali necessari per l’enforcement del lodo, come sopra menzionato, sono individuati dall’art. 4 della Convenzione, il quale prevede che la parte richiedente produca una copia autentica della decisione arbitrale e l’originale o la copia dell’accordo arbitrale (entrambi accompagnati, se necessario, dall’eventuale traduzione nella lingua del paese ove l’esecuzione è richiesta).
I motivi in base ai quali il tribunale ordinario può rigettare la richiesta di riconoscimento ed esecuzione del lodo sono, invece, individuati dall’art. 5 della Convenzione sopra citato e possono essere così riassunti: incapacità delle parti di stipulare l’accordo arbitrale; invalidità dell’accordo arbitrale ai sensi della legge indicata dalle parti quale legge applicabile o, in mancanza di tale scelta, di quella del luogo ove la decisione è stata resa; violazione del principio del giusto processo; eccesso di competenza da parte degli arbitri; irregolarità nella nomina del collegio arbitrale o nella procedura; sospensione o annullamento del lodo arbitrale oppure qualora quest’ultimo non sia ancora divenuto vincolante. A tali motivi si aggiungono i casi, previsti dal secondo comma della norma in questione, in cui la controversia non può essere oggetto di compromesso, ai sensi della legge del luogo ove il riconoscimento e l’esecuzione sono richiesti, e in cui il lodo sia contrario ai principi di ordine pubblico di tale luogo.
Le predette circostanze, che devono essere provate dalla parte contro la quale l’enforcement è richiesto (soltanto la violazione dei principi di ordine pubblico o la carenza di arbitrability della controversia sono, infatti, rilevabili d’ufficio), costituiscono delle eccezioni al principio generale di riconoscimento ed esecuzione dei lodi stranieri (per tale ragione, come sopra menzionato, è vietato agli stati contraenti aggiungere ulteriori motivi rispetto a quelli elencati nella norma in oggetto). Inoltre, è opportuno sottolineare che, anche qualora l’onere della prova sia assolto dalla parte, il tribunale ordinario può comunque decidere di procedere ugualmente con l’enforcement del lodo (tuttavia, si segnala che in alcuni ordinamenti si ritiene che, in tali casi, sussista l’obbligo di rifiutare l’esecuzione della decisione in quanto alla parola «may», contenuta nell’art. 5 della Convenzione, viene attribuito il significato di «shall»).
Fonti normative
Convenzioni internazionali: Amman Arab Convention on Commercial Arbitration, 14.4.1987; European Convention on International Commercial Arbitration, 21.4.1961; Inter-American Convention on International Commercial Arbitration (Panama Convention). 30.1.1975; New York Convention on the Recognition and Enforcement of Foreign Arbitral Awards, 10.6.1958; Washington Convention on the Settlement of Investment Disputes between States and Nationals of other States (ICSID Convention). 18.3.1965.
Leggi nazionali: artt. 2059-2060 codice civile francese; art. 1492 codice di procedura civile francese; art. 806 c.p.c.; English Arbitration Act; artt. 176-177 Swiss PIL; UNCITRAL Model Law.
Regolamenti arbitrali: AAA-ICDR International Arbitration Rules; CIETAC Arbitration Rules; ICC Rules of Arbitration; ICSID Arbitration Rules; LCIA Arbitration Rules; UNCITRAL Arbitration Rules.
Standard internazionali: AAA Code of Ethics for Arbitrators in Commercial Disputes; IBA Rules on the Taking of Evidence in International Commercial Arbitration; IBA Rules of Ethics for International Arbitrators.
Bibliografia essenziale
Bernardini, P., L’arbitrato nel commercio e negli investimenti internazionali, Milano, 2008; Born, G., International Commercial Arbitration, AH Alphen aan den Rijn, 2009; Fouchard, P.-Gaillard, E.-Goldman, B., On International Commercial Arbitration, The Hague-Boston, 1999; Lew, J.-Mistelis, L.-Kroll, S., Comparative International Commercial Arbitration, The Hague, 2003; Mistelis, L. Concise International Arbitration, AH Alphen aan den Rijn, 2010; Redfern, A.- Hunter, M., On International Arbitration, Oxford, 2009; Rubino Sammartano M., Il diritto dell’arbitrato, Padova, 2010.